venerdì 31 dicembre 2010

Alla fine


Di un anno, come dire, impegnativo. Ecco, sì, proprio impegnativo, nel bene e nel male. La foto era per Natale, lo so, ma l'ho trovata oggi sul sito http://www.moto.it/ e mi sembrava opportuno riproporla, sostituendo l'ultima parola: Wishing you a not so silent year. Che sia per voi un anno di vita, rombante e chiassoso, pieno di parole dette e scritte, di musica, di risate, di passione, grida anche ma di silenzio no.
Innanzi tutto, come si conviene tra blogger beneducati i ringraziamenti e gli auguri. Sentiti e non dovuti.

Per cui un grazie veramente col cuore, ed un abbraccio stretto ai miei sostenitori ufficiali, per le belle parole, per tutte le emozioni, i sorrisi e per tutte le "condivisioni":
A Mati, la mia prima sostenitrice, quella del "ma perchè, visto che ti piace scrivere non metti su un blog?" ed io: "Volentieri, ma cos'è un blog?": mi piacerebbe sentire che stai bene;
A Diamanterosa, la seconda, che la prima volta che l'ho letta ho pensato: ecco, questa sarà una specie di Nonna Papera che fa la calza , e mai giudizio fu più sbalgliato: per te e per quel tuo cuore così speciale sarà un anno incredibile, vedrai, altro che schifido;
Al gruppo effervescente e splendido dei runners: mjavalentina in testa ed alla sua grinta, poi the yogi e la sua simpatia, Giuseppe, Barbara (è da un pò che non scrivi, tutto bene?), Rupikaber, Simone e Anita, Oliver: buone, anzi ottime, anzi superlative corse!!
A Bruno ed alle sue parole che spesso scavano giù dove non oso guardare, un grazie veramente speciale, di testa ma soprattutto di cuore;
A Vania, alla sua effervescenza ed a tutti i suoi puntini di sospensione;
All'Alieno che surfa tra le nevi elvetiche e lo pagano pure;
A Renato Brinis ed al suo blog che ho curiosato poco;
A Sandra ed alle sue foto ed alla sua allegria;
A Morena ed alla sua splendida intensità nello scrivere;
A Giacynta, alle sue letture ed ai tutti i suoi film;
A Sonia che per la seconda volta è sparita dal web e che mi auguro stia già pensando di comprare un nuovo giubbotto da moto;
A Folada ed ai suoi occhi che guardano il lago.

Poi un saluto ed un augurio a chi leggo, a voi che siete la mia abitudine quotidiana, i miei sorsi di caffè e sorrisi della mattina presto, qui nella penombra dello studio delle rose addormentate. Alla vostra leggerezza, alla simpatia ed ai graffi sul cuore. A chi ha parole che puoi toccare con le mani, a chi balla sulle punte, a chi mi fa leggere me stesso, a chi mi fa ridere, a chi mi dà da pensare. Vi auguro, se possibile di diventare ancora più bravi.

Per l'anno prossimo i buoni proponimenti son tanti, meglio aver troppe ambizioni che nessuna.
Conto di correre, e non solo da runner.
Conto di tentare di superarmi, e non solo come runner.
Conto di osservare almeno un tramonto dalla cima di una montagna.
Conto di riprendere le matite in mano e di ultimare il ritratto di mia figlia.
Conto di essere a Parigi per aprile.
Conto di scrivere un sacco di post (e questa per voi è una minaccia, lo so).
Conto di sforzarmi di capire.
Conto di non abbassare mai lo sguardo.
Conto di dare, senza prendere in considerazione il ricevere.
Conto assolutamente di non crescere e di non mettere per niente la testa a posto.

Ed anzi, per questo, ho preso una decisione.
Se non puoi combattere il tempo puoi sempre tentare di prenderlo in giro, no? Pertanto da questa sera festeggerò i  miei compleanni al contrario.
Domani pertanto compirò quarantasei anni e, andando avanti, sempre uno in meno. Conto di abbandonare gli odiati occhiali già entro il prossimo anno. Tra cinque comincerò a stare sotto i 4.30" senza quasi fare fatica e mi ritroverò insieme a mia figlia tra diciott'anni, quando tutti e due avremo la stessa età e saremo nel pieno della forma insieme.
Poi, finalmente, decideremo da che parte andare.
Buon Anno.
Dreaming and Running

lunedì 27 dicembre 2010

Trecentoventotto

I chilometri percorsi in questi ultimi tre mesi. Certo che ho corso, cosa credevate.
Trecentoventotto ad oggi, che c'erano -6°, di fuori, e il terreno era duro asfalto ed ogni respiro era un fiato ghiacciato che entrava tagliente, nonostante il mio neckwarmer fighissimo, ed usciva in volute che sembravano fumo denso. Trecentoventottomilapassi, passo più, passo meno, mediando tra gli allunghi, quelli che tiri i denti ed i muscoli per andare oltre ed quelli più corti, delle salite, per cercar di recuperare gambe e polmoni. Trecentoventottomilarespiri, tutti d'un fiato, venticinquemila battiti del cuore circa, più veloci ed affannati i primi, molto più ragionevoli e quasi normali gli ultimi.
Un allenamento ogni tre giorni circa, lavoro permettendo. Una trentina abbondante di allenamenti pertanto, e trenta modi diversi di iniziare la corsa, trenta emozioni, sogni e pensieri, trenta nuvole da guardare o trenta gocce di pioggia da prendere, trenta sogni in cui affogare, trenta speranze, trenta incazzature da far passare, trenta favole da inventare e da raccontare sottovoce alla mia bimba, e trenta e molte più volte che la vedo scivolare sorridendo nei sogni ed ogni volta mi ci perdo che fa quasi male.
In mezzo, la mia prima gara, tre settimane fa. Io, il mio amico Renè oltre ad altri cinquecento circa, chiassosi, festosi  e sorridenti, tutti in tinta con la stessa canotta blu e la scritta 10K. Tra tutti sono spuntati gli occhi azzurri e quasi increduli di Piero, il mio fisioterapista di allora, dei tempi dell'incidente in moto, di quando ero tutt'uno con le mie stampelle che credevo non avrei abbandonato mai. Lui che mi ha aiutato a dimenticarle invece, che si è sdraiato tante volte sulla mia schiena e da quella insolita posizione si è beccato i miei insulti peggiori, che mi ha massacrato in tutte le maniere possibili ed immaginabili e che alla fine mi ha visto andar via dal suo studio senza neanche più zoppicare, lui aveva le lacrime agli occhi, e mi ha stretto con un abbraccio che era condito di gioia pura.  
10K. Alla partenza Renè mi ha chiesto se volevo che corresse con me, ma lui aveva già gli occhi della tigre anche se era una non competitiva e gli ho detto vai e corri, poi torna indietro e vieni a prendermi, così facciamo gli ultimi passi insieme.
Il freddo, la mattina presto, poi lo sparo, la partenza, il fiato basso e la voglia subito di andare, di spingere e di seguire i primi. Ed invece no, tieni il passo morbido, oggi almeno non è il caso, oggi ricominci, oggi vada come vada ma arriverai, anche se sarai l'ultimo ma arriverai, questo è garantito. E corri e osservi gli altri runner, i più giovani, gli anziani e tenaci, c'è uno anche col passeggino e chi porta a spasso il cane. Guarda, il segnale del primo chilometro sbuca d'improvviso, 4'34" sembra un tempo incredibile, considerate le premesse. E vai e segui il cordone colorato, e se ti volti indietro ne vedi almeno  altrettanti, forse ancora di più. Ti sorpassano in tanti, con il passo agile e lesto, ma non te ne curi, le unghie lasciale dentro, vai e basta, sei solo, nonostante i cinquecento colorati, dosa energie e respiro, perditi nei tuoi sogni che quello sei bravo a farlo, ed oggi puoi. Sogna, ed osserva i ghirigori del gelo, guardalo inerpicarsi sui fili d'erba, segui le correnti di freddo maligno del fiume ed il lago ghiacciato e le papere desolate, scruta il volo dei gabbiani che come te han perduto la via e sono arrivati fin qua. E tu che la via l'hai persa mille volte, che dove sei arrivato forse non lo sai neanche più, e che ancora ti perdi, felice comunque di poterlo fare, tu intanto corri, che quello hai finalmente scoperto di aver nuovamente imparato a farlo.
E nell'ultima salita, puntuale eccolo lì, Renè, il solito Renè, un pò sornione, pronto ad accompagnarmi fin quasi al traguardo, prima del quale si è staccato perchè quello devi attraversarlo da solo tu. Ed eccolo, il traguardo, quell'enorme salsiccione blu che ci passi sotto fermi il cronometro ed è già finita, e di energia ce n'era ancora, se lo sapevo potevo dosare di meno e spingere di più.
Il risultato? 222° per me, in 52'28". 19° invece Renè, poco sopra i 39', sbagliando anche percorso, ma questa, per chi lo conosce, è una cosa che non sorprende più di tanto.
E Parigi è adesso trecentoventotto volte più vicina.

