venerdì 27 luglio 2012

Still Crazy After All These Years


Ci sono istanti in cui mi vien da pensare che qualcuno inserisca, nella musica di una radio a caso la mattina presto, un brano a bella posta, lì, proprio per me.

Esattamente come stamani, io, la mia macchina su di una strada a caso, una velocità insolitamente non da patente a coriandoli, il fresco che pigro si allontana dai campi che mi scorrono ai lati, le balle di fieno che riposano sbilenche, matrone grasse, scomposte ed abbandonate, e le gocce di rugiada che si spostano piano e vanno dal cofano al parabrezza, incrociandosi, dividendosi, lasciando una traccia sottile, una scia di lumaca, su, fino a terminare in una lacrima che penzola indecisa su dove andare a finire, sulle due dita aperte del finestrino laterale.

Le montagne sono una costante all'orizzonte, dalle mie parti. La mole placida del Monviso emerge al primo chiarore, osserva tutte le cime più basse intorno e sembra che scruti anche me, con sorniona benevolenza. Qualcuno deve averle spifferato che a breve ho intenzione di andarle a fare il solletico in punta. Sarà stato Renè, c'è da giurarci.
Sono in netto anticipo sul primo appuntamento di questa mattina e me la prendo comoda.

Ed inaspettata ecco una vecchia canzone che ritorna lì, a sorpresa. Una di quelle, non tante, che combaciavano con quello che osservavano i tuoi occhi di trent'anni fa, che si inventavano un ballo col tuo cuore sbarazzino di allora, che ti coloravano le guance ed addensavano il fiato, che ti veniva voglia di correre e cantarle fino a farsi dolere le corde vocali.

Una di quelle che ti hanno frugato dentro ed ognuna ha trovato un posto suo. Ed adesso ecco che questa esce dal cassetto dei ricordi, dove stava indisturbata, beatamente raggomitolata, si stiracchia e si diverte a risuonarmi ancora una volta nelle orecchie, riempiendomi di note la mente ed il cuore, fermandomi per un attimo il respiro, distraendomi dai campi e dai monti intorno. Ne riconosco di colpo l'inizio, gli accordi del piano, riassimilo ed inspiro ogni parola, ogni variazione di tono. Ricordo quell'album, magico, il primo della serie dei primi tre magici album, di quella magica vita di allora, dove tutto era ancora facile, da scoprire da inventare e da cambiare, dove tutto ti sommergeva di emozione, dove gli amori sembravano esplodere dentro e squassarti l'anima, dove il mio mondo era quasi tutto di là da venire.

No so dire quante volte mi sia perso, ancora ed ancora, il disco di vinile nero che girava, la luce stroboscopica del piatto che ipnotizzava e il braccio che dondolava piano e che finita la musica abbandonava il solco lasciando quel silenzio ruvido ad uscire dalle casse spostandosi velocemente al centro, poi si alzava e con un tlac, alla fine, ritornava preciso sul suo supporto. Tu allora prendevi il disco con i polpastrelli sul bordo, attento a non lasciare le impronte sulla superficie lucida, lo inserivi nella busta bianca, che infilavi religiosamente nella custodia e ne mettevi subito su un altro, a scelta tra i normali o tra gli altri due magici, speciali, che allora per me erano "Breakfast in America", dei Supertramp, e "Making Movies" dei Dire Straits.

Avevo diciott'anni, il mondo davanti che mi dava generose pacche sulle spalle, dicendo che potevo permettermi di sbagliare ancora tanto e Dio solo sa se non l'ho ascoltato abbastanza. Avevo un sostegno, un punto di riferimento ed una guida di cui sono riuscito ad apprezzarne completamente il valore quando ormai era troppo tardi. Avevo persone che col tempo ho disimparato a comprendere ed una bicicletta nuova appena comprata nei negozietti del Balòn di Porta Palazzo. Avevo un'anima affine ad un tiro di fionda, ma a volte anche le anime hanno orbite diverse, come le comete, e se non sei attento a prenderla al volo quando passa chissà quando ti ricapita - strani scherzi, combina a volte, il destino. Ed avevo cumuli di sogni. Alcuni, mio malgrado si sono spenti. Altri nuovi, fortunatamente, si sono accesi.

