mercoledì 30 giugno 2010

Forse

Perso, dandomi tregua scaraventandomi dentro le mie fantasie, nei mei sogni ad occhi aperti in cui ultimamente trovo rifugio sempre più spesso.
Forse, pensavo, forse.
Forse, per un secondo, forse.
Nei miei ragionamenti astrusi ed estraneanti, nelle immaginazioni concatenate, così vivide e lucide che sembran vere, che non mi fanno sentire suoni e rumori.
Trattengo il fiato, disteso sul lettino, massacrando nervosamente con le dita il lenzuolino monouso di carta. La stanza è asettica ed in penombra, il macchinario emette un flebile ronzio, soporoso, aiuta a perdermi.
Il gel viene spalmato con gentilezza, dalla solerte ecografa, quasi un delicato massaggio. "Fa qualche sport?" mi ha chiesto appena sono entrato? "Sì, corro", ho risposto da sotto tutti i miei capelli, automaticamente, senza pensarci.
Corro? Sicuro? Sarei forse ancora un runner? Sono quattro mesi che non faccio praticamente più niente, che mi ero messo di buzzo buono in piscina a stordirmi di vasche e vasche e poi di colpo più niente.
Sono mesi che non penso ai mille, ai lunghi, ai fartlek. Quattro mesi che non respiro il momento, l'asfalto veloce chiazzato di ombre di alberi sotto passi nervosi, quattro mesi che non vedo il mio vecchietto, quello avrà mille anni, con la sua faccia incazzata, che corre con il sacchetto con il ricambio stretto con le dita. Quattro mesi in cui la mia vita si è ribaltata e aggrovigliata, più volte, di quei nodi stretti che alla fine fai così fatica a disfarli che converrebbe tagliare, di un bel taglio netto ed affilato.
E forse taglierei, veramente.
Forse taglierei la corda da qui, da una vita a volte troppo pesante da sopportare da soli, dalle grane e dai soldi che non bastano mai, che quei pochi che arrivano sembrano impronte sulla sabbia del mare, sparite appena l'onda si ritira.
Forse taglierei la corda dall'incapacità di vedere lontano, da tutte le pochezze, dai dai fallo tu, che così io posso lavorare meno e uscirmene bello bello facendo finta di non vedere che tu qui praticamente ci vivi, da chi non fa altro che pensare sempre e troppo a se stesso, dalle sere che non riesci neanche più a trovare conforto tornando in moto, a cercare pieghe impossibili, sotto quella luna di quel sorriso triste che sembra una ginevrina fosforescente appiccicata su un muro nero.
Forse con ce la faccio.
Forse non sarò più capace di riprendermi e riportarmi a superare la fatica del ricominciare, del sopportare di andare a sette al chilometro, al fiato grosso e al cuore che batte a centonovanta.
Forse invece dovrei capire, decidermi ad accettare che non ho vent'anni, perchè quando vent'anni li avevo sul serio quelli della mia età di adesso li vedevo come dei vecchi e quindi.

Incrocio le dita, mentre lei passa avanti, indietro, sopra, sotto, a destra, a sinistra. Il suo sguardo è calamitato sul monitor. Il mio è su questo stramaledetto rotolo di carta ruvida che ho ormai mezzo che sbrindellato con le dita.

Forse invece no.
Forse invece vorrei ritrovarmici, in quel punto preciso, quello dove per terra c'è una doppia linea bianca e scritto inizio e fine, dove ogni passaggio sono due chilometri e cento metri del mio giro. Vorrei riprovare ad scavarmi dentro per tirare quella forza e poi coraggio e finalmente sorrisi, nascosti nelle pieghe di una maglietta con la scritta run. Vorrei risentire il gesto che faccio con le dita sul ruvido della visiera del cappellino che appoggia sugli occhiali e la musica che incomincia e mi sommerge quando, per un istante magico e bellissimo mi trasformo passando da essere che cammina ad uomo che corre.
"Forse", mi dice lei, rompendo il silenzio e strappandomi ai mei forse.
Mi giro su un fianco e la guardo, interrogativo. Capace che nel mio sogno tutto personale mi sono messo a ragionare a voce alta.
"Forse può riprendere a correre, l'ultima parola la dovrà dire il suo medico curante, ma per quel che vedo il suo tendine è guarito. Ha fatto un lavoro discreto, in questi mesi. Certo, la corsa non è l'ideale, ma questi, in fondo sono tutti fatti suoi".