giovedì 23 dicembre 2010

Gli Invincibili

   "Rendo grazie a qualunque Dio ci sia
per la mia anima invincibile
Sferzata a sangue dalla sorte
non si è piegata la mia testa
 Non importa quanto angusta sia la porta
quanto impietosa la sentenza
 Sono il padrone del mio destino
 il capitano della mia anima"

Non so a quanti sia capitato di vederla, l'altro sera. Io son rincasato tardi, come ultimamente mi capita e, dopo i consueti baciotti alla mia piccola, ne ho vista una parte sola, quando la trasmissione era oramai verso la fine. La mattina dopo, presto, mentre abbandonavo la grigiosità spruzzata di neve e tristezza infinita di bucodiculoplace, alla radio ne parlavano ancora, con una commozione ed un'ammirazione sconfinata che mi ha fatto risalire il groppo in gola della sera precedente.
Gli invincibili ci sono. Quelli che non si arrendono, che non smettono quando questo sarebbe più facile. Che osano, che ci credono, che hanno in loro stessi il giudice più severo.
Quelli che ho conosciuto quella volta avevano l'aspetto sbiadito di una coppia quasi anonima. Si davano il cambio nel cubicolo di fianco al nostro, in quei dieci giorni spaventosi passati chiusi dentro l'Ospedale dei bambini della mia città, io e la mia bimba e le nostre mani che non si sono lasciate mai ed i mille fachestiabene fachestiabene recitati in silenzio. I cubicoli erano stanze strette e lunghe, quattro metri per due, con il lettino, uno spazio per un piccolo tavolino, un televisore fissato a parete e lo sdraio per star vicino alla mia piccola. Le pareti divisorie erano vetrate, e tiravamo le tende interne per poter riposare e gestirci un minimo di privacy. Su consiglio dei medici si usciva il meno possibile per evitare di portare potenziali pericoli all'interno. I comandi manuali delle televisioni erano guasti e c'era lo stesso telecomando per il nostro televisore e per quello delle due stanze vicine, di modo che, per cambiar canale dovevamo per forza passarcelo.
Io sono un orso, oramai un poco mi conoscerete, ed in quell'occasione ero ancor più chiuso con me stesso, parlavo il minimo indispensabile con le infermiere di turno e con i vicini un buongiorno frettoloso e nient'altro, il mio mondo era tutto concentrato lì, sotto le coperte scosse da una febbre che non voleva abbassarsi, e non c'era altro, non riuscivo a vedere ed a considerare null'altro. E non mi importava confrontarmi con il dolore degli altri, avevo già il mio da amministrare, non volevo sapere le malattie, mi facevano andare in bestia le occhiate un poco timorose ed un pò compassionevoli degli altri, quelli che i loro figli erano in tre per stanza e che potevano tenere la porta della stanza aperta. La consorte, che invece ha una tara nel proprio DNA che le impedisce di farsi esclusivamente i fatti propri, dopo mezza giornata conosceva anche il soprannome del cugino di secondo grado della caposala, oltre al quadro clinico della metà dei pazienti. Pertanto l'aveva saputo subito.
Aveva saputo che la loro bambina era stata colpita in fase neonatale da una grave forma di encefalite che l'aveva ridotta a poco più di un vegetale. Avevano parlato a lungo, delle difficoltà della malattia che li obbligava periodicamente a vivere lì, in quella stanza quattro per due, isolati. Aveva saputo degli altri figli, quelli normali, delle fatiche per arrivare a fine mese con uno stipendio da operaio e dei mille sacrifici che sostenevano con una serenità sorprendente. Aveva saputo della felicità data da movimenti impercettibili, del bene puro, dell'amore sconfinato che supera d'un balzo e va oltre la malattia più lacerante.
Ed aveva saputo che la bambina non era loro, gli era stata data in affidamento perchè i veri genitori non erano stati in grado di accudirla. E poteva pertanto essergli levata in qualsiasi momento, e questa era la loro paura maggiore. 
E aveva saputo che non era la prima disabile che avevano avuto in affido. Per loro scelta, "perchè qualcuno deve occuparsene ed è una gioia immensa poterlo fare"
Tutte queste cose la consorte me le ha raccontate incapace di trattenere le lacrime.
Mi sono vergognato, allora, osservando quell'amore che andava oltre, quel coraggio che andava dove io non sarei mai riuscito ad arrivare.
Dopo dieci giorni noi siamo usciti, loro sono rimasti. Non li ho più rivisti.
Ho comprato tre telecomandi nuovi, uno per televisore ed una scatola di cioccolatini per le infermiere, che anche loro, lì dentro, hanno il loro bel grado di invincibilità.
Per cui io lo so. Gli invincibili esistono.
E non erano magari quelli che circondavano Laura&;Lory quel giorno, o non erano neanche dalle parti di Sonia mentre cadeva dal motorino e nessuno le dava una mano ma ci sono, ve lo assicuro.
Gli invincibili partono alle sei del mattino e con ostinazione portano avanti i lavori più duri senza perdere il sorriso.
Gli invincibili rispettano gli altri, a volte più di loro stessi
Gli invincibili hanno occhi trasparenti e puri.

E ci sono giorni esaltanti in cui mi sento quasi invincibile anch'io, ed In altri invece penso tutto il contrario. Ma mi affido fortemente ai primi, anche perchè la mia vita si basa sul seguente pensiero: sapete come son salito in cima al Monte Bianco?
Semplicemente un passo dopo l'altro (ed un minimo di ostinazione, ça va sans dire).

E poi gli invincibili hanno una malattia contagiosissima.
Perchè stando accanto agli invincibili, un poco meno vinti ci sentiamo anche noi.