Mi ricordo la copertina di quell'album, nera, i loro due volti spensierati e gli sguardi che guardavano lontano, sorridenti. Ricordo il video, mezzo milione di persone ad un concerto gratuito, il parco pieno, il sindaco a presentarli con l'accento strascicato e loro due che sbucavano da una porticina scalcagnata, due voci e una chitarra Ovation e per un paio d'ore non avevano fatto altro che cantare e fermare il tempo, con il cielo che si inscuriva carico di nuvole, loro e mezzo milione di persone e me dall'altro lato del disco.

Quanto ho amato quel tempo, quegli album, quei sogni e quella canzone. E quanto riascoltandola ne riconosco le parole e me la ritrovo addosso, un paio di jeans consumati che mi stanno ancora bene, dopo coì tanto tempo.

Perché un po' matto mi ci sento, mi ci ritrovo, se ci penso, come domenica scorsa, che in quella casa che ho sempre sentito come la mia casa, lì dove ci sono stati i miei respiri più forti, mi sono sorpreso a sentirmi così estraneo ed ospite e ho osservato con tristezza quegli oggetti che abbiamo costruito io e mio padre, io e lui, insieme, usati senza la considerazione ed il rispetto che forse solo i pazzi pensano che anche una malandata panca di legno ed un barbecue si meritino, se ne conosci ogni incastro, ogni mattone ed ogni vite che la tiene insieme, se ognuna di queste è stata serrata con l'esperienza di uno e l'esuberanza dell'altro, due persone che avevano del futuro da giocarsi insieme, ed allora ti senti che lì sei fuori posto, che respiri diverso e loro lo notano, e non stai bene lì e loro non stanno bene se sei lì, anche se non parli e stai in un angolo e li osservi ed il disagio lo potresti tagliare a fettine ed allora ti esce un "io non mangio" ed esci, liberandoli, tanto le scarpe per correre sono sempre nel baule, ed in meno di mezz'ora sei lontano da quella panca e quel posto e quegli alberi che ti parlano e che ti han visto crescere e tu hai visto crescere loro, che siete partiti insieme, e vai là dove sai, tra alberi rocce e nuvole, e gli occhiali scuri e gli auricolari sono sempre lì pronti ad isolarti dal mondo, ed i muscoli sembrano domandarti quand'è che si parte, perché a volte ne hanno bisogno anche loro, di scattare e muoversi, una sferzata di rabbia e di fatica, a correre veloce, scattando sui massi, sù per sentieri scoscesi, a meritarsi il rispetto e la precedenza dei ciclisti sulle loro mtb, a sorpassare veloce mandrie di lenti gitanti in faticosa salita, che ti lasciano passare osservandoti straniti, carichi di zaini come bestie da soma e tu no, tu che non hai nemmeno l'acqua per bere, perché tanto l'acqua la trovi dietro ogni curva, nel chiacchiericcio dei torrenti che attraversano il sentiero, con la polvere di terra impalbabile come cipria, con le farfalle azzurre ed i grilli che si scansano veloci. E corri e sali, e vai sù, più su ancora, fino a quel lago ed i suoi tronchi affogati dentro che gli danno quel colore unico, e quante volte ci sei stato, lì con lui, chissà la prima volta che ti ci ha portato che occhi che avrai fatto.

Che quando ti senti così mica sai quanta te ne serve, di quella corsa lì.

