martedì 27 ottobre 2009

Piazza Vittorio, un giorno


E' particolare, questa piazza. Scarna, troppo grande. Hanno approfittato che c'era un fiume e ce l'hanno messo dentro e finisce dall'altra parte, dietro la chiesa, per poter dire che è una tra le piazze più grandi d'Europa, e non vale, così è fin troppo facile. E' in discesa, ma pochi se ne accorgono, con le case che si interrompono in corrispondenza delle vie e riprendono subito dopo un poco più alte, così che, se non te lo diceva il tuo professore al Politecnico, tu mica te ne eri mai accorto. E' scarna e ingrigita, per alcuni versi, con tutti i fili e fili e fili intrecciati per i tram, che quando la vuoi inquadrare tutta con la macchina fotografica loro escono alla ribalta e ti sembra di vedere quasi solo quelli.
E' rimasto un pizzico di magia, nascosta negli angoli remoti e bui, quelli vicino alla farmacia dell'800, di quando ci portavano una volta a Carnevale, noi piccoli, io con il berretto da cowboy, il giubbotto con le frange, la stella e il cinturone con la pistola e i sei colpi gialli nelle striscie che li staccavi e li mettevi dentro, uno ad uno, con le dita che facevan fatica, che una volta tanti ma tantitantitanti anni fa il carnevale lo facevano lì, che da quando l'hanno spostato alla Pellerina tutta la magia e l'infanzia è rimasta dall'altra parte.
E' bella e brutta, moderna e antica, desolazione e sorpresa, un controsenso ed un incanto ad ogni passo, tutti diversi. E' indorata dal sole, oggi, con tutti i fiori sul ponte che colorano, con le rotaie che scintillano, con il fiume che è quasi oro, oggi, che fa caldo ma un caldo che ottobre sembra sparito di colpo, che quelli in macchina mi invidiano tutti, io che la mia città me l'attraverso in un baleno, perchè solo un attimo fa mica ero qua, ero là nel mio cantiere quello grande, quello da mille milioni, quello che la mia piccola quando ci passo davanti ha imparato a dire "questo lo fa il mio papà", ed io già mi vedo con la cazzuola in mano e la busta di foglio di giornale in testa, che, mattone su mattone tiro su muri, per non smentirla. No, ciccia, il tuo papà fa solo l'ingegnere. "Ma è meglio o peggio?" chiede spesso lei, pensosa. Ah, saperlo.
Ero là che oggi ho visto tutto, ed a un certo punto, visto che ci si perdeva in ciance, ho salutato tutti e via, perso nel zig zag tra macchine lente, me la son ritrovata vicino. Così, improvvisa e vicina che quasi non me l'aspettavo, il Transalp fa di testa sua, insegue quel che vuole alle volte. Ed invece eccola lì, uno squarcio improvviso. Ho parcheggiato in una viuzza vicino, l'ho atraversata, casco in mano e cellulare spento. Ho camminato sotto i portici, ritrovando angoli conosciuti, scorci dimenticati. Qui una volta c'era uno che... adesso non c'è più, e tutti questi bar ipermegasupertecnologici, che io quando progetto spesso penso così, ma quando cerco un posto come Dio comanda mi rifugio in quei posti, quelli diversi, qelli con gli specchi vecchi e le boiserie in legno, di quelli da rifugiarsi sulle poltroncine che scricchiolano sul vecchio palchetto in legno, con un irish coffee tra le mani che scalda, con la nebbia che lenta sale dal fiume, che lì dentro ci stai e parli fitto fitto e ridi, e i pasticcini che uno via l'altro e alla fine sei sazio e la cena potresti anche evitarla. E chissà c'è ancora quel posto, mi sa che non c'è più, perchè ormai ho fatto tutto il giro, sono quasi da dove son partito e qui praticamente di quei posti non ce n'è più neanche uno, vedo tavolini moderni ancora, fuori dai portici quindi ci sarà un altro di quei locali tutti acciaio e vetro acidato e invece no.
Me lo ritrovo lì, davanti a me, con le tartine per l'aperitivo già esposte, e l'interno scuro, quasi buio. Non riesco a resistere. Entro.
L'interno è così, come doveva essere, come mi aspettavo. Il vassoio dei dolci a sinistra, pieno di croissant di tutte le forme e colori, roba da acquolina in bocca, ma so che dovrei aver al massimo un paio di Euro in tasca e quindi non è il caso di lasciar il casco come pegno. Ordino un caffè, io che ultimamente mai neanche più uno, ma, improvvisamente ne avevo voglia. Bevo il caffè e nel frattempo guardo, osservo, i due bimbi con una brioche ciascuno che le tengono a due mani e ad ogni morso ci si immergono, i quadri, la cassa vecchia e un pò scrostata, di quelle ancora con i tasti a pressione che quando schiacci il totale esce il numero su in alto e si sente la campanella. E poi la saletta di fianco, piccola, una discreta finestra sulla piazza, di quelle dove star seduti in un angolo, a scrivere, scrivere e scrivere. E poi, va già che lo sai, che te lo dico a fare, ma ci ho pensato. Bello sarebbe.
Pago il mio 0.90 e scopro che di Euri ne possedevo addirittura tre, per cui ci stava anche un croissant, magari solo uno senza niente dentro così non ingrasso, ma senza niente che lo prendo a fare, è molto meglio niente del tutto. Appoggio le mani sul bancone, sulla parete della saletta, su un tavolino basso. Me ne approprio, respiro l'aria che sa di caffè macinato. Poi esco. Sarebbe stato veramente un peccato non ci fosse stato più. In fondo era così, fino ad oggi. Da oggi invece esiste, anche per me.
E ritrovo la mia moto, parcheggiata sbilenca, ironica, come per dire "hai visto? Ti sei voluto fare tutto il giro della piazza perchè non ti fidavi, vero? Ed io che invece ti ci avevo portato proprio giusto. Vatti a fidar degli uomini". 
Per fortuna che c'è lei.
D&R