Per cui Buon Natale a tutti, e soprattutto agli Invincibili che leggono questo blog. Perchè, oltre ad essere Invincibili, diciamolo, hanno anche un ottimo gusto :-)

E in ultimo, un bacio a Laura, che proprio mentre scrivo, adesso adesso, sta venendo al mondo. E sua madre, (una rompiscatole di primo livello ^_^), in questo splendido momento, invincibile lo è per davvero.

sabato 18 dicembre 2010

A volte non basta


Li hai visti gli occhi, l'altro giorno. 
Sì, certo, cosa credi. Tanto che ci cadevo dentro, a momenti, mentre parlavo e parlavo e poi ancora, e continuavo e ripetevo.
Quegli occhi, quei sorrisi forzati, raccontando di quanto la situazione sia critica, della situazione e dei nostri mille cazzi.
E con la mente nel frattempo ero in giro, come faccio spesso, a correre nei miei spazi, nei miei sogni e nei miei ricordi. E ci riuscivo, giuro. Nonostante ci sia chi asserisca che, in quanto rappresentante del sesso maschile, io sia dotato di numero due neuroni due, ce la facevo benissimo, invece. La mente mandava alla voce un messaggio quasi come fosse stato registrato in precedenza che parlava di riduzione del personale, esigenze di servizio e crisi di liquidità e, nel frattempo, mentre mi sentivo parlare e mi ascoltavo lontano, pensavo a tutt'altro.
Il mio socio, lui invece taceva, sfatto. Lo vedo invecchiato in questi giorni, ha perso di smalto, di grinta, balbetta lievemente, quando parla. Si guardava le mani che giocavano consumando un pezzo del fazzoletto che gli pendeva sbilenco dalla tasca. Aveva iniziato, lo fa quasi da sempre lui, ma poi non era più riuscito a continuare, lui e i suoi occhi da bracco, diventati improvvisamente rigonfi di  lacrime. E allora toccava a me.
Toccava a me riandare agli inizi e nel contempo premere inesorabilmente il pulsante collegato alla botola. Perchè non c'è altro mezzo, non c'è modo e maniera, non c'è altro da fare.
Già. Ne hai ascoltate di favole, fin quasi a raggiungerle quasi, a toccarle quasi, a vederle quasi, così vicine e reali da crederci tu stesso, mentre le raccontavi convinto, propinandole a tua volta. Balle, alla fine dei conti.
No, che non serve crederci. E' ancora peggio crederci, è da pazzi o semplicemente da stupidi, ostinarsi, correre e buttarsi poi così, ciecamente, ottusamente. Quando tutto poi si sfrange su un muro, lasciando di te, dell'entusiasmo e delle tue idee bellissime una macchia che lentamente gocciola trascinandosi a terra.
Sapete, io Amo quello che faccio qui dentro, proprio così, con la A maiuscola. E' mio, ma così mio che fa male, in giornate come questa. Fa male dire alla gente basta, che "gente" poi qui non lo è mai stato nessuno, sono persone e occhi e mani, sono cuore e risate che risuonano ancora e parole, e quante di ognuna di tutte ce le siamo scambiate. Qui ogni computer ha un nome, che è il nome di chi qui, passando, ha lasciato un pezzo di vita ed il segno, come i segni incisi con i coltelli sui tavoli di quelle vecchie birrerie che ritornando dopo anni ritrovi e riconosci al tatto con i polpastrelli. E quindi qui Giorgia è Enrico, Antonio è Giorgio, e Chiara invece è proprio Chiara, perchè è qui, insieme a noi praticamente da quanto noi. E dire basta proprio a una come lei è pesante, guardandola negli occhi. E' stato sempre meglio farle il solletico di sorpresa, facendola scattare come una molla.
E' cosi mia questa tastiera, il monitor, il disordine bellissimo,  il tavolone dei disegni, i mobili che abbiamo montato tutti insieme, le finestre ampie che danno sul giardino delle rose, le rose che sfidano l'inverno che sono le più belle, la vite avvizzita ed il pino maestoso che ripara la mia moto, fermata più dal freddo pungente di questi ultimi giorni che dall'assicurazione scaduta. E' così mio questo silenzio, adesso, con il buio d'inchiostro lì fuori. Ed è così nostro, questo spazio e tutto quello che esso contiene, fatto di troppe cose, molte delle quali non si vedono neanche ma ti riempiono l'anima. Nostro il modo e la voglia di fare bene le cose, il tempo, le idee ed il calore di un gruppo, che così doveva essere fin dall'inizio, così l'avevo pensato e voluto. Ma non è sufficiente, non è così semplice, non serve, non basta. Non basta volerle, le cose per preservarle. E quello che è peggio è che non serve difenderle ad ogni costo, contro ogni pronostico, incurante. E quando lo scopri allora non puoi far altro che guardarli dritti ancora una volta, quegli occhi e poi chiudere i tuoi e tagliare, ed operi le scelte che van fatte e dici cose che sono tagli profondi e sale sulle ferite, ma le dici lo stesso, perchè non puoi, non puoi fare di più e niente di diverso da così.
No che non basta amare, per vincere. Amare è, in fin dei conti, quasi sempre una bellissima maledizione.
Ma voi fate come volete. Io non son capace a smettere, nonostante tutto.

lunedì 25 ottobre 2010

Chiuso [temporaneamente] per

Pigrizia, stanchezza, disordine mentale e mille altri motivi che non sto qui ad elencare, trovateli, se volete, e metteteceli voi.
Ed anche per troppo lavoro, sì, lo so che periodicamente mi lamento per quello, ma se uno si ritrova qui per la quarta domenica di fila (e da solo, n.d.r.) vuol dire che qualcosa proprio non funziona più a dovere. E se poi a questo ci aggiungi che ormai il mondo, se può farne a meno, evita anche di pagarti, beh, lo sconforto unito ai conti in rosso, ai ragazzi da pagare, ai mutui che incombono ecc. ecc., non fan altro che aumentare il disagio, fino a renderlo quasi palpabile ed opprimente
Pertanto insomma, adesso non mi va. Niente, nè da dire nè da pensare. Sterile e svogliato. Non ho niente da darmi. Niente urgenza di scrivere, niente dita che fremono, niente voglia di ricavarmi un minuto tutto mio per buttar giù qualcosa sulla tastiera.
Don't preoccup comunque, non mi chiudo certo in un angolo a compatirmi, anzi, mi sto sfondando di chilometri, quella è la mia miglior medicina, settanta solo questo mese, e ieri, per la prima volta il mio primo chilometro (tranquillo, senza forzare) a sorpresa sotto i 4'50", che per quelli che corrono e mi leggono non sarà certo un tempone, ma se penso com'ero solamente sette mesi fa, oggi non ho proprio niente di cui, almeno per quello, lagnarmi.

Quindi penso sia meglio schiacciare il tasto pause per un pò e buttarmi nella mischia.
Ma aspettate a brindare, comunque, che torno.
Magari prima di quanto immaginiate.
Buio.
Yours sincerely
Dreaming and Running

martedì 5 ottobre 2010

Scriverei

 scriverei e scriverei, questa sera. Non smetterei, giuro, forse ho il serbatoio pieno, lascerei vagare i pensieri così, senza pensarli, senz'ordine, come una biglia che rotola piano e con leggeri rimbalzi vien giù da una scala. Scriverei della mia voglia di correre di ieri, per il gusto puro e semplice di farlo, senza orologi, tempi sul giro o altro.
Del fiato che usciva regolare ed andava via libero e delle gambe che gli correvano dietro, non così stanche come di solito accade. Delle pozzanghere che ti vengono incontro, da calpestare incuranti degli schizzi, anzi.
E sono piccole fredde punture, spilli aguzzi sulle gambe veloci, la pioggia che inizia. Poi smette e riprende, a tratti, sotto una coperta di nuvole grigie, sopra gli alberi scuri, nodosi ed umidi.
Sono passi e pensieri calpestati, veloci passaggi sul giro di sempre, veloci pensieri sulla vita di sempre, che cambia, alle volte ti morde e ti straccia in frammenti minuti buttandoti via come disperati coriandoli, e poco dopo, guarda caso, ti ricompone lisciandoti e stirando le pieghe con il palmo della mano, poi ti guarda e sorride, di quei sorrisi che non dimenticherai. Sono la maglia a maniche lunghe per la prima volta e quasi nessuno, oltre a me, nei lunghi incantevoli rettilinei che sono così miei questa volta, che senti che vai, che il tuo piede si appoggia leggero e che il tuo cuore lo segue.
E passi. Passi il colombo dimesso che si allontana appena dai tuoi piedi. Passi i segni per terra, la giostra vuota dei bimbi, le altalene sconsolate. Passi il bidone malinconico e piegato con la lattina ancora per terra, le due panchine scrostate deserte, che sembra si tengano compagnia tra di loro e che si raccontino piano storie sentite chissà dove.
Aumenta, la pioggia. La incontri negli spazi all'aperto prima, poi cresce ed anche le fronde zuppe degli alberi non sono più un riparo e gocciolano libere, ma fastidio non è. Ed allora ne assorbi lo scroscio sommesso, il rumore continuo che isola, separa e protegge. La pioggia è a suo modo silenzio, è barriera di gocce su un vetro appanato, sono parole che colano e consolano piano, la pioggia ti avvolge, ti prende, ti lava di fuori, poi prende i pensieri accartocciati e nascosti, sciogliendo i peggiori e restituendoti solo gli altri, puliti e nuovamente limpidi, luccicanti cristalli.
E ti ritrovi così, con i sogni migliori che corrono e i piedi che vanno, tra foglie rossastre macerate di gocce d'autunno, arricciate e morbide, spazzate e schiacciate in mucchi soffici tra la strada ed il marciapiede del parco; ne cade qualcuna, ondeggiando ti accarezza sfiorandoti, la osservi scendere piano, seguendo quella striscia scolorita che si srotola in silenzio oltre il nero lucido dell'asfalto, tra pozzanghere via via sempre più ampie, puntinate da mille cerchi incrociati e da chiazze nere di alberi riflessi.
Corri, dunque, se hai anima e cuore puri, se hai ancora sorrisi e speranze e parole da dare. E corri più forte, più forte ancora, se puoi, sotto una pioggia così, dentro a una pioggia così, tra momenti di raffiche intense ed attimi di tregua. Corri e ripensi, alle cose che perdi, alle cose che trovi. A quelle che, inaspettate ritrovi e così, quasi perdute, sembran quasi più belle e più nuove. Ai tuoi graffi che credevi profondi e che la pioggia ti lava e scoloriti, van via.
I miei primi nuovi 8 km, ragazzi. Da non smettere.