Mi porge la cartella ed un attimo dopo sono in sella alla mia moto. Il rombo del motore è più intenso, il sole d'improvviso è diventato più caldo ed il traffico meno fastidioso, mentre ziz zagando veloce me ne torno in studio, al mio lavoro che è sempre tanto, va bene, ma in fondo sempre meno di ieri.

Forse.

Forse un cazzo, scusate il francesismo.

Forse Certo che per mettere la testa a posto non è ancora arrivato il tempo.

E domani vado subito a comprarmi un paio di scarpe da running nuove.

venerdì 25 giugno 2010

venticinquezerosei

Ho raggiunto ieri il traguardo del mio primo anno su questo blog, e se non stavo attento finivo lungo, a momenti mi passava davanti quasi senza che me ne accorgessi.
Un cerchio completo, trecentosessantacinque giorni di idee e sogni, di parole, di pensieri, opere ed omissioni.
Dimmi, quante volte figliolo?
Quasi cento, padre.
Novantasette post, uno ogni tre-quattro giorni. Certo, l'ultimo periodo non ha aiutato, ma tant'è son qui, adesso. Anche se circondato da fogli e schemi e cellulari che ringhiano e stampanti che stampano sempre troppo piano, con occhi pesti, faccia tirata e smagrita, regolare barba lunga da settimana infame di corredo e capelli che neanche più il casco riesce a contenere e che in confronto Simoncelli sembra un militare di leva.
E, particolare che distingue l'ingegnere atipico da uno classico, con scarpe da running sempre ai piedi, ultimamente impreziosite da buchi sulla tela che ogni giorno si allargano un pò di più (eh sì, le mie beneamate Saucony sono definitivamente arrivate al capolinea).

In pratica, il classico esemplare di bello e dannato. :-)

No, non è un errore di battitura. Ho scritto dannato. e non volevo scrivere d'annata.

Ma comunque, anche se provato, eccomi. Ad aggiungerne un altro (ed un altro paio ce li ho in saccoccia, quasi pronti), come sempre un pò scrivendo per me ed un pò no, rubando il tempo necessario a concludere i mille progetti che ci stanno letteralmente schiacciando.
Qui, nello studio delle rose e del pino maestoso il sistema "ODP" (One day project) è collaudato da tempo, ci ha permesso in passato di superare con nonchalance punte di lavoro improvvise, ma rischia veramente di non bastare nei prossimi giorni, anzi se non ci si inventa in fretta qualcosa si soccombe, tant'è che mi son lasciato addirittura sfuggire di mente la prenotazione dell'ecografia al tendine per vedere se è ancora di cristallo o no. E di conseguenza il mio luminare si è rifiutato visitarmi di concedermi "sulla fiducia" il tanto sospirato benestare alla ripresa. Che ormai me lo sogno di notte, di ricominciare a strapazzar l'asfalto.

Ragion per cui pongo ragione e giudizio da una parte, anima e pensiero dall'altra e mi rimetto a digitare sulla tastiera per fini diversi e molto meno divertenti, ve lo assicuro. Chiedo scusa, tornerò quanto prima.

Yours sincerely
                      Dreaming and Running

domenica 20 giugno 2010

Vi porterei

[Monviso, in cima]
Oggi, in questa mattinata fatta di freddo quasi invernale e di nuvole stracciate che si inseguono rabbiose contro montagne scure, di lavoro domenicale, di disegni da plottare e relazioni ancor tutte da preparare.

Mi porterei invece, a provare la sicurezza della corda, abbandonando la paura di saltar giù vicino allo zaino. A vedere il vuoto con occhi diversi. Ad osservare il mondo da un'altra prospettiva, ascoltando il vento ed il cuore battere insieme.