Le parole magiche


Sono state tante, quelle di ieri, che rendono leggeri e sottili. E non posso, non voglio metterle in ordine di importanza, perchè ad ognuna di quelle che non metterei per prima farei un torto. Ci sono state quelle pubbliche e private, quelle serie e quelle meno, ma tutte ieri, han contribuito a farmi dormire di meno, stanotte, pensando e ripensando, con un accennato sorriso che proprio non voleva lasciarmi. Se ne è accorta anche mia figlia, con il naso rosso, gli occhi acquosi e tutte quelle b al posto delle p e delle m nella voce arrochita dall'influenza, quella dei tre giorni, non l'altra. Me la sono coccolata a lungo, ieri, sdraiati sul divano mentre ripetevamo storia. E anche se, imbrogliando me stesso, non mi sono adeguato al cambio di ora, con il risultato che sono in studio prima delle sette, non è che mi senta rinco@@nito più del solito, anzi. E allora non posso non usare che l'ordine temporale.
Le parole scambiate in studio con il gruppo, un bel gruppo. Qualche testa matta, qualcuno che ogni tanto ha bisogno di un buffetto sul mento, qualcuno qualche cosa di più. Ieri abbiamo finito una parte delle pesanti consegne che abbiamo, questa settimana c'è ancora molto da fare, ma un poco di meno rispetto al bailamme passato: dovremo riuscire a metterci un pò più di testa al posto di tutta 'sta dannata fretta. C'è stato un piccolo ammutinamento del Bounty, ed io, che dovrei far parte dell'ammiragliato, ritto sul ponte di comando, me ne stavo in disparte, tra cime e vele ripiegate, silenziosamente schierato con la truppa. Ma tant'è, il comandante da appendere al pennone più alto era riuscito a trovare una botola anche in questa sgangherata nave e si era, come suo solito, dileguato.
Le parole con Slaymer, inaspettate, come il suo regalo, di cui ho già parlato nel post precedente. C'è chi pensa a me, e questo scalda il cuore.
Le parole in auto con Renè, tutti e due dallo stesso medico, tutti e due che non possiamo correre, tutti e due che in autostrata ai 200 all'ora perchè è sempre maledettamente in ritardo, anche se piano non riesco comunque ad andar mai, abbiamo sempre lo stesso sguardo calamitato sul Bianco, dove siamo stati insieme e sul Rosa, dove abbiamo deciso che andremo. E so che lo faremo, questo è certo.
Le parole del medico ieri: "hai fatto un buon lavoro. Terapia, stretching, ghiaccio, e tutto quel che riesci a fare ancora per una settimana e poi, dall'otto in poi, puoi riprendere. Poco però, tre volte alla settimana massimo venti minuti a volta, ma al momento l'intervento lo rimandiamo". Penso che se avessi ricevuto un invito a cena da Valeria Solarino in persona, attrice che adoro, non sarei stato così contento.... Ho detto una str@@ata? Si, lo ammetto ho esagerato. Ma ieri anche il medico non riusciva a non sorridere, vedendo la mia espressione, io che ormai mi ero già praticamente convinto e che avevo pensato che mentre ero placidamente disteso a farmi tagliuzzare le caviglie, qualcun altro poteva infilarmi 'sto benedetto tubo in gomma e farmi la gastroscopia.. Gastroche? Una parola che mi dice poco... non so, non ricordo, non mi pare, vabbè adesso vediamo.
Le parole al ritorno, tante, confuse, rilassate, a scherzar di niente, a programmare cose, a parlare e ridere di quanto abbiamo reciprocamente fatto dannare le nostre rispettive ex fidanzate, che sopportavano stoicamente le nostre montagne, le nostre corse e nostre mattane (il Palio è il Palio e non si discute!). Lui riprenderà una settimana prima, così per l'otto avrà una settimana di strade in più di me nelle gambe, ma la mia prima nuova corsa non sarò al mio Parco da solo, ma con lui, a dosare il fiato ed a correre, ancora una volta e di nuovo insieme. E le altre corse, e ci saranno, saranno tutte da inventare. Abbiamo messo giù un paio di programmi, e tra questi, una maratona che lui ha già fatto con tempi da brivido circa una decina di volte. Ce n'è una bellissima ad aprile, ma penso di non riuscire ad arrivare a prepararla. In alternativa c'è Firenze a Novembre 2010 o New York a gennaio 2011, sarebbe un sogno. Io non ne ho corse mai, ma è una sfida nuova, ed oggi, l'ha scritto Slaymer, è bello inseguire i propri sogni. E adesso so che lo potrò fare di nuovo correndo. 
E poi ci sono state quelle mie, solo mie, vergate su carte profumate, che toccano dentro e lasciano un segno sul vetro della mia Transalp appannato dal fiato. Non so che cosa è questa qui, ma è bella e mia, e a voi tanto vi basti.
E grazie, a tutti e proprio tutti.

lunedì 26 ottobre 2009

Con amici così...


Che passano apposta in studio per regalarti un libro del genere... prima della visita....
Grazie Slaymer, grazie di cuore. Per questo pensiero e per gli altri, per tutte le chiacchierate e per altre mille cose che non sto qui a spiegare, che agli altri non gliene può fregar de meno. Per i tanti inviti a pranzo al lago, per le kebabbate e le poche sciate insieme, per esser stato il tuo primo cliente, e varie ed eventuali.
Spero proprio sia di buon auspicio.
Altrimenti stai certo che sarà la mia lettura, durante la convalescenza!
Come premio puoi usare tutte le k che puoi... ma solo per i prossimi tre post.
D&R

domenica 25 ottobre 2009

"Hai cambiato il post?"

Ho solo levato le rose, quelle adesso sono in letargo, ed ho pensato allora di mettere le mie penne, una scusa per tirare di nuovo fuori quelle che non uso da tempo, così me le rivedo e le riuso, che chiuse nella vetrina poi si rovinano.

"Però volevi cambiarlo, vero?"

Sì, volevo, avevo anche visto dei template belli by Pannasmontata, ed appena ho deciso di sceglierne uno, è sparito il sito... Adesso ne ho visti altri, vorrei usarne uno a tre colonne, con lo spazio più largo di adesso, che mi ricorda un rotolo di carta igienica.

"Ma questo è il terzo post che metti su oggi, come mai?"

Sai, è che l'altro ieri ho avuto parecchio tempo per pensare, e anche se qualcuno dice che a me pensare non fa bene, mi sono venute un pò di idee in testa e se non la svuoto in fretta quella scoppia..

"Ma oggi non sei in studio per lavorare"

... Si, cioè, lo sto facendo, mi son fermato solo un attimo, come una sigaretta, adesso riprendo, e non mi stare troppo addosso che mi levi il fiato e mi ricordi qualcuno..

"Ok, ok, scusa, è che so che lunedì hai un'altra consegna"

Ed è per quello che son qui, e poi sai come son fatto, io quando ho troppo tempo a disposizione mi distraggo, e do il meglio di me quando manca solo qualche minuto, facevo così anche agli esami.

"E allora lavora, che diamine!"

Va bene, adesso riprendo, è che mi son fermato a riflettere che lunedì è già arrivato, vado dal medico

"Hai finalmente deciso di fare la gastroscopia?"

No, per quello c'è tempo, e poi adesso sto bene, hai visto che ieri sera ho mangiato quasi come un cristiano e non mi è successo niente? No, mi stavo riferendo che vado per il tendine...

"Ma son già passati venti giorni? Come vola il tempo quando ci si diverte.."

Bravo te, intanto sono stato io quello che si è spupazzato tutte quelle sedute di terapia e lo stretching ed il ghiaccio...

"E già, perchè io dove credi che fossi? e poi chi è che ha pagato?"

Ok, non ti scaldare, dicevo così per dire, comunque spero che sia servito, poi vedremo cosà dirà.. Se dice che vado bene io giorno dopo vado al Parco Ruffini e ci faccio un solco da quanta voglia ho di riprendere.

"E se dicesse invece che sei da operare?"

Beh, visto che sono abbastanza in forma forse la cosa migliore sarebbe farla subito.. Hai sentito la dottoressa l'altro ieri che mi ha detto che gli esami sono a posto..

"Cioè, spiegami: tu saresti pronto a farti operare ai tendini e non vai neanche a farti fare una banalissima gastroscopia? Ti ricordi che gli esami te li han fatti perchè eri finito al Pronto Soccorso? Ma lo sai che sei strano?"