E difatti non basta ancora e muovendoti veloce vai ancora su, ad osservare dove finisce il sentiero, lì dove anche gli alberi si diradano e lo spazio si allarga e il rumore del vento si mescola a quello della cascata in lontananza, e arrivato lì ti levi le cuffie e ti fermi, ed un minuto dura un secolo, e ti giri intorno ed osservi tutte quelle cime che conosci così bene, così vicine e loro osservano te, ed anche loro, probabilmente, ti danno del matto. Respiri, una due volte, poi ti giri, inforchi occhiali e auricolari e leggero torni indietro, sul sentiero dove prima il cuore ti batteva in gola e che questa volta ti spinge e scendi veloce, giù, tagliando per ripide scorciatoie, oltre il lago, al sorpassare d'un balzo il torrente, a ritrovare la gente e gli alberi e le auto che rallentano, quasi tutte, per non buttarti la polvere addosso. Passi vicino alla parete dei Militi, senti rumore di rinvii e vedi qualcuno che sbuffa sui tiri più bassi. Non ti fermi, vai avanti, giù fino dove avevi parcheggiato. Apri il baule, ti cambi e scopri di aver male quasi dappertutto. Ma stranamente non ti senti stanco. Un'ora e mezza, undici km e settecento metri di dislivello bastano, per questa volta, a ritrovare un briciolo di sereno, nei tuoi occhi, nascosti tra i capelli lunghi. La tua piccola e la sua gioia nel vederti sarà l'unica ad accorgersene.

Ma non puoi fare il matto così, mi è stato detto. Ma io molto probabilmente matto lo sono davvero, ho risposto poi senza pensarci.

Tanto, le orbite, prima o poi, si incrociano.

sabato 21 luglio 2012

Father and Daughter




Pensa un pò te, scricciolo. Tu, mia figlia, ed io un padre. Io.

Tu, che l'altro giorno ti guardavo, lunga come sei, come me, bellissssima per me, con la pelle indorata dal sole, e quegli occhi di una dolcezza rara, con una virgola di smarrimento sempre ed una di gioia, quando mi guardi, quando ti guardo. Non so quando tu sia diventata mia, così, non mi ricordo l'istante esatto, il tempo appanna e sfuma sia le emozioni sia i ricordi, non mi pare di essere stato un futuro padre particolarmente premuroso, di quelli con l'orecchio sempre attaccato al pancione, non penso di averti sentita una volta sola mentre scalciavi: una cosa nuova, una parte di me che prendeva vita, ma in qualche modo separata, estranea.
Ma in realtà sì, forse sì, me lo ricordo invece, è accaduto quando il tuo cuore ha riconosciuto il mio ed insieme hanno preso lo stesso battito. Tu sdraiata sulla mia pancia, addormentata, col sederino in su e gli occhi chiusi, il volto leggermente imbronciato ed il tuo cuore, che sentivo, dalla tua pelle sottile alla mia, dalle tue dita incredibilmente piccole alle mie. Ed eri così piccola e vulnerabile, ed ogni impercettibile movimento, ogni respiro era una cosa nuova, per il mondo e per me. E da lì all'appartenerti completamente e ciecamente è stato un attimo.

Sei cresciuta, stai crescendo, il bene che ci lega sono le radici dell'edera, è la forza del torrente di fine inverno, la neve che nel silenzio scende lenta e copre.

Sono gli animali nelle forme delle nuvole che solo noi indoviniamo uguali, sono i tuoi occhi che ridono da dietro una maschera sott'acqua mentre riporto su una conchiglia per te.

Sono le mani che si cercano e che si intrecciano da sole, i grattini sulla schiena di ogni sera, un poco più su, adesso più in là, ecco così, e la tua voce da addormentata.

Sono il mio nome per te, che è solo tuo.

Sono le mie favole che ti fanno sorridere, sempre di meno ultimamente, le terribili barzellette che ti inventi per me. Sono le nostre abitudini, ma quelle solo nostre, quelle che tu con me ed io con te e basta, il mondo è un'altra cosa.