A fidarmi della mente e di chi ti tiene. Appeso alla vita.
A non ossessionarmi, ma a assecondarmi, semplicemente.

Mi porterei a sentire la roccia in punta di dita, a saggiare ruvidi appigli prima di forzare un passaggio veloce.
Io nei punti più esposti fischietto o canticchio qualcosa, mi dona calma l'ascoltarmi. 


Mi porterei a godere della bellezza intensa di ogni minuto,
che sia fatto di forza e concentrazione
o di lenta e inevitabile attesa.

Mi porterei poi sulla cima di una via, sazio, finalmente pigro, con la schiena appoggiata ad una croce graffiata dai ricordi e dal tempo, ad assaporare un tramonto che, il giorno successivo, magari, nessuno vedrà, da quel punto esatto, con le palpebre leggermente socchiuse per poter scrutare dritto in faccia il sole che si piega dietro altre cime.

Mi porterei a sentire l'adrenalina delle veloci discese in doppia, mentre, facilmente ripercorri al contrario i passaggi più impegnativi di prima.

Mi porterei infine a ritrovare il mio zaino ed a riguardare dal basso con occhi diversi la via appena percorsa, vinta, definitivamente assorbita, risentendola tutta nelle braccia doloranti, con una gratificazione dentro che è mia e solo mia.

Eh, se vi va, vi porterei con me.

martedì 15 giugno 2010

Sorpreso dalle note nelle note sospeso

Ieri sera. E stupito.
Scovata, dietro pile di volumi impolverati di memoria, tra briciole sparse di ricordi stanchi che non premevano neanche più per tornare alla ribalta. Sono bastate due note, un accordo di pianoforte ed è tornata. Prepotente. Prendendomi nella folata di ricordi alla sprovvista e trovandomi totalmente impreparato.
Chissà come ho fatto a metterla li e a lasciarcela.
Chissà da quanto tempo stava lì, in quell'angolo, buona buona. Chissà cosa aspettava per tornare. E pensare che sarebbero bastate due parole, magari pronunciate in un discorso a caso, ma come è mai possibile pronunciare parole come questo vivere appesi coi denti, che è come mi sento di vivere io, no che non è possibile. E allora attendeva quieta, l'occasione, tranquilla. Sapeva che, prima o poi mi sarebbe tornata in mente.
E l'occasione si è presentata ieri sera. 

Questo vivere appesi coi denti.

Mai dimenticata, perchè ascoltarla è stato ritrovarne intatta ogni strofa ed ogni nota, è stato srotolare un nastro di armonie che giocando con le parole fan cadere ad una ad una emozioni come biglie su un pavimento di pietra.

Ed è da ieri sera che non me la levo di mente, che me la ripeto, che me la ricanto in segreto, mentre lavoro, mentre mi sposto in auto, mentre guardo un cantiere da sotto i miei capelli zuppi e gocciolanti di pioggia.
Ho i miei gusti musicali, comuni presumo, nella media. Ascolto di tutto, classica jazz, italiani e stranieri. 
Poi però, alcune canzoni, chissà perchè, diventano speciali. Alcune trovano spazi e sincronie impreviste e negli ingranaggi strani delle mie emozioni iniziano a girare come se fossero state create apposta.

Ci sono quelle che mi fanno iniziare bene la giornata, come "per fare a meno di te" di Giorgia che è quasi un rito mattutino, c'è Blue Bird di Malika Ayane o Blucobalto dei Negramaro che mi fan correre meglio o almeno dovrebbero (sigh!). Ci son quelle che morbide e quelle ruvide. Quelle che donano allegria e quelle che ti fan venir voglia di ascoltarle per ore e ore fino a star male. Quelle che ti colpiscono per le parole soprattutto e quelle invece dove è la musica a fare la parte migliore. E nella mia personalissima hit si  va dalla più datata "One", U2, alla più recente "Ti vorrei sollevare", Elisa e G. Sangiorgi, passando per il Canone di Pachembel, varie ed eventuali. 

E questa, ritrovata, rimbalzata a sorpresa dalla colonna sonora di un film di tarda sera, sì, è proprio una delle mie bellissime.