Senti chi parla, perchè invece tu, uno che parla con se stesso ti sembri normale? Ma va là! Va bè, adesso lasciami riprendere a lavorare, che se no oggi faccio anche la notte.

Vai, và. Vai ad inventare altre storie, che ad alzare il PIL della nazione posso farcela benissimo da solo. E poi mi sa che tra poco arriverà il mio socio a tenermi compagnia..

"Che palle, quello! Ma neanche di domenica ti lascia tranquillo?"

No, ma che dici, è il suo modo per sostenermi, così poi mi distraggo di meno con te e lavoro meglio...

"Ah, e così adesso lui sarebbe meglio di me?"

Cos'è, adesso cominci anche con le scenate di gelosia? Guarda che per quelle c'è già mia moglie che basta e avanza! Adesso basta, che devo buttarmi sul computo metrico. e tu non pensare troppo che se no mi tocca rimettere mano con un nuovo post. Alla prossima.

"Fai il bravo"

Codice Rosso


Non so se a voi è mai capitato, ma a me mai. Anche quella volta dell'incidente in moto, dopo cinque minuti, inca@@ato come una iena, avevo detto a quelli dell'ambulanza di spegnere subito la sirena.
Venerdì però è stato diverso. L'espressione delle infermiere, lì all'accettazione del pronto soccorso, era del tipo "questo ce lo perdiamo per strada". E la cosa, al di là del male che mi squartava in due, mi dava oltremodo fastidio. Ma andiamo con ordine.
Venerdì mattina alle 7.30 sono in studio. Blogger non funziona. Il blog sembra sparito, dietro ad un messaggio ambiguo del tipo "errore bx-9d2teg" che stamattina non mi fa entrare. Per un attimo penso a tutti i post, i commenti, le idee, spariti nel nulla senza aver mai pensato ad una copia. Il nervosismo cresce. Ho un vago malessere, che gira dentro, ma che non riesco ad identificare. Oltretutto devo lavorare un sacco. Ci sono consegne su consegne, e so che se non metterò mano al mio blog prima dell'arrivo degli altri, non avrò più tempo. Rinuncio al blog e incomincio a lavorare.
Arriva il mio socio, andiamo al bar per la consueta colazione e poi fugge verso uno dei suoi mille cantieri. Mi rimetto al lavoro, ma qualcosa incomincia a non funzionare.
Un male al petto che pian piano diventa un opprimente dolore, che mi arriva da dentro e diventa più grande, ad ondate, ancora e ancora. Insopportabile da levare il fiato. Mi spezza tanto che non riesco a stare dritto.
Ho già avuto, in passato, di questi problemi. Le prime volte mi han spaventato, poi pian piano ho imparato a sopportarli, le rare volte che capitano. Di solito succede di notte. Magari mangio male, tardi o tutte e due le cose ed è, forse, gastrite. "Per saperlo una bella gastroscopia e si capisce tutto!", mi aveva detto sorridendo un medico, e già me l'immaginavo addosso, con quell'affare che mi entrava in gola... Non sto poi così male, mi son sempre detto. Anche perchè quando passa, a parte le tre o quattro ore in bianco che ti riducono uno straccio e gli addominali che ti fan male come se fossi stato preso a cazzotti, stai di colpo, incredibilmente bene... E il dolore, si sa, si fa in fretta a dimenticarlo.
Ma ieri era diverso. Niente cene pantagrueliche, nessun orario sballato. Il giorno prima ero uscito prima dallo studio per un'oretta in piscina con mia figlia e poi a casa. E poi era il giorno dopo. Non riesco a lavorare e poi stanno arrivando gli altri. Mi rifuglio in sala riunioni ed aspetto che passi, devo solo aspettare. Di notte funziona così.
E invece non funziona. Non passa. Sembra, a volte, che si riduca, e poi, subdolo, ricompare, ancora più forte. Non riesco a nascondermi, gli altri capiscono che sto male, e dalle loro espressioni li vedo preoccupati. Si offrono di accompagnarmi al pronto soccorso, ma non voglio. Deve passare, il maledetto. E invece no. Di là pensano di prendermi in quattro, e anhe se sono un capo, darmi rispettosamente una botta in testa e portarmici svenuto.
Alle 11, vinto e sfinito capitolo e mi ci faccio portare. Alle 11.12 entro camminando, piegato come... il Gobbo di Notre Dame (e lì che è venuta l'idea... vedrete più avanti) al Pronto Soccorso.
L'espressione del personale sanitario, vedendomi, era da film. Ci mancava solo il gruppo di E.R. con le mascherine ed i camici azzurri e le siringhe che spruzzano verso l'alto, che mi prendevano al volo e mi mettevano su una barella ed eravamo al completo. Non un attimo di attesa, immediati, precisi e veloci, mentre la prima diagnosi che si sussurravano a vicenda era "cuore".
"Ma che cuore e cuore, deficienti!!" avrei voluto dire, ma il male mi impedisce anche di incacchiarmi. Riesco solo a sussurrare che non è il cuore, che quello, vivaddio è a posto. E' gastrite, state tranquilli, ma non li convinco. Solo dopo avermi misurato battiti e pressione da tutte e due le braccia, finalmente si rilassano. Mi portano comunque in visita su una barella, mi slacciano le mie scarpe da running e mi levano maglia e camicia. Incominciano a farmi un sacco di domande e nel frattempo mi prelevano il sangue, mi attaccano un sacco di aggeggi blu appiccicosi su tutto il corpo. Sono in cinque, tre infermieri e due dottoresse, a darsi da fare intorno a me. Il male è al massimo, non riesco neanche a vederli, ho il respiro affrettato. La dottoressa mi chiede in una scala da uno a dieci quale è il livello di dolore che percepisco e le rispondo "dodici". Poi si informa sulle mie abitudini, su quanto peso e se ho subito cali di peso. Mi soffermo a fare due conti, e scopro che in due anni ho perso circa 25 chili. Non ci avevo pensato e mi sorprendo io stesso. Spiego che corro e mi fa sorridere il commento dei due infermieri maschi, che guardandomi mi dicono che si vede che fa bene a correre, e che dovrebbero cominciare anche loro. Poi mi chiedono se avevo già avuto episodi del genere e come mi ero curato. Nel momento in cui spiego che di solito uso una tisana di alloro la notte e al momento sto prendendo il miele di Manuka, tutti e due dal gusto decisamente schifoso, mi sembra di essere catapultato sul palcoscenico di Zelig. Incominciano a ridere come matti. Poi chiedo se hanno già cominciato a darmi qualcosa. "Non ancora", rispondono, ma io sento che il male, serpeggiando silenziosamente, se ne sta andando. Mi fanno una flebo e poi in radiologia, per una bella RX al torace.
E lì l'attesa, lunga, troppo. Con i due miei che mi han portato che non hanno più lo sguardo preoccupato di prima. E andate via, che abbiamo un sacco di lavoro in studio, e se non finiamo dovremo lavorare anche la domenica. Si convincono e se ne vanno. Il dolore ormai mi ha definivamente abbandonato, sto bene.  Ma quello che consegna le radiografie intanto porta fuori quelle di tutti e la mia no. E allora pensi. Pensi che son due anni che ti dicono di far qualcosa, ma che tu aspetti sempre all'ultimo, perchè tanto ti senti invincibile, ma quando è tardi è tardi. Pensi a Syssa ed al suo ciccio pasticcio, come lo ha chiamato lei nel suo blog. Pensi a quanto sei stupido, che gastroscopie ne fanno a migliaia tutti i giorni e che stai pendendo un sacco di soldi per curarti il tendine ed è da irresponsabili non far niente per quello che è importante veramente. Che hai una figlia, ed hai delle responsabilità, che non puoi continuare a far finta di niente sulle cose che non vuoi affrontare.
L'uomo delle radiografie esce e mi porge una busta arancione. Dentro, il referto: "non si evidenziano segni di...." il resto non lo leggo, tiro un fiato. Anche per questa volta, camminando sul filo, sono rimasto in equilibrio.
Mi riportano indietro e mi parcheggiano in una sala d'attesa. Oltre a me, quasi tutti gli altri sono molto anziani, un lumicino di vita e di forze steso su quei quattro lettini. Ognuno riceve un briciolo di umanità e di dolcezza da quei quattro infermieri, che fanno un mestiere che io mai avrei il coraggio di fare.
L'attesa è lunga e io elaboro, penso rimugino e attendo. Poi mi chiamano e mi dicono di rivestirmi, che posso andar via. In un attimo le mie scarpe sono di nuovo al loro posto.
La dottoressa però ha l'aria preoccupata e mi dice che non vuole farmi la paternale, ma che è indispensabile che faccia quell'esame, che questa volta è passata ma che non è normale e che la prossima volta potrebbe essere molto peggio. Sorrido, la rassicuro e prometto, farò il bravo, giurin giuretto. Non mi sembra convinta, e forse neanch'io. Vedremo. Ma adesso è importante uscire di qui, respirare di nuovo l'aria che non sa più di disinfettante e camminare. Contare solo sulle mie gambe e le mie scarpe da running. E con quelle, con la busta arancione in mano, mi allontano. mando un SMS a chi mi doveva venire a prendere, Grazie ma ho voglia di camminare da solo per un pò, di metabolizzare. E a piedi, con un sole quasi primaverile che mi scalda attraverso Torino, tranquillo, dando il tempo al tempo e elaborando nuove storie da scrivere, una nel tempo da solo in sala d'attesa di è concretizzata è già bell'e pronta, una piccola sorpresa per chi se lo merita, e aspetta solo che la metta giù. Tanto, adesso, so che ho tempo.