giovedì 30 settembre 2010

Tema: il mio papà

Svolgimento:
Il mio papà è un pò un pasticcio da descrivere ma ci provo lo stesso, me lo ha chiesto lui sapete? Mi ha detto dai, fammi un regalo, metti giù quello che ti viene da scrivere se pensi a me e non stare attenta ai verbi ed alla punteggiatura, che a quello, ad aggiustarlo poi ci penso io. Ma per farne che? Boh!
Abitiamo in un paese che lui chiama Bucodiculoplace (questa di sicuro l'ha scritta lui, io avevo messo il nome vero), che a me piace tanto ma a mio papà invece proprio no. Ma lui va via la mattina e la sera torna che è buio così, dice lui, ne vede di meno.
Voi lui chiamatelo un pò come vi pare, io invece (e solo io) lo posso chiamare Totson, lui mi chiama Ciccia, o al limite Topino. Quest'estate in Sicilia invece mi chiamava ciaravedda, che vuol dire agnellino  ma a me non piaceva proprio e mi arrabbiavo.
Eccolo, il mio papà è questo qua, gli ho fatto questo disegno bellissimo che è lui che corre nel parco dove va sempre, tutti i giorni, perchè correre è una cosa che gli piace proprio tantissimo e quando non può perchè deve lavorare è un pò più triste. Quelli dietro non sono covoni di grano come dice lui per prendermi in giro, ma è la fontana del parco. Adesso però ha i capelli molto più lunghi. Io gli ho chiesto più volte per favore di tagliarli ma non vuole. Allora gli voglio bene lo stesso, però mi sa che una notte mentre dorme glieli taglio. Voi non ditegli niente, mi raccomando!
Oltre alla corsa gli piacciono molto altri sport. Gli piace la montagna, adora sciare ed arrampicare e vorrebbe anche farmi provare ma io ho paura ed allora va con il suo amico Renato, che di montagne insieme ne han salite tante e quando erano giovani sono anche andati in cima al Monte Bianco.
Il mio papà è alto alto e magro. La mamma dice che sempre è troppo magro e lui risponde che lo fa per tenere a bada la media familiare, anche se non so bene cosa voglia dire ma poi di solito la mamma un pò si arrabbia. Lui fa l'ingegnere, che veramente non so bene che lavoro sia, ma non deve mica essere poi tanto un bel mestiere perchè secondo mamma è sempre in quel cavolo di posto (ma mamma usa una parola che non posso ripetere) e non porta mai abbastanza soldi e poi va via prestissimo la mattina e torna sempre molto tardi e stanco, che a volte io dormo già, ma se invece faccio solo finta, sento che un bacino piano piano viene a darmelo sempre. E se se ne accorge che sono sveglia, anche se non ha ancora mangiato si accoccola vicino a me nel letto e mi racconta fiabe bellissime che inventa lì per lì e che a me piacciono tanto, solo che a un certo punto, con lui che mi tiene acccoccolata, mi addormento davvero e non so mai come finiscono.
Io e il mio papà insieme siamo speciali. Intendiamoci, voglio molto bene anche a mamma, chiaro, ma con lui è diverso, a volte è come se sapessimo cosa dirci solo guardandoci negli occhi. Dicono tutti che gli somiglio e sto diventando alta quasi come lui, ma voglio stare ancora piccola per un pò. Quando siamo insieme giochiamo e parliamo sempre, ma sempre sempre e quando andiamo a casa di nonna in montagna mi porta nei boschi a cercare i funghi e ci teniamo per mano e poi andiamo a guardare gli animali parlando pianissimo e senza fare rumore perchè se no si spaventano e una volta mi ha anche fatto vedere da vicino una vipera ma stavolta ero io quella spaventatissima e avevo il cuore che batteva fortissimo. 
Non mi sgrida quasi mai e quando insieme facciamo i compiti mi annoio solo un pochino.
Al mio papà gli voglio un bene, ma un bene speciale, che a volte non so perchè ma mi fa quasi venire il magone, ma poi se lo guardo sento che anche lui me ne vuole proprio tanto.
Tra il mio papà e la mia mamma invece lui sostiene sempre che è certamente lui quello che mi vuol più bene, perchè se mia mamma si butterebbe nel fuoco per me, anche lui per me la butterebbe nel fuoco, aggiungendoci pure il gatto ed un paio di taniche di benzina che, come mi ha detto, costano molto care e quindi fà di più e vince lui. Allora io rido, e la mamma tenta di tirargli il ferro da stiro, mancandolo. E la gatta scappa spaventata come una matta.
Il mio papà ha un moto che ha comprato proprio quando sono nata io, per premiarsi di avermi fatta così bella, dice sempre. Mi ha comprato il casco di Valentino Rossi ma con me va piano e quando mi porta a scuola, proprio davanti, sono contenta, perchè tutti mi guardano. Con la moto quando ero piccola si è fatto tanto male ma adesso è passato e gli è rimasta solo una lunga cicatrice sul ginocchio. Anche io, una volta sono stata male tanto sapete? Non so bene cosa sia capitato, sono stata in ospedale dove tutti parlavano piano e di notte mio papà e mia mamma dormivano a turno su una sedia a sdraio e poi quando siamo usciti eravamo felici matti dal ridere ma io quando passo vicino all'ospedale dico sempre che li non ci voglio tornare mai più. Mai.