Per le parole struggenti, per le note lente e disarmanti e subito dopo incalzanti come onde di un mare in burrasca, per il sorriso che non può non venirti fuori se riesci ancora a fargli il controcanto, come facevi allora.
Perchè mi ci ritrovavo nel'ordine esatto delle strofe e mi ci ritrovo uguale ed immutato ancora oggi. E mi fa piacere saperlo.
Perchè ci respiro il profumo del salmastro e di lontane nostalgie e si immaginano fredde luci di città invernali, così vivide e vere che quasi si vedono.

Se mai fossi stato in grado di scrivere un brano è così che avrei voluto farlo. Uguale uguale, nè un accordo in più nè una parola in meno.

Quale sia questa canzone lo sanno in pochi.

Ma è bellissima, giuro.
E, se volete giocare, non è troppo difficile.

sabato 12 giugno 2010

Parentesi

Forzata, dal mio scrivere convulso. Ma veramente non è facile, in queste settimane intense. Di viaggi e lavori e consegne e lavori ancora. Di soddisfazioni e frustrazioni, di lavori splendidi ed errori stupidi, di telefonate e telefonate. E la piena del fiume non ha intenzione di ridursi, per fortuna, anzi. Si prevede un paio di settimane ancora al brucio. Dico per fortuna pensando esclusivamente al mio mutuo stellare, intendiamoci, anche se il teorema "tanto lavoro tanti soldi", in realtà è tutto da dimostrare.
E, tra le altre cose, la consorte ha avuto pure la brillantissima idea di "nominarmi" fotografo ufficiale per un pomeridiano matrimonio parentale in quel di bucodiculoplace. Poco importa che ultimamente mi abbia visto tornare al desco che a momenti il sole sorgeva, precipitare in coma su un letto qualsiasi e risvegliarmi di lì a poche ore, poco importa che abbia protestato in maniera veemente, citando tutti gli abitanti del loco miserrimo che hanno qualche legame di parentela con la futura sposa, un occhio buono ed il dito indice in grado di esercitare una piccola pressione su un pulsante e soprattutto un cazzo da fare, lei non si è osata a dire di no.. Com'è che diceva quel comico? "Son tutti froci con il culo degli altri?" Ecco, appunto.

Ma non è stato tutto questo male, alla fine. Anche perchè mi era stata fornita, come mezzo per esercitare la mia arte, una splendida Nikon D5000 dotata di un obiettivo altrettanto bello, luminoso ed efficace, che alla fine, a malincuore, ho dovuto restituire al legittimo proprietario. 
Sì, devo ammetterlo, un minimo di ribrezzo in qualche scatto di gruppo l'ho provato, qualche conato nel vedere esseri appartenenti all'anello di congiunzione tra uomo e scimmia (lato scimmia) abbuffarsi di tartine come se stesse per avvicinarsi la fine del mondo mi è pure venuto, ma ho sopportato con un sorriso stirato ed ho tirato avanti; è successo stranamente anche altro. Il mio occhio, filtrato dall'oculare della macchina fotografica, non ha percepito l'astio e lo squallido soliti, sorvolando leggero sulle brutture del comune in cui dormo pochissimo, anzi.
Ha ricercato con attenzione insolita e trovato particolari gentili, finestre aggraziate, esseri piumati in volo su laghi placidi e riflessi di nuvole, oltre ovviamente alla mia piccola, che in quanto mia è bellisima comunque e dovunque, sia attraverso l'obiettivo sia senza.  E qualcuno dei quasi cinquecento scatti mi ha sorpreso, veramente, ma non fatelo sapere agli indigeni. Rimarrebbe loro la mandibola bloccata per lo stupore nel sentirmi dire una cosa del genere.
Non ho, al momento immagini da sottoporre alla vostra attenzione. Solo un paio, che sono queste qua, scatti di prova in studio, mentre apprendevo le potenzialità dell'attrezzo digitale.  Merito di quest'ultimo, diranno i maligni. Sicuro. Mi ritengo comunque discretamente soddisfatto.  
Così come mi ritengo discretamente soddisfatto sulla nuova grafica del blog, modificata ieriseratardissimo o stamattina prestissimo, comincio ad avere percezioni confuse del tempo. Ditemi cosa ne pensate, ascolterò ogni consiglio.
Ed adesso riprendo a lavorare, con una voglia di trovarmi una parete ruvida, aperta e baciata dal sole che non ne avete idea.

