martedì 30 gennaio 2024

L'Oki



Estate 2022. 

Un feroce mal di schiena da un mese a questa parte non mi dà tregua, il mio migliore amico del momento è celato dentro due bustine di miracolosa polvere bianca che, disciolte in un bicchiere d'acqua, con quel sentore di menta e fresco, mi concedono una temporanea parentesi da un dolore mordace, insistente, che per il resto della giornata so che non mi abbandonerà. Ho cantieri lontano dal mio studio, Pavia, Modena, luoghi, piazze e storia che avrei voluto scoprire e vivere. Ma uscire dall'auto una volta arrivato è già un'impresa; rientrarci, un paio d'ore dopo, rigido come uno stoccafisso, diventa quasi impossibile. In più di un'occasione ho fatto di necessità virtù, svolgendo il compito di Direttore Lavori disteso, nell'impossibilità di reggermi in piedi o tentare di star seduto. Inutile dire che ho suscitato più di un sopracciglio alzato: avete presente, arrivare in cantiere, chiedere un minimo di comprensione, allungarsi su un tavolo (o in alternativa sul pavimento) e gestire la riunione di cantiere come nulla fosse? Beh, quello sono io, l'ing. D&R in carne, ossa ed ernia del del disco.

La diagnosi infatti già la so, il medico della mutua, quando mi nota in sala d'attesa (ci vado raramente, ma lui sa che quando sono lì è perchè proprio non posso farne a meno), sospira, allarga le braccia e mi spiega che, una buona volta, dovrei dar ragione ai numeri scritti sulla mia carta di identità ed abbandonare tutte le mattane da ragazzino: basta una buona volta con la corsa, addio ad imbrago e scarpette, un bel paltò color anziano e Oppalalà!, a guardar cantieri dall'altra parte della recinzione. "Ai miei tempi mica si lavorava così, sa, giovanotto....".

Ottenuta l'agognata scorta di antidolorifici e salutato il dottorino riprendo la mia giornata, fatta di alzatacce, viaggi, cantieri, viaggi, studio, progetti, litigate, eccetera, tutte condite da quel male persistente ed inframmezzate da parentesi quasi miracolose poco tempo dopo l'assunzione della magica pozione. La notte, (per fortuna è estate), tutto si acquieta dormendo al fresco sul duro del parquet. 

Attendo il fine settimana quasi come una liberazione. Rimanere immobile ore intere, senza sentire che qualcosa mi sta azzannando all'altezza del bacino è una goduria; l'assenza di dolore è una sensazione meravigliosa. 

E' estate piena. No so come ma ho anche qualche amico in quel di Bucodiculoplace, autoctoni relativamente fuori dagli schemi che per un motivo ignoto non dico che mi comprendano, ma quantomeno mi sopportano. E la domenica mattina è diventata abitudine, prima che il caldo diventi opprimente, fare quattro passi insieme, lontano dalla desolata cittadina, nelle vicinanze del grande fiume ad ammirarne il placido scorrere, i voli aggraziati degli aironi, a volte, quando siamo fortunati, uno sparuto gruppo di daini, che fugge spaventato non appena ci scorge.

Quest'anno la calura è molto forte, non piove da tempo, e le acque sono insolitamente basse e incredibilmente limpide. Non so come, ma nasce proprio durante una di queste passeggiate mattutine l'idea di provare ad attraversarlo a piedi da sponda a sponda. Del nostro gruppo fa parte Franco, diversamente alto e abile al nuoto come un ferro da stiro, che rappresenta l'elemento sacrificabile ideale per individuare il giusto percorso di guado fino al versante opposto. E così, dopo qualche serata passata a discuterne davanti ad una birra fresca, una domenica di fine luglio, cacciati nello zaino le scarpe e qualcosa per asciugarci una volta arrivati, decidiamo di tentare l'epica impresa. 

L'acqua è effettivamente bassa, fresca, sotto le barche ormeggate placide fanno capolino timidi avannotti; nei punti più profondi arriva a lambirmi l'ombelico, questo significa che Franco deve già tenere la bocca chiusa e le mani in alto per mettere al sicuro lo zaino, tipo soldato americano nelle risaie della guerra del Vietnam. Gli manca l'elmetto con la retina e il fucile, ma l'effetto è lo stesso. Il fiume è calmo, largo, gli alberi sulle rive ci si specchiano, il fondale melmoso tenta di avvilupparti i piedi, ogni tanto un guizzo scintillante indica che c'è ancora vita, in questo vecchio fiume.  

 
Dopo qualche minuto lentamente, la china inizia a risalire, ce ne accorgiamo anche dal fatto che Franco ha smesso di fare le bolle e ripreso a respirare normalmente.

Meno di mezz'ora e la nostra leggendaria traversata è già terminata. Non ci rimane che curiosare la boscaglia circostante per poi ritornare sui nostri passi. L'area è praticamente disabitata, il paesaggio sembra lunare nei punti il fiume ha esondato quest'inverno, ridisegnando il proprio alveo, riappropriandosi di spazi che l'uomo, nel tempo, ha solamente preso in prestito. Più lontano ozia qualche cava abbandonata, con le scure acque profondissime.  I miei amici conoscono la zona ma io no, e chiedo loro di ritornare indietro passando da lì per raggiungere il primo ponte, anzichè rifare il guado. Anche Franco, che non ha memorizzato le buche più profonde all'andata, è dalla mia parte. 