mercoledì 21 ottobre 2009

I'm rocket man


E che diamine
Tutto in fretta. E il telefono che dopo quasi un anno che gli potevi veder crescere le ragnatele sopra adesso ha ripreso a squillare a tradimento.
E ingegnere di qui e ingegnere di là. E sì che le preparo la relazione, e no che non ho ancora telefonato al cliente, e la verifica la sto eaborando, ma il software.. E poi la consegna del primo dei quattro lavori che ci sono capitati addosso tutti insieme e che dobbiamo mandar via uno dietro l'altro, come se non ci fossero problemi, interferenze e casini. E nel frattempo ci si è anche rotto un pezzo del plotter e quello costa anche solo se ti guarda di traverso. Poi per fortuna è costato meno del temuto ma intanto almeno un paio di biglietti da cento molto abbondanti sono passati velocemente di mano. E quella canzone che ti è venuta in mente stamattina e, chissà perchè, non ti ha più abbandonato, accompagnata da un tranquillo sorriso, ma questa è un'altra storia. Ed in mezzo laserterapia il martedì ed il giovedì, e tecarterapia il lunedì, mercoledì e venerdì, tutti all'ora di pranzo, che tanto di mangiare posso farne a meno, ma ci arrivo sempre all'ultimo, con la gomma posteriore della moto che si intraversa in curva per fare più in fretta. E poi là, comunque, in quella mezz'ora che sei lungo e disteso e ti puoi rilassare, quello ti fa un male cane. Per non parlare del male al portafogli, ma in questo momento sto facendo di tutto per allontanare lo spettro dell'intervento, manca meno di una settimana e i miei venti giorni sono già volati, lunedì poi vedremo.
E poi rivestiti, saluta, metti il casco e via di corsa, perchè c'è la riunione in cantiere e devi sapere di cosa parlare e poi ci si deve organizzare per quello che c'è da fare, perchè siamo in diversi a lavorare sullo stesso progetto e bisogna che ci si parli di continuo, che se no dove ci metto una lampada io l'altro ci mette un condizionatore ed il terzo ci tira su un bel muro.
E la mattina presto la cerchi come sorsi d'acqua fresca per avere quel tuo attimo di silenzio, tutto tuo, come adesso, con Giorgia che ti appoggia una leggera coperta addosso con la sua sublime, immancabile "per fare a meno di te" di ogni inizio giornata e ti rende più dolce il nuovo incominciare. Devi leggere i tuoi blog amici, assaporare i nuovi post, sempre più belli, una tazza di caffè caldo tenuta con due mani a vederne uscire il fumo. E poi scrivi qualcosa di fretta se puoi, prima che arrivi il tuo socio, quello che da quando sa che vieni presto la mattina viene presto anche lui a tenerti compagnia ed a lamentarsi un sacco e a far colazione insieme, una volta pago io ed una lui, anche se io prendo cappuccino e croissant e lui solo il caffè, ma non ci importa. E' lo stare lì a parlar di niente, per iniziare insieme. Siamo insieme da un tempo che è una vita stessa, le litigate si sprecano, io prendo fuoco in fretta, lui più calmo e riflessivo. Ci completiamo, anche se ogni tanto abbiamo bisogno di dirci a voce un pò troppo alta cosa pensiamo l'uno dell'altro. E la mia voglia di stare spento, o meglio acceso solo lì, due dita sopra il cuore, a contare i battiti, uno ad uno lentamente, ad assaporare ogni stilla di rugiada che copre ancora la moto, a veder le mie rose, che ormai si stanno preparando al lungo letargo invernale, e ne ho piantate due nuove che saranno bellissime, con due nomi altisonanti, Mister Lincoln e Sterling Silver, la mia voglia dicevo, con lui subisce un rapido arresto. Ma forse lo sa che voglio star solo, e forse lo fa apposta, perchè non sia solo, se può evitarmelo. E' fatto così. E poi c'è l'altro invece, il terzo socio, quello che  quando può sgattaiola attraverso la sua botola e non sappiamo dove, quello che prima delle 8.30 ma spesso anche dopo non accende mai il cellulare perchè l'ingegnere non è come il medico che puoi chiamarlo anche alle due di notte se hai male, l'ingegnere lo devi chiamare solo quando ne hai bisogno e ti risponde quando può... così immancabilmente chiamano me, il fesso che il cellulare ce l'ha acceso anche di notte, ma basta parlare di lui. 
E quindi alla fine parti ancora più presto la mattina, e magari ancora di più perchè poi la sera siamo a cena da tizio o da caio, e non so perchè ci deve invitare gente che quasi neanche conosco e che saluto apposta dandogli del lei per fargli capire che non è che li sopporto tanto e che già, lo sappiamo tutti che sei un orso e tanto tu non sopporti mai nessuno tranne quelli che lavorano in quel cazzo di studio e quelli sono sempre più importanti di noi, anche se poi appena trovano un posto dove guadagnano di più non ci mettono nè uno nè due ad andar via, e ieri eravamo alla festa di compleanno di quel bimbo pestifero che ha solo quattro anni ma appena mi vede mi alza il dito medio in segno di saluto ed io devo inseguirlo mentre urla come un derviscio tra i parenti che ci guardano, prenderlo per i piedi, girarlo al contrario e fargli il solletico sulla pancia fino a che non ce la fa più dal ridere, solo che dopo che lo metti giù di bambini addosso che vogliono vedere la luna ne hai quindici e devo giocare con tutti, fino allo sfinimento, con lo stesso sguardo di disapprovazione di mia moglie con il fumetto che dice che dovevo essere lì alle 7 e mezza ed intanto sono già di nuovo le otto. Tu e quel cazzo di studio, come al solito.
Ieri guardavo il pacco pronto del progetto. Tutto di colpo finito, terminato, le cose dette in fretta, il plotter che non stampa più in continuazione che appena ha finito il disegno qualcuno lo prende poi lo si taglia ed altri ancora lo piegano, mentre un altro fotocopia e poi si rilega, tutto di colpo finito. Il silenzio, innaturale, e la gente che si guarda intorno con l'espressione di "e adesso?".
Coraggio, che domani mattina ripartirà tutto da capo.
Adesso pausa a guardare quel pacco solo, appena terminato, impilato in bell'ordine, con tutti i timbri e le firme a posto e la lettera di trasmissione ed il CD con i file, che sul testalino ci ho messo la foto dell'edificio che ci si vede il mio socio e lui quando l'ha visto ha sorriso ed ha capito che l'ho fatto apposta, perchè anche se ogni tanto è un discreto rompicoglioni, se lo merita. Grazie socio. E l'altro quando che l'ha visto ha chiesto perchè nella foto lui non c'era.
Ai bambini buoni la dolce Euchessina.
Agli altri, che spingano.