A volte è strano, ma solo un pochino, come quando non sopporta nessuno e preferisce stare a leggere, le poche volte che si arrabbia ma tanto, o quando in montagna, la mattina presto  prende lo zainetto e va su da solo, come mi dice lui, a fare il solletico alle nuvole. E in quei casi mi sembra che non stia così bene come dice sempre di stare.
Ma quando è con me no, sono sicuro che sta bene. Andiamo proprio d'accordo, io e lui, anche se questo mi fa pensare che è solo quando sta con me che lo vedo veramente sorridere.
Ecco.
[Ciccia, by Totson]

sabato 25 settembre 2010

Qui non ci trovate più Slaymer

Da ieri. Così.
Perchè alla fine, dopo cinque anni di impegni e fatiche proprio non ce l'hai fatta più e probabilmente hai capito che avevi dato abbastanza. Hai deciso che non valeva più la pena affannarsi a continuare con questa vita e che è meglio ripassare dal via, inventarsi in qualcos'altro, chissà cosa poi, in un altro posto e con nuove energie.
Perchè mica conforta sapere che è un momento difficile per tutti, mica basta buttarci tutto te stesso in queste cose, lo so, lo sai, lo provo sulla mia pelle tutti i giorni, lo leggiamo dai giornali, lo sentiamo, lo vediamo in giro.
E che poi invece, da parte di quelli che ci dovrebbero indicare la strada, si sentano solo litigi ed accuse a proposito di case a Montecarlo date a parenti, alloggi regalati che non ce ne siamo mica accorti che non le abbiamo pagate noi e poi ancora liquidazioni da capogiro e scioperi di chi guadagna solo qualche milione dando calci ad una palla ti viene solo da dire che schifo. Un teatrino merdoso fatto di furberie, di insulti e falsità. E tu che dolorosamente scopri che dare l'anima e far tutto con onestà e responsabilità a volte non basta.
Cosa dirti? Che ho sentito la tua voce, l'altro giorno e mi è bastata.
Cazzo.
Sapete, Slaymer è uno di quelli passati di qua. Uno dei primi, tanti anni fa. Non serve che gli dica "ti ricordi" perchè so che ricorda tutto, come me. Ricorderà di certo i lavori, le prime cazziate e quello che qui ha imparato e mai dimenticato. Ma sicuramente ricorderà anche le cose importanti: "One", ad esempio, suonata per ore ed ore allo stereo fino allo sfinimento degli altri, i mille lunghi discorsi ed i kebab indigesti che abbiamo consumato qui. Ricorderà l'ultima birra sorseggiata con calma, nelle lunghe nottate subito dopo aver finito di preparare una consegna.
Ricorda di sicuro le mail  che ci siamo scambiati nei suoi anni a Sharm e che raccontavano delle nostre due vite così distanti, e così diverse da adesso, ma se ci pensi, neanche poi così tanto.
Ricorda intatti sogni e parole, le risate e quelle volte che l'unica cosa da fare è stare in silenzio ad ascoltare.
Più o meno come adesso, quando capiterà, non appena ci vedremo.

Ma quello che non ammazza indurisce, dice lui. E tutto sommato siamo abbastanza vivi, nonostante tutto e tutti. Un pò pesti, a volte, zoppicanti e sanguinanti, ma vinti mai.
Non conta l'età. Non è dal quanto si è vissuto ma dal come. E se ti conosco come penso, so che, anche se adesso gira storta, hai abbastanza forza dentro e idee per cercare stimoli nuovi. E poi non dimentichiamo la capacità di inventarti in un nuovo progetto ed una discreta faccia da culo, che, in casi come questo aiutano sempre.
Sai, io ho avuto l'onore di essere il tuo primo cliente. Ricordo le tante difficoltà burocratiche dell'inizio e la ricerca del nome.
Ed ho avuto  troppi inviti per il pranzo al lago che non ho mai potuto accettare.
Ed a casa tua ho passato uno dei giorni più belli che possa ricordare. (Oops tu non c'eri ^_^)
E non ho neanche pensato di farti gli auguri per gli anni, che me l'hai scritto in un commento ad un post, un paio di giorni fa.
Pertanto auguri Slaymer, in ritardo come al solito, da un ritardatario cronico come me. Questo modesto post è il mio regalo di compleanno per te.

Di quante nuvole

si incanteranno ancora i tuoi occhi. Contro quale colore di cielo ne osserverai affascinato tinte e sfumature, ombre più oscure dietro al candore abbagliante del bianco che riluce. Che fantasie indovinerai, nell'evolversi continuo delle forme di lenta esplosione. Rigonfiarsi e dissolversi.
Un filo d'erba a fischiare tra i denti.
Quante chiome degli alberi galleggeranno sospese sopra la nebbia del mattino. Quanto ti piacerà ancora, quella nebbia ovattata, la calma di passi misurati, nel silenzio umido delle foglie che avvizziscono.
I moschettoni tintinnanno, ad ogni passo. La via è pronta ad assolverti.
Lento svolgimento di corda. Preparazione di gesti.
Quale sarà il vento che ti scuoterà di freddo la pelle e sotto, l'anima. Quale parete ruvida incontrerà nuovamente le tue dita e straccerà nella forza dei gesti ogni emozione scura e tagliente.
Quante lune nuove poi, sapranno ancora sorprenderti. E su quante altre saprai nuovamente perderti.
La strada di casa è una striscia di mare, riflesso veloce di puntini arancioni lasciati già alle spalle.

[D&R for D&R]

mercoledì 22 settembre 2010

Prove tecniche di trasloco

Prendi uno studio professionale atipico. Un centinaio di metri quadri circa. Un posto come non ce ne sono tanti, strano in realtà, speciale il giusto, un open space luminosissimo con vetrate ampie ed un fazzoletto di verde fuori, dove fioriscono rose e farfalle e la vite produce grappoli succosi di uva fragola che nessuno tranne i merli mangia mai, dove l'ibisco questa mattina è già un tripudio di fiori, dove il pino dispensa alle moto parcheggiate ombra e resina in ugual misura, dove ogni oggetto ha una sua stor\ia personalissima e speciale e dove tutto quello che c'è e che ha contribuito a trasformare una mesta fabbrica di biciclette abbandonata in una fabbrica di idee, noi qui ce lo siamo strasudato e strameritato.
Metti che una volta, tanto tempo fa, questo posto era completamente vuoto, e con i pochi soldi in tasca avevamo acquistato un piano con quattro cavalletti in falegnameria ed il primo computer da metterci sopra. Sembrava così grande, con quel misero tavolo sperduto nell'angolo, così difficile da riempire. L'abbiamo fatto.
Eravamo molto più giovani, sicuramente incoscienti ed eravamo in cinque.
Metti che pian piano nostro malgrado, siamo cresciuti. Ho imparato, a mie spese, tante cose, tra queste mura. C'è stato chi, a un certo punto non ci ha più creduto ed ha preferito nuove strade. Succede, non c'è niente da cercar di capire o da cercar di cambiare. Ho imparato  che non puoi fermare nessuno, quando ha deciso di andarsense. E' già andato, in fondo.
Ho imparato che non puoi obbligare gli altri a credere nella stessa misura in cui ci credi tu per quanto grande ed importante sia, quello non è il metro di misura che può esser preso come riferimento.
Poi altri sono arrivati, tanti son passati. Tanti, troppi, i nomi che non posso non ricordare con un sorriso.
Pian piano abbiamo acquistato nuovi mobili, ripiani e scrivanie, modificando le disposizioni in base alle necessità ed a quanti eravamo. La prima stampante, i computer che aumentavano e poi il primo plotter, perchè sì, magari subito così potente può sembrare una spesa folle magari, ma vedrete, cresceremo.  E l'abbiamo sostituito che son di già passati almeno cinque o sei anni.
Ed ogni tanto, normalmente di ritorno dalle ferie, ci prendeva il ghiribizzo di dare uno scossone un pò più deciso, come quando abbiamo cambiato il pavimento con noi dentro, lavorando in metà studio sovraffolato, mentre i palchettisti facevano la loro parte di parquet e segatura nell'altra metà, separati da un foglio di nylon.
E guarda adesso. Come se non bastasse il pasticcio del server, abbiamo pure avuto la balzana idea di buttare tutto all'aria per far posto ad una fila di armadi nella parete più lunga, sotituendo ripiani sbilenchi e vecchi mobili di colori, altezze e forme diverse.
E guardali adesso, 'sti ragazzi, perchè ragazzi ci sentiamo un pò tutti ancora, in fondo, noi e loro, ma in realtà un noi e loro qui non c'è mai stato, qui ingegnere buongiorno lo perdi dal secondo giorno, si va a prendere il gelato in gruppo come una scolaresca un pò indisciplinata, qui ci si aspetta per fare colazione, quando si deve lavorare il sabato mattina. C'è un'atmosfera che difficilmente si respira da altre parti, mi dicono.
E così ancora una volta ci siamo ricascati e l'abbiamo fatto. Un delirio, panico e paura direbbero qui, che così si capisce anche che stazione radio in genere, purtroppo, si ascolta. Abbiamo smontato, spostato e svuotato, svitato e avvitato, fatto cadere le viti da in cima la scala ed imprecato come è consuetudine quando accade. Abbiamo fatto i facchini, gli elettricisti ed i muratori, sporcandoci, per ogni categoria, come pochi. Abbiamo spinto e sbuffato, starnutito sotto la polvere che veniva fuori da ogni dove. A turno ci siamo fatti le foto nei momenti salienti ed in ognuna delle foto si può intravedere comunque qualcuno che sorride.
Abbiamo riso e discusso, inventato e risolto. Abbiamo fatto tanto di quel baccano da non sentire il telefono squillare e qualcuno, nel mentre, è addirittura riuscito a continuare a lavorare.