Non è una grandissima idea intendiamoci, attraversare il nulla sotto il sole a picco ed allungare il percorso di almeno un'ora non è una delle mie trovate più brillanti, ma non abbiamo fretta e alla fine va bene a tutti. Ci incamminiamo tranquilli, chiacchierando del più e del meno, ogni tanto mi si indica una cascina in lontananza (qui i piccoli raggruppamenti rurali vengono chiamati "tetti", creando all'inizio in me non poco sconcerto), mi vengono raccontati episodi particolari capitati in quei posti. Bucodiculoplace riserva sempre comunque qualche sorpresa.

Ad un tratto, percorrendo un sentiero tra interminabili campi di mais mi attira un rumore sommesso, una specie di flebile lamento. Chiedo silenzio, ci fermiamo, ma nessuno sembra averlo avvertito: oltre al frinire delle cicale di sottofondo non c'è nulla. Di fianco a noi un solitario albero concede poca ombra.

Poi di nuovo. Più distinto, ora lo sentiamo tutti. Sembra provenire dall'albero.

Giro intorno al tronco, il lamento è più forte, sembra una debole richiesta di aiuto, come se qualcosa avesse percepito la nostra presenza.

E di colpo lo scorgo. Arrampicato con la forza della disperazione su quell'unico albero nel nulla che lo circonda, a due metri o poco più d'altezza, un gattino, minuscolo, sparuto, magrissimo, emette un miagolio roco.

Ho letto da qualche parte che, quando la vita decide di premiarti, pone un gatto sulla tua strada.

Accade proprio così, lo sento. In quello specifico istante ho la consapevolezza che lui, quel miuscolo esserino frignante e pulcioso (come scoprirò in seguito), imprevedibilmente, da quel momento in poi sarà parte della mia famiglia.

Lo raccolgo con attenzione e il cucciolo si abbandona quasi con riconoscenza entro il guscio protettivo delle mie mani. Un istante dopo un nugolo di api mediamente incazzate ci costringe ad allontanarci di corsa, io con quel cosino tenuto ben nascosto. 

Chissà da quanto tempo sarà stato lì, così piccolo, ma la facilità con cui si è lasciato prendere mi fa pensare che possa essere domestico: magari la sua mamma lo sta cercando, ma a parte noi non c'è niente, non giunge nessun suono, nessun richiamo. La prima cascina disterà si e no un paio di chilometri, difficile pensare che possa essersi allontanato così tanto da solo. L'idea che possa esser stato abbandonato sembra la triste soluzione più probabile. Ma provo a metterlo per terra per vedere se cerca la strada di casa, si allontana di pochi passi ma solo per fermarsi e distendersi a cercare ristoro nello spazio creato dalla nostra ombra.

A questo punto lo raccolgo e me lo metto nello zaino, lui lascia fare, sporge il musino guardandomi senza paura, ogni tanto emette un miagolio roco, poi osserva incuriosito intorno con l'espressione di "ma guarda, questo umano mi porta a spasso". Dall'interno dello zaino emerge, profondo, un ronron confortante. 

Lo studio con attenzione. Bello certamente non è, sparuto, il manto sporco, gli occhi cisposi. Ma il suo sguardo è quello che mi colpisce. Attento, pulito, senza paura.

Meno di un'ora dopo siamo finalmente in paese. Dal più vicino tra noi riusciamo finalmente a dargli un po' d'acqua, che beve avidamente. Chissà da quanto era bloccato su quell'albero, da solo e al caldo. L'ipotesi di una nuova casa lì viene rapidamente scartata dal capofamiglia con una votazione a maggioranza fortemente incostituzionale, sfruttando l'assenza momentanea dei figli e l'astensione forzata (pur con molto rimpianto) della di lui consorte, "non pensarci neppure e portatelo via prima che rientrino i ragazzi", sono praticamente pronti a partire per le vacanze. Decidiamo di comune accordo di spargere in giro la voce per vedere se qualche conoscente di buon cuore sia in cerca di un pelosino da adottare.

La mia parte razionale approva, abbiamo già una gatta, discretamente dispotica, abituata a comandarci a bacchetta, ha poco senso stravolgerci/le la vita con un secondo. E poi la consorte già da tempo aveva emesso il proclama definitivo, definendo in tre il numero massimo di animali consentiti in famiglia, includendo il sottoscritto e la Ciccia nella lista. Meglio per lui, per Yuma, per per la sua futura famiglia, per  la nostra sanità mentale, trovargli una più consona  collocazione.

Ma è la mia parte irrazionale che emerge, che ne ascolta rapito le fusa, che ne studia i movimenti impacciati, il disegno del manto, la parte di pelo bianchissima sotto la gola nonostante tutto il resto sia lercio... C'è un legame tra me e quell'esserino, c'è qualcosa dell'uno che appartiene all'altro, forte e saldo, da quel preciso istante in cui l'ho recuperato dall'albero.