lunedì 7 giugno 2010

Blusubianco

Avrete letto del contest letterario "Blu su bianco" promosso dalla Muller. Orbene (orbene?? ma come scrivo?) m'era punta vaghezza (di bene in meglio!!!) inizialmente, di partecipare, ma: primo: da quando ho avuto l'idea di farlo a quando sono andato sul sito con l'intenzione di scrivere erano già passati due incipit e secondo: bisogna averci tempo, costanza e dedizione. E voglia. Ed esserne capaci, non dimentichiamolo.
E così ho rinunciato ancor prima di cominciare.
Non è proprio vero, però.
Perchè qualcosa ho scritto. E l'ho regalato in giro.
Quello che mi veniva, senza cercare la forma, la parola giusta, così. Ciò che l'incipit mi faceva venire in mente lo buttavo giù.
Badate bene, non vorrei che questo mio modo di fare venisse travisato, che si pensasse che rifiuto il confronto, che mi ritengo superiore o roba del genere.
No, nulla di tutto questo, ve lo assicuro.
E' che per fare le cose bene bisogna impegnarsi ed avere una predisposizione d''animo che, al momento, vuoi il tempo, vuoi come mi va, veramente non posseggo. Ma scrivere mi piace, è innegabile, è una sorta di liberazione, è la corsa che non posso ancora buttata su fogli di carta virtuale.
E quindi faccio come allora, quando disegnavo. Mi piaceva disegnare, mi appassiona e mi piace tutt'ora anche se, con il tempo, penso di aver perduto buona parte di una mano che tutto sommato non è mai stata granchè. Ma disegnavo e regalavo, e così non ho conservato quasi niente.
E in cotal guisa (!!!) faccio adesso. Che non so scrivere come non sapevo disegnare. Ma al momento è quello che mi fa star bene.

Ed allora, questo, lo regalo a voi. I nomi delle protagoniste son scelti a caso, prendendo le prime notizie da Libero con protagoniste femminili (stralciando quelle su Belen e mignottame vario). 

Stamattina si è svegliata presto.
Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino.
Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve.
Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi.
Non è riuscita a smettere di guardare.
Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe.
Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei.
E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza.
Solo, non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Ed è stato tornare bambina, riavvolgendo veloce il tempo in quel tuo sguardo, ammutolita, a fissare con occhi sgranati l'incanto dei fiocchi di candida ovatta che scendono, dondolando piano a mille nella luce di fuori di latte grigio, percependo il silenzio innaturale che è proprio quello che ti sveglia, che ti prende per mano e ti dice alzati, vieni a vedere, dai, shhh, cammina silenziosa in punta di piedi scalzi, con il freddo delle mattonelle che ti accompagna rabbrividendo piano, vieni dai, appoggia il naso e la fronte sul vetro gelato, abbandonando ogni legame, ogni timore, ogni stupore sulla superficie che si appanna rapidamente con i tuoi respiri caldi.

Un manto candido si è già posato ovunque rendendo uniforme e monocolore ciò che contempla quel tuo sguardo, dalle siepi irregolari e gobbute agli alberi contorti e tristi, sulle macchine addormentate e sulle pensiline solitarie del tram.
Sulle panchine si indovina ancora la sagoma di un giornale abbandonato.
Il marciapiede reca impronte scure di chi, nonostante il tempo, è dovuto uscire comunque. Poche le macchine della domenica mattina, non hanno ancora sporcato l'incanto.
E' bellissimo come mai l'avevi trovato.
Sui rami spogli dell'albero vicino la neve ha costruito piccoli muretti compatti in precario equilibrio, così come sul cavo della luce che attraversa la strada; solo l'arrivo di un colombo fa precipitare silenziosamente sulla strada una striscia intatta, che si incastra alla perfezione e scompare nel bianco sottostante.
D'impulso apri la finestra e rimani ad annusare il silenzio della neve che cade, che è un silenzio che fa rumore, perchè nasconde gli altri rumori d'abitudine di questa città, di questa piazza, di questa finestra. Stringi le braccia incrociando le mani, in un abbraccio solo tuo, come se avvertissi il freddo pungente sotto la camicia da notte. Ma no. Non hai freddo.
E' solo che non sei più tu, Francesca. 
La faccenda non ti sorprende, no. Non ti sconvolge minimamente, anzi. Ne sorridi, improvvisamente libera, pensando alle lacrime, alle mani torte, a quelle urla che ti sembrano vecchie di mille anni. Ed era solo ieri sera invece che le hai tirate fuori per lanciargliele addosso, per colpirlo duramente con una rabbia che ti sovrastavava, dopo averle accumulate con pazienza le une sulle altre.