E cresci, e cambi, e tutti mi dicono gòditela, finché è così, speciale così, unica così, gòditela perché cambierà, manca poco ormai, cambierai tu e cambierà lei, perché lei crescerà, sposterà i suoi pensieri, e li trasformerà, avrà orizzonti più ampi e l'armonia, l'essere così, l'uno per l'altra si scioglierà un poco ed un poco l'edera avvizzirà e smetterà di vedere le forme delle nuvole che vedi tu, e tu allora dovrai essere un buon padre e capire, permettere che questo accada e non rimanerci troppo male, è normale e naturale, e succede a tutti.

Ma io non lo so ancora, cosa voglia dire fare il padre, non penso di esserlo, non so come sono, se faccio il padre come si deve o faccio solo uno strano ragazzo un pò troppo cresciuto, dai capelli ridicolmente lunghi e le scarpe per correre, la barba lunga e lo sguardo perso che assomiglia così a un altro sguardo che mi riempie il mondo ed il cuore. So solo che mi è stato fatto un dono di cui non ne capivo il valore, e quella cosa pian piano mi è entrata dentro, a partire da quella volta là, addormentata con il sederino in su ed il musetto imbronciato, e si è presa me, ogni briciola di cuore, ogni sprazzo di pensiero, non mi ha mai più abbandonato, e questa cosa è successa ieri o ieri l'altro, saranno stati al massimo tre giorni, e voi ora non venite a dirmi che cambierà, adesso che è così, non fatemici nemmeno pensare, lasciatemi così, a cercare altre immagini di nuvole da indovinare, a sentire la forza impetuosa di questo torrente, a mettere la lingua fuori per sentire i fiocchi di neve cadere, nel silenzio di una nevicata bellissima, due figure, una bimba e suo padre, mano nella mano.

sabato 14 luglio 2012

Please , please , let me get what i want


This time.

Comincia così, con le parole di questa canzone che oggi sembra che mi siano  state scritte dentro, in un sabato che, una volta ogni tanto, posso anche prendermelo come voglio, senza particolare fretta, senza la sveglia all'alba, la colazione tranquilla al bar dove non serve neanche che dica e mi servono, un paio di mail poi ed un socio che così come è arrivato, altrettanto rapidamente, per fortuna, svanisce. E la possibilità di non far niente, se voglio. E queste parole mischiate ad una melodia lenta, che oggi chissà perché ritornano, e scavano, un poco soltanto, il giusto, e che mi si appoggiano, una via l'altra, mi  aderiscono come il foglio della pellicola trasparente.

Good times for a change.

Viaggio a giorni alterni, sono incostante, umorale. Non sereno, no, quello non riesco. Passerà, mi dico ogni giorno, passeranno le cose che ti si intrecciano dentro, tra la testa ed il cuore, che a volte ti ingolfano e ti bloccano il respiro o peggio ti fan venire la voglia di urlare, principalmente contro te stesso. Passerà, tranquillo, ne hai passate di peggio, e te le ricordi quante sono state, te ne ricordi ognuno di quei frammenti taglienti, hai le cicatrici sui polsi, ed al solo avvicinarci i polpastrelli le riconosci una per una, passerà, le hai passate tutte, e passerà anche questa, come quando eri studente e ti avvicinavi tesissimo alla data dell'esame ti dicevi passerà, tra tre giorni questo gradino sarà superato comunque, lo sai che sarà così ed allora prenditi la tranquillità che avrai tra tre giorni ed usala adesso, che ti serve. 