Entro in casa, zaino in spalla, il musino che guarda attento. "Ho trovato questo", dico mettendolo sul palmo aperto e mostrandolo alla sua nuova famiglia.

La consorte mostra, come da prassi, una costernazione di facciata, deve manifestare la sua contrarietà consona al ruolo, anche se è difficile non intenerirsi dinanzi a quel batuffolo inerme. "Com'è bruttino", esclama invece la Ciccia, prendendoselo immediatamente in braccio. Lui sporge le zampe, cercando di giocare con i suoi capelli, è già a suo agio. 

"Come faremo?" domanda la consorte. "Faremo", le rispondo. 

"E con Yuma?" chiede ancora. "Vedremo", replico.

Come se l'avessimo chiamata Yuma si palesa, lenta, l'aria annoiata del felino che è stato appena infastidito dalla caciara di noi umani.

Poi lo vede, e si blocca. Lui la guarda e, senza nessuna paura, prova due timidi passi a mò di approccio.

Con una trasformazione più rapida di quando Bruce Banner muta in Hulk, il nostro gatto, solitamente ciccio, in un attimo diventa una minitigre siberiana, ringhiante, con il pelo irto e le orecchie all'indietro, tutta sputi e artigli. Decidiamo di sottrare l'esserino ancora inconsapevole da una morte prematura tagliato a striscioline sottili e la prima notte la passerà al sicuro sul balcone di casa, in una cuccia improvvisata preparata dalla Ciccia e protetto dalle intemperie con un lenzuolo a mò di tenda. Il giorno successivo, con il perdurare dell'ululato belluino di Shere Kan, che sancisce l'impossibilità momentanea della convivenza, decido di portarmelo in studio, poi quando ci fermeremo per le vacanze riproveremo. 

E così faccio. E per tutto il mese successivo diventerà il mio compagno di lavoro, accompagnandomi al bar per la colazione, con il musetto curioso sporgente dallo zaino cercando di ghermirmi rapido un pezzetto di croissant, giocando con le palline di carta, con i fili della tastiera, con le chiavette usb, arrampicandosi freneticamente sui jeans al momento del pranzo e crollando esausto subito dopo sul tappetino del mouse.

 
Nonostante il perdurare del dolore alla schiena è stato un bel mese devo dire, il tempo al lavoro è sembrato scorrere più leggero e l'esserino si è fatto subito benvolere da tutti, mordendoci indistintamente le caviglie, pretendendo un po' di coccole e addormentandosi equamente tra tutti noi. Il nostro personale rapporto si rafforzava con il passare dei giorni e lasciarlo lì, la sera, era sempre una dolce piccola tortura. 

La prima visita dalla veterinaria me la ricordo bene, con un panciotto pieno di vermi come da manuale ma sano, vivace ed in salute. Compilando il libretto sanitario la dottoressa è scoppiata a ridere al termine del seguente scambio: "Come lo chiamiamo?" "L'Oki" rispondo io. "Ah bello, come il Dio della mitologia" - "No, come l'antidolorifico". Non potevo dargli un nome diverso. E così L'Oki fu.

 

Dopo un mese, nella pausa di agosto tentiamo il reinserimento, che risulterà lungo e complicato, con l'ostracismo feroce della padrona di casa, costringendoci a dividere l'appartamento in due per mezzo di un grosso pannello di plexiglas trasparente. Alla fine sarà la testardaggine del cucciolo a vincere, andando a curiosare il terreno nemico approfittando di un piccolo varco mentre noi non eravamo in casa e rimanendo miracolosamente incolume. Da lì in poi è stato tutto più facile.


Oggi L'Oki è un gatto guascone, simpatico e terribile, che pretende la sua dose di gioco ogni sera, mordendomi i piedi quando provo ad isolarmi dal mondo con cuffie e tastiera (ebbene sì, mi sono messo in testa di imparare pianoforte, ma questa è un'altra storia). Bellissimo e testone, adorabile con i bambini e pronto alle fusa, con il lungo manto setoso ed una combinazione di colori del pelo che incanta (deve avere qualche norvegese delle foreste come antenato). L'albero di Natale, diventato sua personalissima palestra di arrampicata quest'anno ha ricevuto il colpo di grazia, costringendoci a salvataggi dell'ultimo minuto per le palline più preziose.  In poco tempo è cresciuto ed è diventato un gattone grande quanto Yuma e, appena può, si diverte moltissimo a farle gli agguati. Non si accuccia più remissivo come quando faceva da piccolo, ma zompa all'improvviso mentre lei riposa tranquilla su una sedia e parte con una serie di destro-sinistro in rapida successione, che costringe la povera gattona ad una fuga brontolante. Ma prova a chiuderlo in bagno quando esagera con le marachelle e lei si accuccia davanti alla porta in attesa che venga aperta.
 

L'Oki, il mio gatto trovato nel nulla, il mio antidolorifico naturale, il mio bellissimo premio dalla vita.