sabato 8 settembre 2018

Come si misura la felicità

Era il 2004, a Settembre, un sabato pomeriggio.
Una bimba di 4 anni, con i capelli a caschetto e due bellissimi occhioni color del bosco percorre, per mano al suo papà ed alla sua mamma, il viale inghiaiato davanti alla palazzina di caccia di Stupinigi, che in quell'occasione ospita l'annuale esposizione mondiale felina. All'interno gatti di ogni specie, piccoli, grandi, enormi, a pelo lungo, corto, nudi, di tutto. Con la sua manina tiene stretto il dito del suo papà, quel papà speciale e incredibile, che l'ha portata lì e che subito dopo la biglietteria si è chinato e le ha sussurrato: "piccina, scegli il gatto che vuoi, che il tuo papà te lo prende".

Ora, per quelli di voi che hanno una bimba piccola che adorano ma che nel contempo godono di una situazione economica sempre sull'orlo dell'abisso, vi do un consiglio: quella frase lì sopra è una frase da NON dire MAI. Gatti, cani, canarini, cercopitechi nani, MAI.

La bimba ha gli occhi sgranati, è timorosa, il primo animale che si presenta nel percorso di visita è un bellissimo esemplare di siberiano grande quasi quanto lei che la guarda con alterigia, lei non si osa ad avvicinarsi più di tanto. "Questo no", mormora scuotendo il capino ed allontanandosi in fretta da quella lince neanche tanto in miniatura.
L'esposizione è veramente imponente, c'è da perdersi, c'è da rimanere affascinati a vedere una cucciolata di certosini mentre si azzuffano o una coppia di sofisticati siamesi languidamente distesi che ti osservano sornioni. Ma la piccola, nonostante sia piccola, non si perde, con attenzione e metodo parte e passa in rassegna tutti gli animali, su alcuni non si sofferma più di tanto, (il gatto nudo la fa molto ridere) ma molte altre volte invece prova una carezza, un grattino sotto il mento. Solo una volta si è fermata abbastanza a lungo. All'interno dello spazio una gattina bianca, con lo sguardo un po' imbronciato, sonnecchia vicino a suo fratello.
Un'ora abbondante dopo, la bambina ha esaminato attentamente tutti i gatti presenti nella rassegna. Torna indietro fino ad un allevamento spagnolo, dal nome altisonante, Montericmei - Gatos exoticos - al cui interno c'è lo spazio con la gattina bianca. Questa si avvicina timida ma dopo poco accetta le carezzine e le fa le fusa, lei gli si piazza di fianco, la guarda, mi guarda e sorride "Questo", gli dice. 

Il gatto (anzi la gatta) effettivamente è proprio bella. Mamma annuisce, piace anche a Lei. Vabbè. 
Il papà richiama l'attenzione dell'allevatore spagnolo. Sa destreggiarsi perfettamente, sa che per parlare fluentemente spagnolo basta aggiungere una esse alla fine di ogni parola. Tira fuori il portafogli. 
"Quantos por los gatos?" chiede, indicando il cucciolo.
"Mil doscientos" è la laconica risposta. 
"Pesos?" chiede con voce strozzata il papà
"Euros", gli viene risposto. 

Un attimo di silenzio ed il papà prende per mano la piccina "Ciccia - le dice - il gattino forse non lo vendono, ma ce ne sono molti altri, sei sicura di aver visto proprio benebenebene?"

La bambina non si scompone, ha la massima fiducia nel suo adorabile papà anche se in quel momento ha la voce rauca ed uno strano colorito verdognolo, lo ascolta come fa sempre, gli allunga un bacino, gli riprende il dito nella sua manina e ricomincia giudiziosamente il giro, ripassando con la massima tranquillità tutto il percorso. 