Ed adesso, in questa mattina silenziosa, con questa insolente luna ancora affacciata là fuori, che son venuto presto prestissimo apposta per guardarmi tutto in pace, per respirare l'odore dello stucco, qui è così come potete vedere anche voi. Con metà studio smontata e l'altra metà accatastata, in uno stato di confusione tale che non so nemmeno se riuscirò a trovare le chiavi della moto.
Così bello, nonostante la polvere, il disordine e le cose. Così mio.
Questo posto mi conosce e mi frequenta da quasi vent'anni ed un poco mi assomiglia, disordinato e sulle nuvole, come me. Quando sono sovrappensiero lo chiamo casa, facendo conseguentemente infuriare la consorte. Ci sto bene, anche adesso, che potrei essere da qualsiasi altra parte, che è un delirio di ripiani accatastati, di scrivanie sottosopra e di faldoni, cataloghi e libri impilati in precario equilibrio.
Ma sto bene, qui.  E' il mio studio.
Mi ci rifugio spesso, nei cassetti, nascosti, trovo tranquillità e tempo sereno anche per i miei momenti peggiori, e sì che proprio tante ne ho passate, negli ultimi tempi. Ed ho solo bei ricordi (quasi) a farmi compagnia, perchè tutto, anche le litigate più furibonde, dopo un pò, perdono consistenza e cattiveria, prendono un sapore diverso, un gusto meno amaro, forse. Tutto serve, alla fine.
In qualche maniera mi ha assorbito perchè nonostante qualche fosco pensiero ogni tanto, i soldi che non arrivano mai, le grane, le responsabilità a tratti opprimenti ed i mille ostacoli che ti fan desiderare di essere altrove, tranquilli, qui rimango.
Perchè, in fondo, io sono il mio studio.

sabato 18 settembre 2010

Di rose e farfalle

Sono tornate. Puntualmente lo fanno ogni anno, ed ogni anno mi fanno imbestialire prima e mi deliziano poi.
Inizia tutto con un pugno di foglie delle mie rose di cui una mattina all'improvviso rimangono solo tristi nervature stecchite, ed eccoli lì che compaiono quei maledetti piccoli bruchi con una fame bestia che, con metodica ostinazione, divorano senza sosta ogni gustosissimo lembo verde.
Mi è sempre piaciuto pronunciarne il nome in francese - papillon - non può non richiamare alla mente il romanzo di Charrière che da ragazzo avevo adorato, in cui si raccontavano le avventure di un un uomo il quale non poteva concepire di rimaner confinato entro una prigione, anche se senza sbarre visibili.
Altrettanto musicale alla voce ma più curioso il nome inglese - butterfly - da piccolo mi faceva sempre ridere, ma come fanno questi inglesi strani a chiamare una farfalla burro che vola? E mi spiegavano ogni volta con pazienza che il nome derivava probabilmente dalla consistenza e fragilità delle ali, morbide come il burro che si squaglia appena lo tocchi. Io però preferivo l'altra storia, quella che raccontava di un tempo antico in cui streghe e fate rubavano nella notte il burro nelle case, che usciva svolazzando dalle finestre trasformato appunto in farfalle. 
Prima sono solo strani esserini, lenti e goffi nel loro ondulato incedere  e impressionanti nella loro spaventosa voracità. Ogni volta conduco nei loro confronti una lotta spietata qui, nel giardino delle rose e del pino maestoso, fatta di controlli, di insetticidi e di potature selvagge. Ma niente, riescono nascondersi, mimetizzarsi furbescamente ed a spostarsi con fulminea rapidità, nonostante l'apparente lentezza, nella pianta più vicina e rigogliosa di cui il giorno dopo hanno già fatto scempio, trasformandola in un malinconico intreccio di stecchi, in un stilizzato schizzo di una rosa.
Poi, di colpo si fermano, immobili, muoiono, spariscono.
Tutte insieme, come se il tuo affannarsi e lottare avesse finalmente ottenuto il risultato sperato. Ed un pò quasi ti dispiace, ma se guardi lo strazio delle rose senza foglie il pò si riduce ulteriormente.
Poi, la sorpresa.
Perchè un paio di giorni dopo inizi a notare timidi ed incerti svolazzamenti ed in men che non si dica eccole tornare trasformate e libere con le loro ali sgargianti dai riflessi metallici, a gruppetti, timide ad annusare rose, a posarsi per un attimo sulle ortensie ingrigite, a stordirsi del profumo della verbena, della menta, a farsi un goccetto nei fiori del limone.
Diafane e leggerissime, incredibili nella loro trasformazione, dalla fine all'inizio.
Ed in un niente eccole lì, leggiadre ballerine dell'aria, diafane e delicate note musicali sul pentagramma di un soffio di vento, così aggrazziate nel dispiegare pigramente le ali al sole, quasi a farsi ammirare, a far notare il gusto nell'accostamento dei colori e nella scelta dei disegni.
Stamattina potavo di malavoglia le poche rose sfiorite quando una, bianca con leggere striature, scure mi si è posata sul braccio. Ha camminato incerta, solleticandomi con le zampette leggerissime sul polso, facendo un giro eplorativo sulle dita, allargando e poi socchiudendo le ali con brevi scatti, costringendomi quasi a fermarmi, per osservarla attentamente.
Perchè ho letto un consiglio, nei suoi movimenti, nei colori inventati, nella forma e nella sericità di quelle ali che sembrava volesse pavoneggiarsi quasi, farmi vedere quanto era stata brava ad eludere i miei assalti a base di spray. Perchè io magari non lo sapevo ma lei sì. Sapeva bene quanto di nuovo ci si possa inventare e quanto incredibile possa diventare, quello che a prima vista sembrava semplicemente la fine.

giovedì 16 settembre 2010

Non sembra settembre

Ma come non sembra settembre? Spiègamelo, ma non sul post. Adesso, a voce, mi hai detto.
Sai, difficile. Difficile, di più ultimamente, io che a volte ci gioco con le parole e con le frasi, che le parole sono anelli da inventare che li metti insieme e fanno una catena come con le clips che tintinnano da farci un braccialetto di parole che suonano, quando riesce, che parlo sempre tanto e forse troppo e che mentre parlo penso, e mi ascolto e cerco ancora altre frasi tra quelle che potrei dirti e scarto quelle che invece non posso. Molto più facile scrivere in fondo, che hai la scusa che se il braccialetto alla fine non riesce bene puoi sempre cancellarlo e ricominciare da capo, cosa che comunque non ho fatto mai.

