sabato 10 ottobre 2009

Appeso con due dita alla vita - Prima della cena

La serata si presentava perfetta. Pareva che anche le nuvole si fossero messe d'accordo, sgombrando il campo e lasciando il posto ad un tramonto dove ogni stella sembrava fosse stata messa lì apposta e puntata con uno spillo ad una volta incredibilmente blu che sfumava verso un rosa carico al di là delle cime dei Re Magi. L'afa inusuale del pomeriggio aveva abbandonato definitivamente la valle ma ogni pietra ed ogni muro pulsavano ancora del calore che avevnoa ricevuto e che adesso, lentamente restituivano.

Paco aveva passato un tempo infinito, avvolto nel vapore caldo della doccia, rilassandosi immobile, con gli occhi chiusi e l'acqua che, dai capelli scendeva giù lungo il corpo, lavandogli le ferite, quelle fuori ed anche quelle vecchie che, dentro, ultimamente sembravano bruciare meno. Ne era uscito solo dopo che Renato aveva minacciato di staccargli l'acqua calda, con tanto di ripetute manate sulla porta del bagno, accompagnate da una canzone inventata sul momento e urlata a squarciagola che verteva sul perchè aveva così tanta urgenza. Malvolentieri, alla fine aveva ruotato il rubinetto. Si era messo ancora gocciolante davati allo specchio appannato e, con un dito aveva disegnato i propri lineamenti, rivelando il proprio riflesso ed esaminandosi man mano che si riscopriva piano piano. La persona che gli stava di fronte non sorrideva. Era in forma, anche se, forse, sembrava un pò troppo magra. Aveva la barba ispida e capelli spioventi, pallide occhiaie, qualche taglio arrossato e lividi un pò dappertutto. E lo fissava in silenzio, con uno sguardo spento, stanco. Non si riconosceva, non pensava di essere veramente così. Lentamente, si mise a ruotare il penello nel sapone da barba e, sempre fissandosi, incominciò a radersi.
Dopo la barba e dopo aver dato una parvenza di ordine ai suoi capelli perennemente arruffati, dopo essersi asciugato, pulito per bene ed anche profumato, quello che lo fissava dall'altra parte dello specchio aveva un'aria quasi decente, anche se di provare a sorridere neanche a parlarne. Uscì dal bagno, quasi investito dall'impellente urgenza di Renato, che aveva minacciato di fargliela sul letto. Tutto quello che l'amico aveva ingerito nel pomeriggio, adesso reclamava improvvisa vendetta.
Si vestì, piano, cercando di non alzare troppo il braccio per non sentire il male in agguato tra le costole. Indossò semplicemente un vecchio paio di Levi's puliti che poi erano i suoi preferiti con sopra la maglia nera che aveva appena ricevuto in regalo. Poi, in attesa che si prepararasse anche l'amico, si rifugiò in un libro di Cussler che da parecchio non riusciva a finire.

Patti era già pronta, con un'ora abbondante di anticipo. Aveva prenotando il tavolo e discusso sul menu e sui vini il giorno prima, immediatamente dopo la telefonata con Paco, ed aveva preteso quasi l'impossibile, assecondata dalla compunta gentilezza del personale dell'albergo che la conoscevano bene. Quando organizzava le cose lei tutto, senza esclusioni, doveva funzionare alla perfezione, come un ingranaggio ben oliato. Poi aveva indottrinando pesantemente anche il fratello, perchè si dimostrasse gentile ed affabile, mentre quello ancora schiumava di rancore. Infine aveva preso il SUV e si era allontanata da sola.

Anche la signora Lucia si stava preparando per l'evento sorridendo civettuola mentre si faceva aiutare da Sveva con il trucco. Il pomeriggio del giorno prima, mentre predevano il tè in giardino, aveva captato, origliando apertamente e senza vergogna, quello che era capitato al giovane Isnardi (gioiendo nel suo intimo perchè quel bestione maleducato mai le dedicava un'attenzione o una cortesia) e quello che la bella sorella aveva successivamente organizzato. Curiosa come un furetto, aveva subito chiesto a Sveva di riservare per la sera dopo dopo il tavolo a fianco della compagnia.
Sveva era in attesa, fresca ed elegante, proprio come voleva la signora, pronta a porgerle la sua borsa. Si sistemò velocemente una ciocca di capelli con una mano, concedendosi un ultimo controllo allo specchio davanti alla porta. L'immagine che quello gli restituì era ben diversa da quella di pochi anni prima. Adesso finalmente si sentiva bella, molto più sicura di se ed in qualche modo addirittura sfrontata. Il mondo aveva smesso di incuterle paura, almeno per il momento.
Guardò la vecchia signora e le sorrise, di un sorriso che valeva molto di più di quel che sembrava. E ricordò. D'altronde lo faceva sempre.