Lo hai mancato.
Hai preso solo la porta che lui ha sbattuto andandosene per sempre.
Ti ha restituito la tua vita. Non ha portato via niente, dalle calze spaiate sullo stendino del bagno ai suoi preziosi libri. E ti ha lasciato tutto il resto.
La spesa alla Lid'l del venerdì sera, il tuo lavoro con i tuoi turni di notte, la stanchezza cronica, le bollette ed il mutuo che ogni mese non sai come pagare.
Ti ha lasciato una brutta vita ed i tuoi ma come ho fatto a ridurmi così, Il tuo bambine state buone che la mamma è stanca.
Diciamo la verità, Francesca, non piacevi più a te stessa molto prima di non piacere più a lui. E a loro.
E sì che eri diversa un tempo. Eri pazza e innamorata, e gioiosa e fresca e ridevi sempre. Tu con lui, poi tu e lui e loro, Sara e Giulia, arrivate subito dopo sposati, una dietro l'altra.
Lui che ti chiamava il suo arcobaleno.
E pian piano hai perso tutti i colori.
Da quanto tempo non ridi, Francesca?
Secondo me devi avere ancora un bel sorriso, ma sei una che sorride poco.
Beh, adesso stai sorridendo, Francesca.
I fiocchi continuano a cadere incessanti. Allunghi una mano e ne accogli uno, che osservi stupita sciogliersi e farsi goccia gelata. 
Quanti anni avrai, Francesca?
Ad occhio e croce non te ne senti più di dieci, mentre guardi la nevicata più bella del mondo.
Ieri sera ti sei addormentata che ne avevi trentacinque, ma ne sentivi addosso più del doppio, opprimenti, scuri. Pesanti.
E scura sei diventata. Senza neanche accorgertene, senza darti il tempo per guardarti cambiare, accartocciarti su te stessa. Arida. Grigia.
Hai fatto tutto da sola. Certo lui non ti ha aiutata, non accorgendosi in tempo che cambiavi, che scolorivi, che non avevi tutta quella forza che credevi di avere, ma lo sai che la colpa è solo tua.
E la bambina di dieci anni che sei adesso ha paura.
Sei sola Francesca.
Ma il rumore che proviene dall'altra stanza aumenta di volume. E la bambina di dieci anni che sei in punta di piedi abbandona la finestra e va curiosa verso quella stanza.
Bambine state buone che la mamma è stanca.
Dall'altro lato della porta chiusa indovini una battaglia di cuscini, con le risate strozzate per non far rumore.
Giri piano la maniglia ed apri uno spiraglio, piano piano.
Un groppo in gola ti assale improvviso.
Lui è tornato in silenzio stanotte. Si è steso sul pavimento per non svegliarle, tra peluches e bambole addormentate. Era tornato per prenderle, ma è rimasto. E' rimasto ascoltando l'incanto di un amore che è riuscito ancora a sentire, nascosto nelle pile di abiti smessi, sotto il cestone dei giochi, appeso alle foto delle vacanze insieme. Ha due occhi spaventati che sembrano ancora più grandi adesso, la camicia stropicciata e la barba lunga e una finta risata, mentre soccombe sotto le cuscinate dalle due piccole, che felici ridono come matte.
Le risate cessano di colpo. Ti hanno vista. Le bimbe hanno un'aria colpevole, attendono un rimprovero iroso, mentre i cuscini colpiscono per l'ultima volta il bersaglio.
In silenzio ti guardano ed in silenzio li guardi. Loro, felici tra loro, felici anche senza di te. Ma no, comunque, lo sai che non lo saranno mai completamente.
Lui non l'hai mai visto così pallido, smagrito. La rabbia di ieri l'ha lasciato più spaventato di te. Non puoi non sorridergli e nel sorriso limpido che ottieni di rimando tutto riprende a girare. Vorresti dirgli solo scusa se sono cambiata, scusa se non sono più il tuo arcobaleno scusa e mille volte scusa perchè ho rovinato tutto ma le lacrime che cominciano a uscire da sole, a mille, come i fiocchi di neve, te lo impediscono. In un attimo lui ti è addosso, che ti abbraccia e ti stringe e non fa altro che dirti scusamiscusamiscusami e le bambine che non hanno capito perchè ma han ripreso a fare le matte, menando cuscinate a destra e a manca.
Ti asciughi velocemente le lacrime con il dorso della mano e poi li guardi, con occhi nuovi.
"Bambine, ma cosa stiamo a fare in casa? Perchè non andiamo sotto a fare a palle di neve?