See, the life I've had 
can make a good man bad


E me lo ripeto adesso, passerà, tutto quanto non gira, le grane, il lavoro, i soldi, la rabbia in un modo o nell'altro passeranno, si affievoliranno, i gradini si salgono, per quanto alti e stretti e diseguali e per quanti siano si superano, un passo dietro l'altro, senza contarli, con l'ostinazione che vince alla fine, e tutto si supera, con il tempo, soffierai vie tutte le nubi di tempesta e tornerai a vedere sereno, tornerai a guardare qui dentro, nello studio delle rose sfiorite e delle ortensie risecchite dal caldo con una nuova convinzione, con altri entusiasmi. Tornerai nuovamente ad arrampicare per la sola gioia di divertirti, e non per star solo e basta sentendo il vento dietro la schiena e quella strana calma tra la roccia ruvida e le dita imbiancate di magnesite, tornerai a correre per la voglia di correre, come fanno i bambini e le rondini, non per strappare qualcosa, per strapparti da qualcosa, con i muscoli che protestano ed i passi che martellano. Tornerai a star bene, ma a poter stare non per forza bene da solo, perché hai quell'equilibrio che nessuno intacca, hai te stesso e quello su cui puoi contare, che sei tu e nient'altro, anzi che non è niente ma sei tu. E la finirai una buona volta di rimuginare su quanto hai perso e su cosa è cambiato ma imparerai ad ad apprezzare unicamente i regali che hai ricevuto che sono stati quanti giustificano una vita, a guardare la bellezza di incredibili frammenti di tempo, unici, con una sconfinata gratitudine ed un bene che non scolora. E tutto quello che hai dentro, così, limpido e violento, uragani e sorrisi, fiocchi di neve e farfalle, che ti imbriglia così spesso adesso e che ti stritola e strazia non cambierà, stanne certo, ma riuscirai a domarne almeno una piccola parte, vedendo il bello di quello che è, di quello che hai e che forse anche sei.
Ed adesso, me ne vado a correre. Proverò, a far girare le gambe annusando l'aria, cercando di rimanere leggero sulle note di una musica a caso, giocando con un vento che finalmente rinfresca i sentieri del mio parco.

La T-shirt che indosso quest'oggi ha su scritto "Climber of Dreams" e sotto, in piccolo: Arrivato in vetta non puoi che osservare l'orizzonte e lì, oltre ogni fatica, scorgere nuove sfide, altri sogni da realizzare. Siamo scalatori di sogni....



Ho quasi, di nuovo, voglia di scrivere.
So for once in my life 
Let me get what I want 
Lord knows, it would be the first time

martedì 10 luglio 2012

di barche e di niente

Cos'hai?
Niente.
Ma sei strano.
Dimmi qualcosa che non so. E' che non ho niente, te l'ho detto.
Niente.
E' quando non puoi, non sai, quando non senti, non vedi e non respiri.
Niente.
Non è niente, anzi è il niente, che mi tiene l'anima in gabbia.
Sono giorni appannati, questi. Duri, legnosi, un intrico di fili annodati a tenere strenuamente unito questo sgangherato equipaggio e la sua barca, che non imbarchi più acqua di quanta ancora ne possa sopportare, avanzando inesorabile nelle pieghe, allentandole, sciogliendo l'inchiostro dei quadretti prima che la carta si inzuppi e si maceri senza possibilità di rimedio.

Sono giorni strani, sì. Di gente che ha lo sguardo a volte più smarrito del mio ed io che non sempre ho la forza di dare le giuste direttive, e che ogni tanto mi verrebbe da dire ma vada tutto come deve andare, al diavolo o dove diavolo vuole, e che poi trovo ancora un grano di forza per non dirlo mai. Giorni che si susseguono, uno via l'altro, rotolando, in un continuo che non lascia respiro, non lascia pensieri, né sogni né forze.

E quello che è peggio è che non si lamenta nessuno. Volassero i vaffanculo, qualche buona volta, magari sarebbe fin meglio, si spezzerebbe questo strano torpore. Mi guardano, li guardo, capiscono, non chiedono. Si parla, con una pallida tranquillità, a volte disarmante. Si affrontano comunque i nuovi progetti e si cerca di buttarseli rapidamente alle spalle. Capita che ci si scazzi anche, ovvio, quando la sfiga si accanisce, con un pagamento che ritarda ancora una volta, sai che novità, o con una spesa non prevista che si prende in un lampo i soldi messi da parte per le sospirate vacanze. Ma poi ci si rimette subito in riga, sull'attenti sul ponte, scusi signore, signorsì signore, ad attendere speranzosi nuovi ordini ed una folata di vento di quello buono, che duri e ti permetta di calcolare una buona volta una rotta sicura da seguire.