La signora Lucia era la terza anziana per cui lavorava, da quando era in Italia.
La prima era stata Nonna Ida, nella calda e chiassosa Roma, appena arrivata, quando ancora aveva paura ad uscire fuori casa e non capiva un accidente di quella lingua colorata da tutte le sfumature di quel dialetto, tanto che alla fine quello che sentiva le appariva assurdo ed incomprensibile. Nei capelli bianchi, nella magrezza consunta ed in quelle mani rugose dalle dita ossute rivedeva la sua di nonna, e aveva finito in fretta con l'attaccarsi a lei ed ai suoi nipotini con un affetto quasi morboso da bimbina spaventata, che la confortava e la faceva sentire protetta. Sentiva di appartenere nuovamente ad una famiglia ed era tutto quello che le serviva per non affogare nelle sue lacrime che non avevano ancora smesso di scendere. Nonna Ida era una piccola e delicata ma grintosa vecchietta; non camminava quasi più ma la testa le funzionava bene. Aveva fatto l'insegnante da giovane e, con la pazienza e la caparbietà che a volte solo gli anziani riescono ad avere, pazientemente aveva saputo dipanare gli oscuri oceani dell'incomprensione, dandole una rotta da seguire. E lei aveva imparato.
E si era attaccata a quell'acuto odore di canfora dei vestiti negli armadi, ai fine settimana sul lungomare di Ostia, alle fresche risate di loro due quando tentava di imparare gli stornelli romani che Ida le cantava, al calore del sole affacciata alla finestra declinando in continuazione i verbi, e dove ci va la q unvece della c, e della mano di nonna Ida che le stringeva vigorosamente la sua quando si distraeva se il suo sguardo si perdeva sui tetti circostanti fino ai colli e l'ultimo sole indorava tutto come fosse oro.
Ma nonna Ida se ne andò, serenamente e silenziosamente, una notte fredda e ventosa di un inverno che stava appena cominciando ad allargare il suo gelido mantello. Ed era nuovamente lì, sofferente e sola, inerme ed in un paese sconosciuto. Non era ancora pronta ad affrontare di nuovo la morte.
La seconda era stata peggio. Si chiamava Lia ed era un'odiosa e maligna vecchia su un letto d'ospedale, dotata di una cattiveria che, almeno, le aveva impedito di affezionarsi, anche se, in fondo, non ce l'aveva fatta completamente. Comunque non l'avrebbe mai chiamata nonna. Ed in quei due anni che era stata sotto di lei ne aveva veramente sopportate tante, forse troppe. I continui capricci, gli ordini impartiti come se lei fosse solo una serva stupida con quella voce rauca e cattiva, gli insulti gratuiti e le ripicche quando non riusciva a capire o a fare le cose in fretta. Era entrata in quella casa per dare una mano ad un figlio ancora succube ed esasperato, che le allungava spesso qualche banconota in più perchè lei rinunciasse alle sue giornate di libertà pur di allontanarsi a respirare. E a lei i soldi in più facevano comodo. Aveva lavorato sodo in quegli anni, obbedendo silenziosa, lavandola e pulendola coscienziosamente quando se la faceva addosso apposta solo per farle un dispetto, dormendo pochissimo scrivendo a sua madre e leggendo tanto, come le aveva insegnato Ida. E ogni mese, puntuale, spediva a casa il vaglia con i soldi faticosamente sudati. Aveva seguito la vecchia anche quando per le esigenze di lavoro del figlio si erano spostati a Torino e lì, tra le bancarelle del mercato della Crocetta aveva conosciuto la signora Lucia, una simpatica vecchietta della Torino bene di un tempo che abitava sola in un grande appartamento lì vicino. Avevano legato subito, vedendosi quasi tutti i giorni agli stessi banchetti intente a fare la spesa. Una mattina l'aveva aiutata a portare le pesanti borse di plastica della spesa e parlando si erano sorprese molto simili, malgrado la loro differenza d'età. Era iniziata una complicità che le portava a fermarsi per un the veloce nel pomeriggio, a scambiarsi pettegolezzi e favori. Lucia le aveva regalato gli scorci più segreti e meravigliosi di Torino. L''aveva portata al Valentino ed in Piazzetta Maria Teresa, a Palazzo Reale, al Museo Egizio ed in mille altri posti, raccontandogliene con dovizia di particolari la storia; l'aveva sorpresa quando le aveva fatto gustare il "bicerin", in quel piccolo e delizioso bar vicino alla Consolata. Ogni loro incontro era uno stretto nodo nella rete della loro amicizia. E così quando l'improvviso aggravamento della malattia della signora Lia aveva dato l'occasione al figlio a ricoverarla in una struttura assistenziale (occasione che lui aveva preso al volo) scaricando tutte le angherie dell'altra a carico di infermiere professioniste, il passaggio a casa di Lucia era sembrato a tutte e due la cosa più logica da fare. E così avevano fatto.
Ed oggi erano erano lì, tutte e due eleganti e pronte a gustarsi una bella serata. Sveva sorrise alla sua immagine allo specchio e, cedendo il passo alla vecchia signora, uscirono dalla camera.

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