Alla fine del giro la bambina è di nuovo davanti all'allevamento spagnolo "Sì, sono sicura, è questo, papino". (Papino no, ti prego, non sono mai riuscito a resistere alla sua voce quando mi chiama papino). "Proprio sicura sicura?" 
"Sicurissima, papino". (sono spacciato)

Inizia una lenta trattativa degna del miglior venditore di borse Louis Vuitton contraffatte sul lungomare di Rimini. Non sanno mica con chi hanno a che fare, loro. 

"Vannos benes 20 Euros?"   -    "Mil doscientos" è la risposta.
"100 Euros e dos caffes?"   -    "Mil doscientos"
"250 Euros mi voglios rovinares?" -    "Mil doscientos"
"500 Euros e non ne parlamos piùs?" -    "Mil doscientos". 
Non si schioda il balordo. 

In soccorso del genitore arriva una gentile signora dell'organizzazione, lo salva da quella situazione penosa, parla fluentemente spagnolo lei, e spiega che il cucciolo è figlio del pluripremiato campione del mondo Maynate Bulgari Serbelloni Mazzanti Viendalmare. 
"Corre così veloce?" domanda il papà stupito. Lo guardano come si fa con chi proprio non ci arriva, gli spiegano che i gatti più belli vengono selezionati da una giuria e scelti per bellezza, armonia delle forme, portamento. Il papà la trova una cosa degna della miglior corrazzata Potemkin di Fantozzi, ma si astiene da ogni commento. Gli viene spiegato che il prezzo è così caro perché è un esemplare da concorso e da riproduzione, quindi riservato agli allevatori che intendano migliorare il proprio allevamento. Solo un matto lo prenderebbe come cucciolo per la propria bambina.
Il papà si volta verso la piccola  e si china come aveva fatto la mattina "piccina - gli dice - il gattino costa troppi soldini, sei proprio sicura di non averne visto un altro che ti piaccia?"
La bambina non si scompone "Papino, ma tu mi hai detto di scegliere un gatto che me lo avresti preso, è questo il gatto che mi piace e io piaccio a lui" risponde con molta tranquillità. 
Il papà è alle corde e si volta verso l'allevatore:
"1100 Euros e una bottiglias di San Simones?" 
"Mil doscientos"risponde con un sorriso l'allevatore, che sa di averlo finalmente in pugno.

Siglato l'accordo con una stretta di mano, viene fuori un piccolo problemino. L'allevatore ripartirà alla volta del paese iberico domenica sera, non accetta assegni né 600 cambiali da  due euro, né il bonifico il lunedì, ovverosia "a babbo morto" da quel tizio che non gli sembra così affidabile. In contanti dal primo all'ultimo. 

Il papà si prende due giorni per recuperare il malloppo, ma le banche sono chiuse e il bancomat gli eroga, al massimo, 600 Euro, poi gli chiude anche la saracinesca e gli impedisce di avvicinarsi. Il papà telefona al di lui papà, alias il nonno della piccina. Questa la reale testimonianza della telefonata. 
"Ciao papà sono io, senti avrei bisogno di un piacere. Mi servirebbero entro domani 600 Euro. Me li puoi anticipare, che lunedì (martedì, venerdì.....) te li rendo?
"Sì certo, ma cosa ci devi fare?"
"E' per un gatto, sai la Ciccia, l'esposizione felina....)
"MA TU SEI FUORI DI TESTA!!!! 600 Euro per un gatto? Ma vai su in montagna, gira un po' e recupera uno dei randagini a cui tua mamma da mangiare, sono gratis!"
"Veramente papà il gatto ne costa 1200, ma 600 li ho recuperati io, solo che sai, il bancomat....."
Rumore del genitore che sembra si stia strozzando.
"Cos... @azz... p#rc....  Senti figliolo, TU HAI dei grossi problemi ed io ho deciso di aiutarti. Ne avessi bisogno per il lavoro, per la casa, per la macchina te li do subito, te ne do il doppio o il triplo, ma spendere tutto quel denaro per un gatto è da folli ed incoscienti. Ciao" Click.