No, non sembra settembre. Anche se lo indovini da mille particolari e lo respiri, un poco nell'aria. Non sembra settembre, che quando sono arrivato da  faceva un freddo ma un freddo che più che inizio d'autunno sembrava inverno avanzato. E con che caldo correvi invece oggi, che sembra si sia riaccesa l'estate.
Ma no che non sembra settembre, settembre è da sempre un mese quieto, assorto, un lento letargo, una modesta accelerazione, le cose da fare con calma e sorrisi, i lavori non sono mai aggressivi ed opprimenti ed il mare ed il sole che ti han scaldato durano ancora, hai quella patina che ti avvolge e che si assottiglia piano e te ne accorgi, te lo senti addosso che fino a due giorni fa il vento sapeva umido di mare, di passeggiate e del sommesso ribattere metallico delle sartie sulle barche sonnacchiose alla fonda la sera.
No, decisamente non sembra settembre qui, che non sei ancora neanche tornato e già hai tutto il mondo addosso che urla e datemi tregua, vi prego, che è come se ti avessero svegliato con uno scrollone e lavato con una secchiata di acqua gelida, che hai dovuto mettere in moto il cervello quando ancora stavi provando a spegnerlo.
No, non lo sembra, che qui i problemi, i fastidi, le cose che girano male a volte pesano troppo, che sei solo e ti basti va bene, ma di spalle ne hai due in fondo ed alla lunga faticano a sopportare il troppo peso senza neanche una scrollata, un sostegno, sempre che non ci sia chi di peso te ne aggiunge da furbo ancora un pò. E ti verrebbe quasi da dire andate al diavolo, ma tutti, via, via i problemi stupidi, la pigrizia, la lentezza e l'ottusità che rallenta il passo, lasciatemi solo, libero, che almeno da solo mi conosco, non mi ostacolo e non mi ferisco, ho le mie forze e senza tutto il peso aggiunto, senza le catene che mi legano i piedi posso correre più forte e quasi provare a volare, ancora.

E per fortuna corri, che ti han strappato tanto ma almeno quello ti rimane, perchè in giornate così ti mancherebbe veramente troppo non farlo, che il luminare oggi finalmente ha detto alè, vai, e almeno in quello grazieaddio sei solo, sei tu e quel che ne resta delle tue mani e delle tue gambe, del respiro e del cuore, tu ed il mondo che ruota lento sotto le tue scarpe da runner, con la musica che fa un silenzio che che è una mano che ti raccoglie e ti separa dalle discussioni, dai problemi, dalle telefonate e dalle mille mail. 

E corri, vai, libero, felice magari no ma libero, per un momento solo, di essere nuovamente te, di darti tempo tuo, lontano, e così vicino agli alberi e alle nuvole, ai colombi sudici ed alle sagome degli alberi che tracciano ombre già lunghe sulle panchine grinzose.  
E poi, quando torni hai almeno cinque chiamate senza risposta sul cellulare, di cui nessuna di quelle che ti dispiacerebbe aver perso.

Ma è settembre, comunque e si riconosce, in quei colori rossissimi di quella montagna che amo, e nei funghi gialli che si fan trovare radi in una lunga camminata da solo, di domenica mattina. Lo riconosco nelle foglie che scrocchiano sotto i piedi che già tappezzano il consueto percorso del parco sommergendo orme, cicche smozzicate e colorati cucchiaini da gelato. E' settembre, nei frutti dell'ippocastano che piombano giù improvvisi come fucilate. E' settembre nelle prime nebbie la mattina presto, che lasciano ancora il posto a cieli blu che sembra il mare. E' settembre nel buio che arriva improvviso, che avevi appena guardato fuori ed ancora vedevi distintamente le tue rose ed adesso c'è solo la sagoma scura dei tuoi lunghi capelli, di riflesso su buio della superficie lucida del vetro.

Ecco come.

venerdì 10 settembre 2010

Faccio il criceto

Come mi han detto ieri, riferendosi al fatto che al Parco corro in un anello di 2 km, facendo più giri (al momento solo due, per precisi ordini di scuderia).
E sì, lo so che per chi corre sul serio i miei sono tempi da non prendere neanche lontanamente in considerazione, ma ieri finalmente a sei mesi dall'intervento:
- Km 1 - 5.16"
- Km 2 - 5.39"
- Km 3 - 5.22"
- Km 4 - 5.31"
Totale 21.48" 
Sarà stato lo stress per il server (il verdetto definitivo del tecnico è stato che la ricostruzione del RAID non ha permeso il recupero di dati successivi a marzo dell'anno scorso) o sarà perchè il male al tendine comincia ad essere solo più un fastidio indistinto, sarà che ieri qualcuno ha riacceso magicamente il pulsante dell'estate ma sono finalmente riuscito ad abbattere lo scoglio dei 5.30 di media. E se, nell'appuntamento della prossima settimana il luminare darà il permesso di aumentare finalmente i tempi, macinerò nuovamente altre distanze, ritrovando vecchie soddisfazioni.
E non dimentichiamo che, dalla prossima settimana, inizia (lavoro permettendo) il periodo di preparazione in quota, vero Renè? Prima prova i 2659m di questo posto qui, per scoprire se, finalmente, si sono dimenticati di noi.
Ma questa è un'altra storia. 

Tàlìa

Suadente, tàlìa. E' una delle parole più morbide e musicali che abbia sentito e che che mi sia portato dentro come ricordo da quell'isola già lontana.
Tàlìa, con i due accenti marcati ed un frammento piccolissimo di tempo di sospensione dopo, di attesa.
Tàlìa, voce del verbo talìari (andate a curiosare su wikizziunariu, è un autentico spasso)  viene quasi sempre accompagnato da un gesto aprendo le mani, mentre ti viene offerto, mostrato o spiegato qualcosa.
La associo immediatamente a volti sorridenti, al vento caldo che odora del profumo intenso delle zagare e che si riempie del frinire delle cicale, ai cabaret ripieni stracolmi di paste alle mandorle e di cannoli, ai pomodori caldi e succosi, raccolti nell'orto e mangiati subito, nella miglior definizione possibile di alimento a km zero.
Vuol dire guarda, ecco qua, è per te. Con un calore ed una gentilezza, tipica della gente e dei luoghi di là che mi ha colto spesso impreparato.

Strana quest'isola e strana gente, questi siciliani. Strana nell'estrema ed a volte perfino esagerata disponibilità, strana nell'aprirti la casa ed il cuore, con una disarmante semplicità che ha messo a dura prova con la mia naturale scontrosità. 
Strana nello stridore tra l'incanto dell'antico a quattro passi dal degrado più intenso. Strana per certe realtà, nelle diversità, nell'immobilità, nella cultura che prevarica il tempo. 
E molto più probabilmente sarò risultato strano io a loro, è una questione relativa, dipende da come la rigiri. Ho radici laggiù, mio nonno paterno era nato là, ma il nome di famiglia proviene da più lontano, Spagna forse, o Portogallo, mi raccontavano da piccolo. Ho la "j" nel cognome, da figo, come mi han detto una volta. Ma siamo profondamente diversi. 
Ma lentamente questa diversità si è affievolita, smussata, stemperata. E l'Isola, piano piano ci ha assorbiti, con la sua lenta magia.
Abbiamo attraversato lande desolate con antichi paesini abbarbicati e distese a perdita d'occhio di scheletri di serre,  abbandonate ed immobili . Ci siamo beati di specchi di mare solo per noi, lucenti di sole come cristalli purissimi e siamo entrati in punta di piedi in aristocratici e decadenti palazzi. 
Abbiamo nuotato fino allo sfinimento tenendoci sempre per mano e con le lunghe foglie di palma abbiamo spento un incendio che minacciava il nostro albergo.
Abbiamo mangiato fichi d'india dolcissimi e ci siamo trovati le spine tra le dita anche nei giorni seguenti.
La mia piccola, ancor più magra e slanciata, la pelle color del miele dorato, i lunghi capelli e gli occhi scintillanti che catturavano tutte le sfumature del mare mi è sembrata pericolosamente ancora più bella.
Ha iniziato a mettere le consonanti doppie dove abitualmente non ci vanno (a ccasa, ammangiare, ecc.) ed ha preso ad utilizzare uno slang siculopadano con cadenza torinese  che ha divertito tutti ("andùma a curcari" è stata salutata con un applauso): è stata affettuosamente ribattezzata "ciaravedda", con suo grande disappunto.