E sotto un' intensa nevicata domenicale li vedi, Francesca?
Ci sono quattro bambini che, a naso in su, ridendo come matti, fanno a gara a prendere con la lingua in fuori, quanti più fiocchi possibile.
Illuminati dai colori dell'arcobaleno.

giovedì 3 giugno 2010

Il saggio

Non strabuzzate gli occhi, tranquilli che non parlo certo di me, che saggio non sono, certo che.
Mi sto riferendo al quello di fine anno che la mia piccola, novella pattinatrice su ghiaccio, ha fatto sabato scorso, dopo un anno di sacrifici, allenamenti, prove a secco e su pista.  E' stato un leggero piacere assaporare la sua tensione inziale, seguire la sua concentrazione figura dopo figura ed il suo sorriso compiaciuto e liberatorio, alla fine, tra gli applausi che io, davvero, non ho sentito.
Perchè ascoltavo solo lo strusciare preciso delle sue lame sul ghiaccio, la sua attenzione ed il suo respiro trattenuto. Sentivo i suoi gesti ed i suoi occhi che brillavano alla fine, mentre mi cercava e mi faceva il segno col pollice alzato. 
E' cresciuta in fretta, sapete? Non ho potuto farci niente, non ha potuto farci niente neanche lei. Non avrei voluto, giuro, avrei voluto gustarmela di più allora, quando si addormentava sulla mia pancia, poco più grande della nostra gatta. Avrei voluto centellinare i minuti, imprimermela bene in mente, assorbire e memorizzare esattamente ogni istante del suo crescere fino a diventare quel donnino di dieci anni che è oggi, grande una spanna di più di tutte le sue compagne, ma che grida ancora di gioia se la porto sul Brucomela.
E così che va. Non è triste, o giusto o sbagliato. E' così. Ma mentre me la guardavo piroettare vedevo, come in un mosaico, mille immagini che comunque ho. Mille tatuaggi indelebili dentro la mente. Dal primo, quello unico ed irripetibile che è stato conoscerla, la prima volta che l'ho tenuta tra le mani, fino al suo ingresso in pista di poco fa, passando attraverso tanti momenti, tantissimi felici, qualcuno meno, pochissimi quelli veramente terribili.
Le prime pappe, le prime parole, le prime di tutta una serie di cose, naturali ed incredibili. E quanti baci e quanti abbracci penso sia impossibile contarli. Ed adesso è lì, con le sue rose e la sua brava medaglia, splendida e raggiante come poche altre volte.  Ti voglio bene, piccola mia.