Il papà allora si rivolge al suocero, non parla più assolutamente di felini e di prezzi ma inventa una scusa plausibile e riesce finalmente ad ottenere il contante. 

E' una domenica pomeriggio. Per tutta la mattina la piccola è stata una piccola pazza indemoniata, che chiede quanto manca ogni dieci minuti, che ha messo in fila per due in duecento e passa peluches sul pavimento del salotto per fare le presentazioni (prima i gatti così si abitua). Anche attraverso il dito stretto nella manina della piccina il papà sente la sua eccitazione. Arrivati allo stand l'allevatore intasca i contanti, carezza il cucciolo, recita silenziosamente una preghiera di ringraziamento e lo consegna alla piccina che finalmente se lo può abbracciare.  "Si chiama Julia Roberts dei Montericmei" le spiega.
"Tanto io la chiamerò Tabata", risponde decisa la bimba.

Quanto si misura la felicità?
Perché questa è stata una delle volte in cui l'ho vista più felice, radiosa.

La famigliola fa per allontanarsi ma l'allevatore la ferma "Non potete andare" spiega in un italiano nemmeno tanto stentato (capiva la lingua, il bastardo) "E' stata scelta dalla giuria nella categoria cuccioli, non appartiene più al mio allevamento, tra poco dovete presentarla sul palco" Il papà non ha intenzione certo di salire lì sopra, spiega all'allevatore che quella sarà l'ultima volta che quel gattino farà una cosa del genere. L'allevatore si offre di accompagnare la bimba e così, pochi minuti dopo, una bimba impacciata con una gattina bianca si presenta timida sul palco, sotto gli occhi di centinaia di persone. "Come si chiama?" gli viene domandato "Tabata" risponde decisa "E' la mia gatta, sì", dice con orgoglio.
Il cucciolo riceverà il secondo premio di categoria ed il terzo premio generale, due coccarde che andranno a finire dimenticate in qualche cassetto. 

Finalmente a casa, esauriti i convenevoli presentati uno ad uno tutti i duecento e passa peluche - piacere Tabata, piacere coniglio Tippete ecc.. - mimati dalla piccola ed assecondati dalla gattina un po' smarrita, quest'ultima viene poi accompagnata nel bagno per la notte e chiusa dentro (per evitare che si possa nascondere da qualche parte nella casa grande), con qualche peluche, i generi di prima necessità e la lettiera. 

Alla mattina successiva, nel bagno sono rimasti solo i peluche, oltre alla conferma che la gatta ha già imparato l'uso della lettiera. Il cucciolo è svanito nel nulla.

Interrogata la famiglia - la piccola giura di non essersi allontanata nottetempo per portare la gattina nel suo letto, il papà la accompagna all'asilo che lei è quasi in lacrime, la tranquillizza; poi telefona in studio per avvertire che farà tardi e inizia una ricerca che nemmeno i RIS della serie televisiva. Inizia dal bagno di sopra con estrema attenzione, apre sportelli, fruga nel cesto della biancheria sporca, nella lavatrice, poi chiude la porta per evitare che il felino lo freghi sgusciandogli alle spalle e passa alla stanza successiva. Due ore di indagine dopo il papà si ritrova affranto, senza nulla di fatto, nel bagno da cui è partito, seduto sulla tazza del water. Del gatto nessuna traccia, sparito volatilizzato. "Ma dove ca@@o sei" si dice, a voce bassa. 
Da qualche parte sotto di lui, lento, sente come un morbido suono di fusa. Il papà si china, prova a chiamare, il suono sembra provenire dall'interno del bidet. Dietro, in corrispondenza degli attacchi, c'è uno spazio ma non ci passa la mano, l'animale si è rifugiato lì e non sa o non vuole uscire. 
Il papà si arma di pazienza, poi recupera un paio di chiavi inglesi e smonta il bidet, lo sposta, tira fuori il cucciolo che lo guarda con gli occhioni come il gatto con gli stivali del cartone animato, mentre gli regala un sonoro ronron di ringraziamento o di scuse.