Ma la permanenza, pur con i suoi benefici effluvi che nascondo sotto l'abbronzatura è stata veramente troppo breve.
Però ho portato indietro sapori nuovi, profumi intensi ed immagini, chiusi dentro il consueto sacchetto di conchiglie bellissime.
Le spiaggie lunghissime e quasi deserte della riserva di Torre Salsa ed il bianco accecante della Scala dei Turchi che si scaglia dentro il blu più intenso.
I gechi intorno ai lampioni nella calma della sera, con i loro occhietti curiosi e mia figlia che li osservava diffidente.
Il sole del tramonto liquido che si scioglie nel mare, caldo come un abbraccio. 
La maestosità delle incredibili rovine di Selinunte in un silenzio quasi irreale.
I miei passi di corsa la mattina presto, su quella sabbia dura come asfalto.
Il gelato a Marina di Ragusa.
Le facce intagliate nel legno dei vecchi immobili intorno alla fontana di Prizzi.
Le mani che mi hanno stretto forte e gli occhi umidi di commozione sincera di Totino e sua moglie, quando sono partito.
E l'ultimo ultimissimo arancino, caldo e croccante, sul traghetto che ci riportava alla realtà, dopo una settimana di meraviglia che sa già di sogno.

martedì 7 settembre 2010

Disaster

Ma secondo voi uno non può nemmeno terminare quei quattro cacchio di giorni di pseudovacanza per tentare di respirare, allontanarsi da tutto che dallo studio ti telefonano per annunciarti che la rete è bloccata. Provi ad indicare le procedure corrette al telefono ma qualcosa non funziona.
Risultato? 1.5 Terabyte di dati perduti, server da buttare, 4 dischi da 750 Gb in configurazione RAID10, (per chi sa cosa vuol dire, in pratica due dischi che fanno da server ed altri due che fanno da backup, quasi il massimo in termini di sicurezza, tant'è che era più di un anno che non salvavo su DVD i dati) irrimediabilmente andati. Più di un anno e mezzo di lavoro completamente a donnine allegre. E le ultime cose su cui mi sono dannato l'anima prima di partire praticanente evaporate.
Scripta manent, Verba volant, files equalis, porca pupazza.
Sì, è vero, sono appena tornato, come dicono nella pubblicità.
Ed ho già immediatamente voglia di sparire, dissolvermi, evaporare.

Proprio come i miei files.

Che stanchezza.

Quei cani dei siciliani

Tranquilli, che non è un post a sfondo razzista nei confronti degli abitanti di quell'isola incredibile che mi ha recentemente ospitato.
Sto parlando di cani veri, quelli pelosi, quattro zampe, una coda ed un muso che generalmente, quando è puntato verso di me, mi mette immediatamente a disagio e mettendomisi a ringhiare contro.
Anche se il a me mi non si usa va detto che a me i cani mi mordono. E' un fatto. Per atavici conflitti rimasti incastrati nei rispettivi DNA o per sport nazionale canino, non so spiegare. Non ci posso far niente, ma è sempre stato così, da quando ho memoria. Sono capace di far abbaiare stizzito anche il cocker più docile e mansueto e potrei raccontare di scene di ordinario panico all'interno di affollate pizzerie, ma evito il divagamento e rientro.
Dicevo che mi mordono ma in realtà ciò non è esatto. Piuttosto tentano di mordermi, ci sono andati vicinissimi in diverse occasioni, mi latrano furiosamente contro, mostrandomi i canini affilati arricciando le labbra, ma fino ad oggi ho evitato loro il piacere di provare il sapore dei miei polpacci.
Correre al mio parco oramai è abitudine e non dà preoccupazioni, i cani qui praticamente sempre rigorosamente al guinzaglio, in questa città un pò grigia ma ordinata, con le sue strade tutte belle dritte e incastrate. E ti puoi perdere beatamente nei tuoi pensieri, nel passo veloce e nel battito del cuore che rimbomba nelle orecchie, al ritmo della musica che ascolti.
Ma giù è tutto veramente molto diverso.
Giù ci sono gruppi irsuti di animali abbandonati che vagano indolenti, con lo sguardo malevolo da bastardo di nome e di fatto, che non chiedono di meglio che un runner con la mente al di sopra delle nuvole a rincorrere i propri sogni e le cuffie nelle orecchie per organizzargli una fantastica festa a sorpresa.
Giù ci sono sperduti tratturi a mezza costa che si allontanano dal mare inerpicandosi pigre su, verso le alture punteggiate da mille pale eoliche magicamente comparse come funghi, tra radure bruciate e radi campi giallastri dove pascolano pigre pecore dall'aspetto emaciato. E come ben sappiamo ogni gregge ha il suo (quando non i suoi) cane da pastore pronto a difenderlo da ogni pericolo.
E così ogni corsa isolana è diventata una discreta avventura, con partenze sempre molto titubanti, qualche empasse nei momenti in cui il branco era convinto di avermi definitivamente accerchiato e ritorni a ritmo decisamente più sostenuto, allegramente inseguito da latrati festaioli. Ciò ha fatto un gran bene al mio allenamento, è vero, e un pò meno alle mie coronarie, ma sono quasi convinto che in fondo non ci sia mai stata cattiveria in tutto questo, ma solo la voglia di svagarsi uscendo dalla noia abituale e dal caldo di qui, che guarda caso si chiama anche "canicola" ed il nome deriva proprio dalla costellazione del Cane maggiore.
Ho parlato di cani e non di persone, ma di persone non degne neanche di essere chiamati "cani" devo doverosamente scrivere qualcosa. Mi riferisco a quel bastardo senz'anima nè coraggio, capace di abbandonare in una scatola di cartone nella discarica più vicina cinque cuccioli di cane appena nati. A me i cani non piacciono, è risaputo, ma una vigliaccheria come questa, una crudeltà del genere è per me inconcepibile ed inaccettabile.  O che dire di quell'altro che ne ha abbandonati altri due, leggermente più grandicelli, di un buffo e di una malinconia che ti lacerano il cuore mentre guardandoti, guaiendo sommessi, mendicano una carezza, così come ti lacera il cuore dire alla tua piccola, che ci vuole un attimo e li adora da subito e gli ha già dato anche un nome che no, non possiamo proprio tenerli, no, non possiamo purtroppo nè portarli a casa, nè omaggiare parenti e conoscenti locali della consorte che qui è di casa.  
E l'unica cosa che possiamo fare per cercare veramente di aiutarli, bimba mia è andare a denunciarne subito l'abbandono alle autorità locali, in maniera che qualcuno provveda. E così abbiamo fatto, con la mia piccola indignata che mi trascinava per mano per andare più veloce. Succede - le hanno poi risposto con un sospiro i vigili - ma sù, adesso stai tranquilla picciridda e non ti preoccupare, che anche se siamo al Sud provvediamo subito.
Sì, qui succede e succede spesso, mi hanno confermato poi in tanti con una sorta di mesta rassegnazione. Il randagismo è una realtà, e la gente da noi non ci fa più neanche tanto caso.
Ma non è facile capire, accettare e subire mentre guardavo quelle povere bestiole tremanti nonostante il caldo soffocante, con gli occhi ancora chiusi che si affastellavano gli uni sugli altri per trovare calore, consapevole che ben pochi sarebbero sopravvissuti.

E per la prima volta, nel mio contrastato rapporto uomo cane ho sentito l'impulso di mettere la mano in quella scatola di povera vita e di mosche ronzanti e di accarezzarli uno per uno, ricevendo in cambio piccole deliziose e tristissime leccate di gratitudine.