sabato 17 ottobre 2009

L'equilibrista


E' dura. E' quello che doveva essere. E' quello che volevo, forse, ora non lo capisco più. Sopra la corda, tesa allo spasmo ma che, una volta che ci sei sopra e ti ci affidi, ondeggia e ti lascia da solo, separato dal mondo che non vuoi e che non ti vuole.
E'debole. La tua forza, il tuo coraggio e la determinazione. Ma sei lassù, e, dal basso, non capiscono. Loro non sanno. Hanno pagato il biglietto, loro. Vogliono lo spettacolo. Daglielo, in un modo o nell'altro.
Stanno a naso in su e, silenziosi, guardano, osservano, scrutano. Segretamente speranzosi che un'incertezza, un'esitazione ti faccia almeno vacillare. Non dargliela vinta, mai. Osa.
Le tue mani. Sono tutto e non stringono che niente, tranne la consunta consapevolezza di te, a farti da bilanciere. Altro non hai. Basterano.
La politica dei piccoli passi. Il primo, quello che ti allontana dalla solidità concreta della partenza, dalle certezze, dalle sicurezze a cui spesso ti aggrappi, ecco quello è il più duro. Ma devi andare. Devi dimostrare che puoi, che sai, che vali. E vai. Metti il primo piede esitando, senti sotto di te la cruda durezza della fune e che non c'è niente attorno. Sei solo.
Altre volte hai provato e sei caduto, ma avevi mani forti pronte a sorreggerti. Quante voci ti dicevano "puoi farcela". Questa è l'ora, non puoi più tirarti indietro.

E così vai avanti, saltimbanco fragile e solo. In equilibrio tra il nulla. Più vicino alle nuvole, ma ancora troppo alla terra. In silenzio, ti appoggi all'aria che si fa silenzio ed attesa, intorno a te. Sei tutto il malandato circo che ti circonda. Sei i tristi pagliacci con la lacrima dipinta, sei quel tendone rattoppato. Sei quei mille lustrini che dietro nascondono dolore, miseria e disperazione. Sei quel vecchio leone, da troppo tempo chiuso inerte in gabbia ma che ha ancora negli occhi il colore caldo della savana. E puoi ancora far male, se devi mordere.
E quasi immobile la percorri, quella fune che all'inizio sembrava infinita, ma basta il tempo di un fiato e sei già a metà, avvolto nel cono di luce che lascia tutto e tutti in ombra, anche se sai che ci sono, e che ti vedono, sicuro e concentrato, attento ed invincibile. Tu solo sai che non è così.
Sono vulnerabile, visto da qui. Ma voi, là sotto, non ve ne accorgerete.
Mai.
[Thank's to Fragole Infinite]

giovedì 15 ottobre 2009

Senza parole....



Troppo carina!!!!!!

Sei ancora capace di seguire il tuo istinto?


Oggi, in studio, una busta elegante, grigia metallizzata e abbastanza consistente, da parte di Jaguar Italia e indirizzata a me. A me????? Ehi, Jaguar, ma hai visto bene a chi l'hai mandata? A me non arriva neanche più la pubblicità della Dacia Logan su carta riciclata!!
Hai percaso dato un'occhiata al mio conto in banca che rispecchia pari pari le temperature dell'Usbekistan di metà gennaio? O per caso mi hai visto in giro in moto a tre gradi sopra lo zero e ti ho impietosito? O con la mia auto, che ultimamente dimostra anche più dei 280.000 Km che porta ed hai deciso di fare un'azione umanitaria e sponsorizzarmi? Guarda che con me sprechi carta tempo e francobollo!!!
Sul retro la foto di una donna sensualmente bella con una benda sugli occhi e le labbra voluttuosamente socchiuse. E quella frase che mi fa pensare: "dammi quella lì che un'ideina sul mio istinto la trovo subito. Arruginita, ma in fondo, ancora, ci dovrebbe essere". Incuriosito, la apro.

Dentro una lettera di presentazione, dove mi dicono di chiudere gli occhi ed un depliant della nuova XF 3.0V6 da 240 CV. Bella è bella, ma se invece di farli chiudere a me gli occhi, li chiudete voi anche solo per un attimo dopo avermici fatto sedere dentro con le chiavi nel cruscotto, vi faccio vedere un gioco di prestigio che neanche David Copperfield dei tempi migliori!!
Ma il meglio deve ancora venire: sotto il depliant una benda in raso nero, con il logo Jaguar stampato.
Una benda???
Mi fermo, ancora con la benda tra le dita e mi vien da pensare:
"Ehi, Jaguar, MA PORCA P........!!!! Ma dovendo scegliere, tra le due cose della foto proprio la benda mi ci devi mettere??? Guarda che se invece inserivi la signorina (bastava anche solo il numero di telefono), la benda da qualche parte ce la facevo a rimediarla!!!

mercoledì 14 ottobre 2009

Oggi voglio stare spento.