"Ti ho appena pagato milleduecento euro perciò oggi non ti uccido" dice il papà alla gatta, mentre la tiene in braccio, "ma non garantisco per la prossima volta".

Settembre 2018. La veterinaria porta via il trasportino con una gattina bianca oramai morente. All'interno della casa qualcuno piange sommessamente. 

E non ho mai rifissato definitivamente il bidet.



Ciao, Tabata. Eh sì, che ci mancherai

lunedì 3 settembre 2018

Mille splendidi sogni (quasi) infranti - Parte II

Continua da qui 
Passo a casa da Renè. Sono sfatto, deluso, incazzato e amareggiato. Una birra insieme per smaltire la ferale notizia e decidere sul da farsi. Per me è un disastro, ho il morale sotto le suole, oltretutto sto benissimo, mi sento in perfetta forma.... fintanto che non penso anche solo a provare un passo di corsa. Lui cerca di farmela prendere con filosofia. "Intanto fino a qui sei arrivato - mi dice - hai già fatto tantissimo, ti sei allenato per correre una mezza, e quello difficilmente lo perdi. E' vero, abbiamo fatto pochi lunghi né preparato i lunghissimi, ma per il momento pensa a guarire, poi quando ti daranno il via ci penseremo. Stai tranquillo, a Parigi ci andiamo comunque, mal che vada ci consoliamo con lo champagne e dimentichiamo mogli e guai con le belle donne del Crazy Horse!!". Nonostante la delusione bruci, sorrido.

Dopo qualche giorno inizio con la fisio. Lo strano è che, disteso sul lettino, mi si chiede di fare degli esercizi dolci, lenti, senza sforzo, apparentemente inutili, a mio modo di vedere. "Appena senti fastidio o fai fatica smetti, qui non devi fare il maggior numero di volte una cosa, ti si chiede di farla bene ma soprattutto lentamente, accompagnandola con il respiro". Sali il gradino e scendi il gradino, ruota la gamba e riportala al centro. Gli esercizi da pensionato, li chiamo io (astenersi ogni commento). Niente corsa, vietatissima. Niente esercizi di forza, niente di nulla. Massaggi rilassanti, un po' di sedute di laser e qualche antinfiammatorio. E poi esercizi, esercizi e ancora esercizi, la mattina prima di andare a lavorare, la sera prima di coricarmi e ogni due giorni al centro. Una volta ogni tre, quattro sedute, Dante (il responsabile del centro) mi vuol vedere, tasta l'infiammazione, ne segue i punti maggiormente dolenti ma vede progressi "stai recuperando bene", mi dice. 
Trattengo il fiato, mentre porto avanti i miei esercizi con un muro di ostinazione da montanaro quale sono. Non penso più a Parigi, non spero nulla. Lavoro e terapia, terapia e lavoro. 
Dopo due settimane inizio con una lenta cyclette. Dopo tre, Erika mi fa un cenno verso il tapis roulant. "Due minuti a passo veloce, niente corsa". Il passo veloce forse è troppo veloce, ma non dice niente, un po' sorride. I due minuti finiscono subito. Non ho male. Lei è soddisfatta "ma la strada è ancora lunga", mi dice. E così recupero, lentamente ma accade, il male è solo un sospiro lontano, ma non è mai completamente svanito. E andiamo avanti con gli esercizi, mi si corregge se ci metto troppa foga, e mi si premia ogni volta a fine seduta con qualche minuto in più sul tappeto. 
Un giorno arrivo e mentre sto per dirigermi verso il lettino lei mi manda sul tapis roulant. "Cinque minuti di corsa, vai come ti senti" 
Vado che mi sento da Dio, vado che non correvo così da quando mia mamma mi inseguiva con la ciabatta in mano pronta per il lancio (disciplina di cui era campionessa olimpica) per qualche marachella combinata. Vado che sembra tutto passato, non sento dolore, ho solo voglia di correre e sembra che sia ancora abbastanza capace, anche se alla fine mi ritrovo con il fiatone ed il battito a mille. 
"Sei praticamente guarito" sentenzia Dante dopo qualche sera "anche se faremo terapie di conserva fino al giorno prima della tua partenza, la pubalgia a volte sa essere una grandissima stronza...." Esco toccandomi in tutti i posti possibili e non, incrociando anche le dita dei piedi. La sera stessa telefono a Renato e lo metto al corrente della splendida notizia. Lui, però, frena il mio entusiasmo e mi riporta sulla terra. "Hai perso quasi un mese, il più importante, per una maratona - mi dice - e la nostra è oramai alle porte. Non c'è tempo per finire la preparazione, ricominciamo da capo e vediamo di arrivare dove riusciremo. Ma non ci importa, in fondo, no? Adesso fila a farmi due giri da 5 e dopo mandami lo screenshot dei tempi, così vediamo come allenarti. 
E così facciamo. E molto del tempo restante lo divido tra allenamenti, terapia e... ah, sì, pure lavoro e briciole di famiglia. Marzo è clemente, mi regala scampoli di primavera, le ripetute anche la sera tardi non mi gelano più le ossa. Riprovo a misurarmi e far diventare abitudine prima i quattordici, poi venti e infine i venticinque km, ma ad un certo punto è finito il tempo. E' ora.
Dopo i baci a profusione dispensati alla mia Ciccia, declinato l'invito ad indossare il braccialetto elettronico gentilmente offerto dalla consorte e una energica stropicciata alla gatta partiamo alla volta della casa di montagna, dove troverò mia mamma (che adora Renè, anche se anni fa l'aveva cacciato fuori dalle cinta murarie senza tante cerimonie..), lasceremo l'auto e prenderemo il TGV alla volta della Ville Lumière. 