Ci sperano, forse ci credono addirittura.

E mi sorprendo pensando che ci credo ancora, ciecamente, con tutta l'anima in questa barca qua. Nonostante ogni tanto mi guardi indietro ad osservare il tempo passato ed un altro me a percorrerlo. Ed avrei voglia di dargli dei consigli, a quell'altro me, dirgli di esser meno stupido o spaventato, più paziente ed attento a vivere.

E ciononostante ci credo.
Ci credo perché l'ho fatta quando ancora non sapevo quali acque avrebbe navigato, ne ho studiato le forme ed ho stirato con cura le pieghe, allora, in un tempo in cui tutto era forse più facile ed io ero molto più sereno ed avventato di adesso. L'abbiamo messa in acqua con incoscienza, banda di scriteriati che eravamo e che in parte siamo ancora, l'ho osservata ed ammirata vedendo che galleggiava sicura, senza sbandamenti, e col tempo ho imparato a portarla ed ad ammirarla fiero. E non posso vederla andare, non ancora almeno, non è il suo momento, non è il suo destino e nemmeno il mio.
E allora si serrino le fila, si stringano ancora una volta i nodi. Si scuote la truppa, si turano le falle, si scherza con niente e si scruta lontano speranzosi.
E le angosce uno se le tiene dentro, e qualche volta le scrive.

Le cose che avrei voluto fare, quello che avrei voluto essere.
Niente.

E vivaddio corri, almeno quello, ogni sera, che di giorno il caldo è più feroce dei tuoi pensieri, che strappi la strada a morsi disperati, che parti e ti dici ma che cosa corri a fare, che tanto ti fermerai alla prima curva perché parti e ti senti già stremato ma stremato di dentro, ma poi ancora un passo, ancora uno solo, ed un'altro ancora, e alla fine i chilometri incominciano a svolgersi, lenti e poi via via più veloci ed il male di dentro si muove e ti abbandona, dal petto in giù, fluisce attraverso i muscoli delle gambe e giù verso i piedi e l'asfalto, dove li lasci, ne abbandoni qualcuno, passo dopo passo, fiato dopo fiato, pensiero dopo pensiero. Non vedi, non ti accorgi della gente che pian piano ha cominciato a riempire il tuo parco. Non senti i profumi dell'erba nuova, le voci, le chiacchiere degli alberi, i cani che giocano, la musica nelle orecchie è ancora una volta barriera, una bolla afona in cui mi muovo, il mondo da una parte e dall'altra io, solo io, io da solo, con le mie gambe che vanno, il cuore che martella, io e una striscia che si srotola scura ed un tempo da contare a rovescio, io ed i miei capelli un pò meno lunghi del solito ma che danzano a tempo dei miei passi di corsa, io ed i miei occhi che sono due fessure ferite dal mondo e dal mondo difese da lenti scure, io che da solo ci so stare, ancora una volta, che mi basto nuovamente, che in questa bolla ho il mio tutto, e non pensare mai che questo tutto che ho sappia quasi di niente.

Il niente è fatto di niente appunto, chiamalo assenza, mancanza. Quanto non ho, ciò che non posso, tutto quanto ho perso ed invece ciò che ho perduto, che sono due cose distinte, perso o perduto senza cattiveria certamente, l'ho imparato, ciò che ho smarrito, e quello che invece ho lasciato, per caso, per forza o perché non poteva andare diverso, che le ho appoggiate sulla cima arrotondata di un'onda e sospinte delicatamente verso il mare aperto, come una piccola barchetta di carta.

A volte la paura di perdere le cose te le fa perdere più in fretta, dicono.
Non ho grossi rimpianti, in fondo.

Lo vedi, che avevo ragione?

Alla fine, non ho proprio niente.