E le giornate lavorative si frantumano e si disperdono nel tempo, qui, nello studio delle rose. Si susseguono a ritmo frenetico, forse addirittura eccessivo. Abbiamo acquisito molti lavori nuovi, alcuni immediatamente dietro l'angolo, ed altri decisamente più distanti, ma questi ultimi, per fortuna, con la prepotente attrattiva dell'aria di mare a blandirmi ed il poco tempo per gustarmela. E per uno di questi son ricapitato a Livorno, da cui mancavo da tempo e dove, trapiantato al mare riposa il mio zio preferito, quello che mi ha trasmesso l'amore per la montagna. La spilla in metallo del CAI che ho portato sempre con me in montagna è la sua.
E così ultimamente passo intere giornate a macinar chilometri. Ho in mente una vignetta di Forattini di tanti anni fa: rappresentava Papa Woijtila, appena sceso dalla scaletta di un aereo che, con le valige in mano e l'aria smarrita pronunciava: "Se oggi è giovedì, questo deve essere l'Honduras".
Ecco, più o meno è così che mi sento.
E ho anche ricevuto apprezzamenti, per quello che abbiamo tirato fuori dal cilindro in questi giorni: Il più divertente è stato: "ingegnere, lei ha fatto un lavoro splendido, ma non abbiamo i soldi per realizzarlo": ma si può?
Ho abbandonato la piscina, che alle sei di mattina, non c'è stato niente da fare, si sono rifiutati di aprirmela.
Quindi corse su corse, ma di corsa, quella vera, quella che fa respirare, ancora purtroppo non se ne parla. La scorsa settimana il mio luminare ha energicamente scosso la testa, nonostante tutti i progressi veri o inventati, le suppliche e le minacce. Mi ha detto di star buono, di pazientare - Ci vuol poco a rovinare quello che hai fatto fino ad ora - e di attendere ancora almeno un altro mese.
Fosse facile.
Fosse facile pazientare, sopportare. Saper accettare.
Fosse facile l'attesa.
Ricordo un'augurio letto tanti anni fa che recitava: "Che Allah ti doni la forza per cambiare le cose che puoi cambiare, il coraggio per sopportare le cose che non puoi cambiare e la saggezza per distinguere le une dalle altre cose".
Fosse facile.
Forza, coraggio e saggezza. Penso di, tra tutte e tre, non averne abbastanza da riempirne un bicchiere. Soprattutto l'ultima.
Non sono certo uno che sopporta, che accetta con facilità ciò che non è dato a noi di cambiare. Non posso farci niente, è così.
E' un periodo strano, di stanchezza latente e a volte opprimente, di umore altalenante, di cose che sembrano che si facciano da sole e di altre che proprio non c'è verso neanche di cominciarle. E ci sono i giorni che son più pesanti degli altri, come oggi. Con momenti fatti di pietra dura e grigia e pesante, mentre altri, troppo leggeri invece, sono già volati lontano.
E così me ne sto al palo. E non mi è nè d'aiuto nè di conforto la mia moto, scalciante e recalcitrante com'è ultimamente, reclamando un controllo che oramai proprio non si può più rimandare.
Sì, lo so che sono umorale. Periodicamente negativo. Me lo dico da solo. Ma so. So solo una cosa, ma basta e avanza.
E forse avrei invece solo bisogno di una vacanza, come commentava giustamente Bruno un paio di post fa.
Certo che, anche se forse basterebbe di meno.
Basterebbe il mare, ed un giorno di vento salmastro solamente mio, per svuotarmi e riempirmi di aria nuova.
O Basterebbe una parete, dura e ruvida, dove sfogare con la forza tutte le mie frustrazioni, per urlare con le braccia e le dita la rabbia dell'inutilità che a volte mi assale.
O magari basterebbe soltanto allacciarmi nuovamente le scarpette, fare due lunghi e profondi respiri ed immettermi in quel viale che mi ha guardato correre l'ultima volta più di tre mesi fa. Penso che già mi basterebbe immergermi nelle mie musiche ed isolarmi, sentire la fatica e sentirmi, affrontare ombre e problemi e vederli passo dopo passo scivolare alle mie spalle. Sì, mi basterebbe impostarmi nuovi programmi e limiti, nuovi orizzonti a cui guardare.
Il meglio è una cometa.
E tra mille anni, prima o poi, tanto ripassa.