E' venerdì pomeriggio, siamo due ragazzini in vacanza, mia mamma ci ha caricati di ogni ben di Dio ("chissà cosa vi faranno mangiare quei mangialumache"), non abbiamo una preoccupazione al mondo. Per tutta la durata del viaggio non facciamo che parlare e scherzare, raccontare di corse e montagne e poi ridere e far ridere le altre persone presenti nello scompartimento. Renè non è mai stato a Parigi, non avremo tanto tempo (la corsa è domenica, ma già lunedì in giornata ripartiremo) però qualche angolo voglio farglielo proprio scoprire. 
Arriviamo alla Gare de Lyon che sono le dieci circa di sera, prendiamo la metro e raggiungiamo l'hotel per lasciare i bagagli (e scoprire che per un errore dell'agenzia ci hanno riservato un letto matrimoniale alla francese) ma ne usciamo subito, siamo elettrizzati, Renè non sa di essere a un tiro di schioppo dalla Tour Eiffel e riesco a portarlo vicinissimo senza fargliela scorgere e poi, di colpo, dietro un palazzo scenograficamente gli appare, luminosa, scintillante, maestosa, con la Parigi e la Senna a fargli da sfondo. Ne rimane affascinato, ha gli occhi spalancati, non se l'aspettava, tanta esplosione di luci, lo sfarzo dei grandi boulevards; questa è Parigi, la mia Parigi, che mi sussurra piano "Bon retour, tu m'as manqué".
Quella sera giriamo senza meta: percorriamo l'avenue Kléber, lui rimane a bocca aperta di fronte al lusso del The Peninsula Paris, decidiamo che la prossima volta che torneremo ci meriteremo senza dubbio una stanza in quell'hotel e sicuramente con letti separati. A due passi dall'avenue de la grande Armée entriamo in un pub, ci gustiamo due medie Affligem alla spina (che diventerà ufficialmente la "nostra" birra della maratona) che sono una vera delizia, il titolare Victor è gentile e dopo pochi minuti siamo lì a chiacchierare come vecchi amici, della nostra corsa di dopodomani, dell'Italia e della vita a Parigi. Torniamo in hotel che sono passate le due di notte. Passeremo la mezz'ora successiva a cercare di svegliare il portiere di notte, quest'ultimo in piena fase REM.