Alba incredibile stamattina. Lucida e silente. Con quell'ultima, unica stella di scheggia di cristallo che sembra sia stata puntata lì, di fronte, apposta per me. Che freddo che c'era alle 6.30, 4 gradi secchi che senti come punture di spilli nelle pieghe delle mani, che il fiato ti si condensa subito in rapide volute e poi si dissolve, mentre il cielo si tinge di una quantità di colori persino eccessiva, per me che sono inguaribilmente daltonico.
Ad est il chiarore comincia dalla linea scura e frastagliata degli alberi, mentre le montagne laggiù giacciono ancora sotto la coltre di piombo della notte. Si distingue chiaramente la sagoma scura della collina, ancora punteggiata di molte luci tremolanti. Una fetta di luna, in alto, osserva silenziosa la scena, sopra le strisciate infuocate delle poche nubi.
In giro nessuno, il silenzio è palpabile, limpido e freddo; solo dalla statale, in lontananza, proviene il rombo cupo ed incessante dei camion. Annuso l'aria, non sa ancora di neve. Non è ancora il tempo.
Dal caldo confortante dell'auto chiusa di fianco a me provengono le note di Vasco Rossi in San Siro Live, e le parole di "Vivere" capitano lì quasi apposta, sembrano un consiglio. Apro la portiera, alzo il volume e resto silenzioso ad ascoltare.
Vivere e sperare di star meglio
vivere e non essere mai contento
vivere come stare sempre al vento
vivere, come ridere
vivere anche se sei morto dentro
vivere e devi essere sempre contento
vivere è come un comandamento
vivere.. o sopravvivere, senza perdersi d'animo mai e combattere e lottare contro tutto contro
vivere e restare sempre al vento a vivere e sorridere dei guai
proprio come non hai fatto mai e pensare che domani sarà sempre meglio
oggi non ho tempo, oggi voglio stare spento.
Il chiarore è alto, Rischio di trovare troppo traffico. Risalgo, metto in moto e riparto.
Buona giornata.

sabato 10 ottobre 2009

Appeso con due dita alla vita - Prima della cena

La serata si presentava perfetta. Pareva che anche le nuvole si fossero messe d'accordo, sgombrando il campo e lasciando il posto ad un tramonto dove ogni stella sembrava fosse stata messa lì apposta e puntata con uno spillo ad una volta incredibilmente blu che sfumava verso un rosa carico al di là delle cime dei Re Magi. L'afa inusuale del pomeriggio aveva abbandonato definitivamente la valle ma ogni pietra ed ogni muro pulsavano ancora del calore che avevnoa ricevuto e che adesso, lentamente restituivano.

Paco aveva passato un tempo infinito, avvolto nel vapore caldo della doccia, rilassandosi immobile, con gli occhi chiusi e l'acqua che, dai capelli scendeva giù lungo il corpo, lavandogli le ferite, quelle fuori ed anche quelle vecchie che, dentro, ultimamente sembravano bruciare meno. Ne era uscito solo dopo che Renato aveva minacciato di staccargli l'acqua calda, con tanto di ripetute manate sulla porta del bagno, accompagnate da una canzone inventata sul momento e urlata a squarciagola che verteva sul perchè aveva così tanta urgenza. Malvolentieri, alla fine aveva ruotato il rubinetto. Si era messo ancora gocciolante davati allo specchio appannato e, con un dito aveva disegnato i propri lineamenti, rivelando il proprio riflesso ed esaminandosi man mano che si riscopriva piano piano. La persona che gli stava di fronte non sorrideva. Era in forma, anche se, forse, sembrava un pò troppo magra. Aveva la barba ispida e capelli spioventi, pallide occhiaie, qualche taglio arrossato e lividi un pò dappertutto. E lo fissava in silenzio, con uno sguardo spento, stanco. Non si riconosceva, non pensava di essere veramente così. Lentamente, si mise a ruotare il penello nel sapone da barba e, sempre fissandosi, incominciò a radersi.
Dopo la barba e dopo aver dato una parvenza di ordine ai suoi capelli perennemente arruffati, dopo essersi asciugato, pulito per bene ed anche profumato, quello che lo fissava dall'altra parte dello specchio aveva un'aria quasi decente, anche se di provare a sorridere neanche a parlarne. Uscì dal bagno, quasi investito dall'impellente urgenza di Renato, che aveva minacciato di fargliela sul letto. Tutto quello che l'amico aveva ingerito nel pomeriggio, adesso reclamava improvvisa vendetta.
Si vestì, piano, cercando di non alzare troppo il braccio per non sentire il male in agguato tra le costole. Indossò semplicemente un vecchio paio di Levi's puliti che poi erano i suoi preferiti con sopra la maglia nera che aveva appena ricevuto in regalo. Poi, in attesa che si prepararasse anche l'amico, si rifugiò in un libro di Cussler che da parecchio non riusciva a finire.

Patti era già pronta, con un'ora abbondante di anticipo. Aveva prenotando il tavolo e discusso sul menu e sui vini il giorno prima, immediatamente dopo la telefonata con Paco, ed aveva preteso quasi l'impossibile, assecondata dalla compunta gentilezza del personale dell'albergo che la conoscevano bene. Quando organizzava le cose lei tutto, senza esclusioni, doveva funzionare alla perfezione, come un ingranaggio ben oliato. Poi aveva indottrinando pesantemente anche il fratello, perchè si dimostrasse gentile ed affabile, mentre quello ancora schiumava di rancore. Infine aveva preso il SUV e si era allontanata da sola.

Anche la signora Lucia si stava preparando per l'evento sorridendo civettuola mentre si faceva aiutare da Sveva con il trucco. Il pomeriggio del giorno prima, mentre predevano il tè in giardino, aveva captato, origliando apertamente e senza vergogna, quello che era capitato al giovane Isnardi (gioiendo nel suo intimo perchè quel bestione maleducato mai le dedicava un'attenzione o una cortesia) e quello che la bella sorella aveva successivamente organizzato. Curiosa come un furetto, aveva subito chiesto a Sveva di riservare per la sera dopo dopo il tavolo a fianco della compagnia.
Sveva era in attesa, fresca ed elegante, proprio come voleva la signora, pronta a porgerle la sua borsa. Si sistemò velocemente una ciocca di capelli con una mano, concedendosi un ultimo controllo allo specchio davanti alla porta. L'immagine che quello gli restituì era ben diversa da quella di pochi anni prima. Adesso finalmente si sentiva bella, molto più sicura di se ed in qualche modo addirittura sfrontata. Il mondo aveva smesso di incuterle paura, almeno per il momento.
Guardò la vecchia signora e le sorrise, di un sorriso che valeva molto di più di quel che sembrava. E ricordò. D'altronde lo faceva sempre.