Il giorno dopo, freddo e nuvoloso, trascorre in fretta tra recupero dei pettorali, una gita alla Défense la mattina ed un pomeriggio da turisti tra ponti, il quartiere latino, l'Ile de la Cité. Entriamo a Notre Dame in punta di piedi, Renè è decisamente colpito dalla maestosità del luogo, i rosoni imponenti, i colonnati altissimi. La sera una bella corsetta di riscaldamento, e infine un'ottima cenetta in una tipica Brasserie che avevamo adocchiato poche ore prima. 
Poi presto a dormire. Sarà il fatto che domani correrò la mia maratona, sarà molto più probabilmente il fatto che nel letto alla francese uno di noi due è di troppo, ma il sonno stenta ad arrivare. 

L'indomani mattina sveglia presto, le sei e trenta e siamo già a fare colazione, seguo i consigli di Renè, dobbiamo fare il pieno di energia senza appesantirci e poi via, verso Avenue Foch poco distante. Arriviamo all'Arc de Triomphe che schiarisce e fa ancora freddo ma lo spettacolo è già impressionante, migliaia di runner che si cambiano, si appuntano il pettorale, fanno riscaldamento, si incoraggiano, un fiume festante di uomini, donne, ragazzi, runner improponibili con panza da bevitori di birra, signore di una certà età tenaci come l'acciaio, la moltitudine è assolutamente incredibile, siamo circa cinquantacinquemila, come se tutti gli abitanti di Cuneo si mettessero a correre. Tanti gli occhi di quelli intenti a trovare la giusta concentrazione, ma ovunque mi giri vedo sorrisi, tanti sorrisi. Renè ha gli occhi della tigre anche se questa volta non potrà partire davanti come suo solito. E' concentrato, mi porta avanti, mi spiega che le partenze sono a scaglioni in funzione del tempo previsto e non dobbiamo rimanere intruppati. L'Avenue degli Champs E'liseés è stracolma. 

Quarantadue chilometri e centonovantacinque metri mi aspettano.

Partono i primi, i professionisti, quelli che in due ore e pochi minuti avranno già finito, esili come gazzelle e con una falcata da paura. Poi, man mano, gli altri. A un certo punto tocca a noi.  Adrenalina a mille, il conto alla rovescia scandito da tutti e poi lo sparo e via! sulle le note della musica di Momenti di Gloria di Vangelis a tutto volume. Unico, meraviglioso e impetuoso, il mondo si muove a passo di corsa. Percorriamo tutta la lunghissima Rue de Rivoli in un fiato, passiamo place de la Bastille, Renè continua a dirmi di rallentare, saltiamo il primo punto di rifornimento e da lì in poi corriamo con meno gente intorno, sciolti. Correre qui è un'esperienza irripetibile, i tuoi passi leggeri e veloci sono la consapevolezza di quello che sei, che sarà poco ma è tutto quello che ho e che sono, un sognatore sempre, ed è un'emozione la gente che ti incoraggia leggendo il tuo nome sul pettorale, i bambini sulle spalle dei genitori che aspettano che tu gli dia il cinque, i pompieri sulle autoscale sopra di te, le innumerevoli bande con i tamburi che ti danno il ritmo, le famiglie con i cartelloni che incitano i loro papà, bello bello, e poi tutt'intorno Parigi, Parigi e ancora Parigi, I tetti, le cancellate, i marciapiedi, l'aria di Parigi, respiro e mi inebrio, un passo dopo l'altro, la magia della Ville Lumiére scorre veloce sotto le suole. Passato Bois de Vincennes la fatica mi viene progressivamente incontro, le gambe sembrano dirmi che solo a quello le avevo preparate, mica posso pretendere di più, Renè invece è fresco come una rosa e ne approfitta del ritmo improvvisamente più turistico per baccagliare ogni fanciulla (d'oltralpe e non) che gli capiti di incrociare. Quando comprendo di aver davvero finito la benzina avverto il mio compagno e rallentiamo, voler mantenere il ritmo previsto non ha più alcun senso, purtroppo dovevamo metterlo in conto. Il lungo tratto in saliscendi sotto i ponti è il più duro. Il "muro dei 30 km" è rappresentato da un muro in polistirolo e noi ci passiamo sotto corricchiando, con gli incitamenti della gente assiepata. Da lì all'arrivo sono solo più dodici km e rotti, tento di ricordare quante volte li ho fatti come un nulla, ma a questo punto, con i polpacci che tirano ed il fiato che raschia i polmoni, sembrano dodicimila. Alterno corsa a camminata, sono sfinito, ogni punto di rifornimento è un miraggio, ma poi si recupera un po'. Al Bois de Boulogne Renè mi si affianca e mi dice se me la sento di finire in volata. Finire? Ma finire cosa? "Tra poco passiamo i quaranta, non sarebbe male tirare un po' sul serio". Accetto, gli confido che non ce la farò mai ma non sarà male morire stramazzando nelle vicinanze dell'arrivo, cerco di impartirgli alcune brevi disposizioni testamentarie. Lui, incurante del mio stato, impietosamente parte deciso e io, dietro, scopro di avere ancora briciole di energie nascoste, sfiliamo veloci e  in quella manciata di chilometri di parco mi sembra di superare il mondo, chi cammina, chi corricchia sfinito, ci sono diverse persone sdraiate ai lati e aiutate dal personale delle ambulanze, il tempo sembra non finire mai. 

Poi improvvisamente invece si ferma. 

Un'ultima curva e, su Avenue Foch, con gli austeri palazzi a far da cornice e l'Arc de Triomphe sullo sfondo, al termine di un lungo rettilineo si staglia unico, imponente e meraviglioso, l'arrivo. Renè si fa da parte per farmelo gustare da solo, sento solo i miei passi a martellare la strada, il mio cuore che batte, le braccia che mi spingono avanti, è per questo momento che mi sono preparato, è per questo che sono serviti gli allenamenti con la pioggia, le ripetute al Ruffini, le cadute nel buio, la fisioterapia, è per quel mio voler ostinatamente continuare a sognare che arrivo con un'ultima energica spinta, e ho finito, quarantadue chilometri e centonovantacinque metri, ce l'abbiamo fatta, ce l'ho fatta, passare lì sotto e fermare il cronometro, la consapevolezza di esserci riuscito è da brividi sulla pelle, mi forma un groppo alla gola che mi emoziona, continuo a dire bello, bellissimo con i pugni serrati, il personale all'arrivo distribuisce energiche pacche sulle spalle a tutti, l'adrenalina di molti si scioglie in lacrime, abbraccio Renè, abbraccio chi finisce insieme a me, Renè cerca di abbracciare le runner più carine. Riceviamo la medaglia un po' pacchiana, che indossiamo con malcelato orgoglio e ci facciamo scattare una foto insieme, Renè sembra reduce da un picnic, io da un bombardamento. 

Il resto di quelle magiche giornate rimangono ricordi solo nostri, che non possono interessare a nessuno. In valigia, oltre alle nostre medaglie - la maglia la indosseremo orgogliosamente durante il viaggio - porteremo qualche regalo per i nostri cari, un paio di bottiglie di Chablis per mia mamma (che apprezzerà) ed i mille frammenti che costruiranno il ricordo di questa splendida avventura insieme. Come un passaggio da Narnia, il TGV ci riporta velocemente alla vita di tutti giorni, alle nostre quotidianità, mentre il recente passato comincia già ad avere i contorni di un bellissimo sogno, così come è giusto che sia. 



Il sogno non si è infranto. E ne restano ancora molti altri