La signora Lucia era la terza anziana per cui lavorava, da quando era in Italia.
La prima era stata Nonna Ida, nella calda e chiassosa Roma, appena arrivata, quando ancora aveva paura ad uscire fuori casa e non capiva un accidente di quella lingua colorata da tutte le sfumature di quel dialetto, tanto che alla fine quello che sentiva le appariva assurdo ed incomprensibile. Nei capelli bianchi, nella magrezza consunta ed in quelle mani rugose dalle dita ossute rivedeva la sua di nonna, e aveva finito in fretta con l'attaccarsi a lei ed ai suoi nipotini con un affetto quasi morboso da bimbina spaventata, che la confortava e la faceva sentire protetta. Sentiva di appartenere nuovamente ad una famiglia ed era tutto quello che le serviva per non affogare nelle sue lacrime che non avevano ancora smesso di scendere. Nonna Ida era una piccola e delicata ma grintosa vecchietta; non camminava quasi più ma la testa le funzionava bene. Aveva fatto l'insegnante da giovane e, con la pazienza e la caparbietà che a volte solo gli anziani riescono ad avere, pazientemente aveva saputo dipanare gli oscuri oceani dell'incomprensione, dandole una rotta da seguire. E lei aveva imparato.
E si era attaccata a quell'acuto odore di canfora dei vestiti negli armadi, ai fine settimana sul lungomare di Ostia, alle fresche risate di loro due quando tentava di imparare gli stornelli romani che Ida le cantava, al calore del sole affacciata alla finestra declinando in continuazione i verbi, e dove ci va la q unvece della c, e della mano di nonna Ida che le stringeva vigorosamente la sua quando si distraeva se il suo sguardo si perdeva sui tetti circostanti fino ai colli e l'ultimo sole indorava tutto come fosse oro.
Ma nonna Ida se ne andò, serenamente e silenziosamente, una notte fredda e ventosa di un inverno che stava appena cominciando ad allargare il suo gelido mantello. Ed era nuovamente lì, sofferente e sola, inerme ed in un paese sconosciuto. Non era ancora pronta ad affrontare di nuovo la morte.
La seconda era stata peggio. Si chiamava Lia ed era un'odiosa e maligna vecchia su un letto d'ospedale, dotata di una cattiveria che, almeno, le aveva impedito di affezionarsi, anche se, in fondo, non ce l'aveva fatta completamente. Comunque non l'avrebbe mai chiamata nonna. Ed in quei due anni che era stata sotto di lei ne aveva veramente sopportate tante, forse troppe. I continui capricci, gli ordini impartiti come se lei fosse solo una serva stupida con quella voce rauca e cattiva, gli insulti gratuiti e le ripicche quando non riusciva a capire o a fare le cose in fretta. Era entrata in quella casa per dare una mano ad un figlio ancora succube ed esasperato, che le allungava spesso qualche banconota in più perchè lei rinunciasse alle sue giornate di libertà pur di allontanarsi a respirare. E a lei i soldi in più facevano comodo. Aveva lavorato sodo in quegli anni, obbedendo silenziosa, lavandola e pulendola coscienziosamente quando se la faceva addosso apposta solo per farle un dispetto, dormendo pochissimo scrivendo a sua madre e leggendo tanto, come le aveva insegnato Ida. E ogni mese, puntuale, spediva a casa il vaglia con i soldi faticosamente sudati. Aveva seguito la vecchia anche quando per le esigenze di lavoro del figlio si erano spostati a Torino e lì, tra le bancarelle del mercato della Crocetta aveva conosciuto la signora Lucia, una simpatica vecchietta della Torino bene di un tempo che abitava sola in un grande appartamento lì vicino. Avevano legato subito, vedendosi quasi tutti i giorni agli stessi banchetti intente a fare la spesa. Una mattina l'aveva aiutata a portare le pesanti borse di plastica della spesa e parlando si erano sorprese molto simili, malgrado la loro differenza d'età. Era iniziata una complicità che le portava a fermarsi per un the veloce nel pomeriggio, a scambiarsi pettegolezzi e favori. Lucia le aveva regalato gli scorci più segreti e meravigliosi di Torino. L''aveva portata al Valentino ed in Piazzetta Maria Teresa, a Palazzo Reale, al Museo Egizio ed in mille altri posti, raccontandogliene con dovizia di particolari la storia; l'aveva sorpresa quando le aveva fatto gustare il "bicerin", in quel piccolo e delizioso bar vicino alla Consolata. Ogni loro incontro era uno stretto nodo nella rete della loro amicizia. E così quando l'improvviso aggravamento della malattia della signora Lia aveva dato l'occasione al figlio a ricoverarla in una struttura assistenziale (occasione che lui aveva preso al volo) scaricando tutte le angherie dell'altra a carico di infermiere professioniste, il passaggio a casa di Lucia era sembrato a tutte e due la cosa più logica da fare. E così avevano fatto.
Ed oggi erano erano lì, tutte e due eleganti e pronte a gustarsi una bella serata. Sveva sorrise alla sua immagine allo specchio e, cedendo il passo alla vecchia signora, uscirono dalla camera.

martedì 6 ottobre 2009

Come cambiano

Le cose, i fatti, le emozioni, la gente.
Ed anch'io che, nell'ostinazione assurda di rimanere legato al tempo per poterlo domare, fermare, piegare al mio volere, pur non volendo, cambio lo stesso.
Come cambia la mia vita e la gente che mi sta intorno. Come cambiano le cose che prima mi andavano bene ed adesso non sopporto più.
Come sono cambiato io, volente o meno, da quando ho cominciato a scrivere qui, quel 25 giugno.
E' una sera strana questa. Primo ho mancato ai miei obblighi con mia figlia, quello di poterla vedere prima che vada a nanna. Di stare con lei naso contro naso, coccolandomela un pò con le sue dita che mi prendono il lobo dell'orecchio come faceva quand'era piccola. E' vero, ho dovuto finire un lavoro, ma più che altro avevo bisogno ancora una volta di starmene in pace, Io e una canzone di Billie Holiday, che lenta e tragica nella sua tristezza mi morde dentro. Ho cambiato le mie abitudini, per poter veder mia figlia sveglia, io che sono sempre andato avanti fino a notte fonda a scrivere, a disegnare prima, ed a lavorare poi. Lasciavo agli altri la fatica delle levatacce e mi prendevo le notti, gustandomele a pieni polmoni. E' il mio lavoro, me lo sono scelto e costruito pezzo per pezzo e, tutto sommato mi piace anche. Mi piace il mio studio, dove tutto, dalla biro al plotter da 10 mila Euro è nostro e ce lo siamo sudato e guadagnato. E meritato.
Poi la vigilia di capodanno di due anni fa tutto è stato ribaltato da quel momento in cui, improvvisamente, di mia figlia non è rimasto che il corpo, con la mente rubata da un perfido virus, arrivato come una folata di vento malefico, senza che potessi far niente per evitarlo.
Eravamo come di consueto tra i miei monti. Ricordo quella corsa improvvisa in ambulanza fino a Susa e l'incubo della probabile meningite. "Tu non la porterai mai via", pensavo a pugni chiusi. Avrei lottato con Dio.
Poi il lento, magico risveglio e la seconda corsa fino al Regina Margherita, dove insieme ad una squadra di persone efficienti e soprattutto umane abbiamo sentito gli scoppi dei petardi di chi, in quel momento, festeggiava.
Quella notte il mondo, il tempo, si sono veramente fermati. Ed io non lo volevo. In quella notte e per le nove successive che abbiamo passato in ospedale io e mia moglie ci siamo sostenuti a vicenda, ritrovandoci e riavvicinandoci, per poi allontanarci lentamente in punta di piedi dopo, e adesso, sinceramente non so.
Poi tutto è passato, senza traccia, ad eccezione di quelle che, dentro, non passeranno mai più. E uscendo da quell'ospedale avevo preso la decisione che ho mantenuto fino a stasera. Quella di partire in studio alle 7 del mattino ma di arrivare presto a casa, in maniera da potermela godere un pò e darle qualcosa di più di un bacio stanco con la barba lunga di un giorno. Quella di giocare disteso sul pavimento con lei e la nostra gatta bianca, acquistata a caro prezzo all'esposizione internazionale di Stupinigi perchè le avevo promesso "scegli il gatto che vuoi che papà te la compra" (1200 Euro di gatto: dite che son matto? non ditelo che già lo so da me).
Quella di ascoltarla, consigliarla ed educarla, cercando di evitarle gli sbagli che in quantità industriale ho già commesso io, ma che se li vorrà fare comunque, andrà bene lo stesso.
Quella di gustarmi quei sorrisi e quel centro dell'attenzione che, ancora chissà per quanto, rappresento per lei.
Vi svelo un piccolo segreto: per chi si chiede ancora chi è veramente Sveva, beh, direi che almeno un buon 80% è proprio lei. Il mio amore più assoluto (e l'altro 20%?? Sapeste!!).
Stasera ho trasgredito ma ne avevo bisogno per pensare anche un pò a me stesso, anche se devo dire che me l'ha fatta di nuovo. Alla fine sono stato con lei tutta la sera.
Vedrò di farmi perdonare.
Magari le compro un altro gatto!! ^ ^
D&R

Ho venti giorni


Ho venti giorni di tempo per convincere il mio tendine a rigenerarsi, a guarire. Altrimenti non c'è storia.
Il medico è quello che segue Renè, in corsa da sempre. Abbiamo prenotato la visita lo stesso giorno. E ieri il viaggio fino al paesino sperduto dalle parti di Novara l'ho fatto, ancora una volta, insieme a lui. A parlar di stupidate, come sempre, mentre la mia auto percorreva l'autostrada troppo velocemente, come sempre anche quello. Lui comunque capiva, nascosta tra le pieghe stirate delle mie risate, la preoccupazione e, tra una scemata e l'altra, mi ci infilava dentro un "Vedrai comunque che te lo aggiusta, lui è uno bravo, e l'intervento cerca sempre di evitarlo". E così alla fine, quando sono entrato nella piccola sala d'attesa, con le foto appese al muro di tutti quegli atleti, tutti quei campioni che lo ringraziavano per i servizi resi, quasi quasi cominciavo a crederci, cercando di non dar peso a quello che invece sentivo io, e che diceva tutt'altro.
Nell'attesa che visitasse Renato ho potuto leggere un servizio su una rivista specializzata di running dedicato al vincitore dell'Elbaman, che ho potuto vedere da vicino. Lui, partendo alle 7 del mattino ha prima nuotato per 3.8 km, poi ha percorso 180 km in bici ed alla fine ha "passeggiato" per 42 km a (3h 19'!!!), arrivando primo alla fine, e neanche troppo sfinito.
Io, invece, mi sono tuffato in piscina e mi sono lesionato il tendine.
Non è che sia proprio giustogiustogiusto.
Il medico è un ex triatleta anche lui, occhiali e baffi ed aria severa. Penso che più o meno abbia la mia età. Alla parete dello piccolo studiolo una marea di attestati e riconoscimenti.
Ascolta la mia disavventura, mi chiede i miei tempi al chilometro e poi mi mette a pancia sotto sul lettino e inizia a visitarmi, torturandomi ferocemente.
Non ci mette molto. "Tu il tendine praticamente te lo sei giocato. Potevi romperlo con quel tuffo e ci sei arrivato a tanto così" mi dice brusco, continuando a schiacciare senza pietà. Io non mi lamento, ma stringo i denti.
Poi un paio di punture e mi fa sedere mentre comincia a scrivere una marea di cose e nel frattempo me le spiega, preciso e stringato. Non si dilunga, elenca le cose da fare.
Secondo lui non c'è alternativa all'intervento.
In pratica il processo degenerativo ha portato il tendine al lumicino. Non potrò mai più tentare uno scatto neanche per prendere un tram, pena la rottura. Posso forse evitare l'intervento e correre ancora, ma per saperlo adesso abbiamo una scommessa da provare a vincere, anche se non so quanto ne valga la pena.
Abbiamo venti giorni di tempo per rimetterlo in senso 'sto balordo.
Venti giorni di assenza assoluta dalle corse, vietatissime, e sono state il mio polmone degli ultimi mesi. Venti giorni di ghiaccio, 2 volte al giorno, di nuoto al posto della corsa, di medicine e stretching. Venti giorni di laserterapia, di scarpe da corsa anche sotto lo smoking e zoccoli da infermiere in casa, io che a casa mia adoro camminare a piedi nudi sul parquet che ho messo anche in cucina.
Tra venti giorni mi vuol rivedere e poi decideremo. Cioè lui deciderà e io gli dirò che sono d'accordo.
Decideremo se dovrò tornare di nuovo sotto i ferri, per poi ricominciare tutto da capo, ancora una volta. Stringere i denti e ripartire. Riperdere tutto e ricostruirlo pian piano, soffrire e sudare, dipendere da qualcuno per andare avanti ed indietro da casa allo studio e viceversa. Rivedere lo sguardo amorevolmente preoccupato di mia figlia, che, da quando è nata, di odore di ospedale ne ha respirato fin troppo.
Potessi ripararmi e rigenerarmi utilizzando la stessa energia che è quella che mi ha permesso di riprendere fili spezzati, e che conservo ancora per quello che succederà domani lo farei. So che posso farlo. Ma il tendine è uno stupido pezzo di tessuto, non ascolta, non capisce che cosa ho ancora intenzione di fare, non si rende conto che non bisogna tenere in conto gli anni che sono passati ed i chilometri percorsi e che bisogna tirarsi su le maniche e trovare una soluzione. Invece si consuma inesorabilmente. E di rotti e ricuciti ne porto dentro almeno un paio, lo so.
Mi giro e mi rigiro tra le dita la mia stilografica di turno. Ho messo via la Souveran e l'ho sostituita con una più leggera Omas 360 Blu Venice, con quella superficie quasi di velluto al tatto che però stavolta non mi da la consueta sensazione di appagamento.
Stanotte non ho praticamente dormito, rimanendo in una leggera coltre di confusione, pensando e ripensando a cosa fosse meglio e cosa no. Stamattina alle 6 sono sgusciato silenziosamente dal letto sotto lo sguardo interrogativo ed assonnato di mia moglie, ho dato due bacini a quel delizioso incavo sul collo della mia bimba senza svegliarla e me ne sono venuto via, silenzioso sulle mie scarpe da running sotto la giacca. Fuori dall'auto ho potuto assistere ad un'alba rosa carne, fredda ed assoluta, mentre le rasoiate prodotte dalla voce tagliente e ruvida di Bob Dylan mi giravano intorno.
E dai che ci riproviamo.