giovedì 27 settembre 2012

A fare il solletico al cielo


Ed eccoci qui. Il materiale riposto con cura nello zaino, le fibbie chiuse, gli scarponi a riposare nella propria scatola, l'imbragatura liberata da tutta la ferramenta, anche se tra una settimana, per fortuna, so che la userò di nuovo. Un'altra esperienza nella tasca delle emozioni. Due giorni liberi, divertenti, intensi.
E' stata un'uscita diversa, non siamo arrivati fino in cima al "gigante di pietra" come ci eravamo prefissati inizialmente ma non importa, questa volta proprio non aveva senso rischiare. E infatti.

Ritrovo con Renè nel primo pomeriggio, la mia auto malatissima e forse vicina all'estrema unzione questa volta proprio non si può usare, prendiamo la sua. Abbiamo deciso di non portare i ramponi, doveva essere l'ultima uscita estiva ma ha nevicato tanto su, la scorsa settimana, poi però ha fatto nuovamente bello. Se sarà rimasta tanta neve tenteremo la cima, vedremo cosa troveremo.  Siamo in tre, c'è anche Daniele che con noi ha fatto solo due ferrate ma mai salite lunghe, però dalla sua ha quasi vent'anni di meno e gli torneranno parecchio utili. Partiamo.
La mèta questa volta è la cima del Viso a 3841 metri lungo la via normale, dal versante sud, con pernottamento in un bivacco, anziché al classico rifugio Quintino Sella o dal Gastaldi, dove tanti anni fa abbiamo combinato sfracelli che ancora ci ricordano. Questa volta abbiamo preferito tra tranquillità di un piccolo bivacco isolato per evitare la calca che si trova di solito, nonostante la scelta di due giorni infrasettimanali. 
Non metterò giù un racconto che riporti indicazioni di percorsi, tempi, e descrizioni utili all'orientamento. In rete se ne trovano un sacco, per salire ho sbirciato lì. Racconterò altro. Aggiungerò qualche foto. Proverò a spiegare le sensazioni, cosa vedono gli occhi, e cosa respira il cuore, lassù, quando l'orizzonte ti incanta e ti senti sospeso. Terzani spiega che "Il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare". Per me il senso della ricerca sta in ogni passo compiuto e nel cercare di indovinare in quali altri passi ti ritroverai domani, o tra un minuto. Sta nell'osservare, nell'annusare, nel vedere un mondo che si schiude al tuo passaggio e che si richiude alle tue spalle. Nell'ascoltare i colori, nel misurare la fatica, nel fermarsi ad osservare.

Il Monviso ci scorre veloce di fianco al di là del guard-rail, mentre ci avviciniamo in auto. Abbiamo deciso di prenderlo alle spalle. Ci infiliamo nella valle Varaita fino a Castello, il paesino che si specchia sulle acque della diga, prima di Pontechianale. Lì, ovviamente non si può non abbandonare la civiltà se non entrando in un bar per l'ultimo caffè come si deve e anche lì, altrettanto ovviamente, Renè incontra qualcuno che conosce, come quasi sempre in quasi ogni zona, rifugio o parte dove insieme siamo stati. Penso che se mai un giorno decideremo di attraversare i Sahara a piedi, fermandoci nell'oasi di Cufra incontreremo un tuareg che fissando il mio amico dirà: "Ehi Renè, abbiamo fatto insieme la maratona di Abidjan, ricordi? Quanto tempo!" 

Partiamo troppo tardi, probabilmente arriveremo con il buio ma non importa. La valle che porta su è un incanto. Quieta e profumata, con il massiccio imbiancato a far da sfondo, boschi di larici a perdita d'occhio ed il rumore costante del torrente che ci accompagna. Poca gente. Si sale, sbagliamo sentiero solo una volta e ci viene in aiuto un turista tedesco stupito che lui ha, come ci ha detto, "una cartina italiana" e noi no. Ma lui ignora che noi, sul Bianco, ci siamo andati con l'orientamento dato dalla "carta dei vini del Piemonte e della Valle d'aosta" nello zaino, non capisce che alla fine è meglio così, è meglio ridere, perdersi e ritrovare nuovamente la strada senza la noiosità di programmi troppo precisi.  

 Lo zaino è più pesante del solito, forse ho esagerato, prima di uscire di casa mi son pesato, ho un extra addosso di oltre 25 kg. Ma è una di "quelle volte". Perché noi, quelle volte che dobbiamo fare gli alpinisti seri allora ci si carica solo dello stretto indispensabile, perché il peso si sa, in montagna è fondamentale, le distanze e la fatica stremano, si dosano le razioni ed eventualmente si pensa a portarsi un moschettone in più. Poi però ci sono le volte speciali. Quelle in cui, per un'occasione particolare, un compleanno, una ricorrenza qualsiasi o anche solo la voglia di divertirci un po' più del normale si porta su ogni ben di Dio. Ho visto confezioni intere di Crodini da 12 uscire da zaini ricolmi, polli arrosti ancora fumanti, formaggi e salumi in quantità e varietà tale da poter aprire un negozio tra le vette. Per la verità ho visto una volta anche una pianola elettrica di tutto rispetto, per un concerto piano e quattro voci improvvisato sù, sulla cima di una montagna con un'eco che neanche all'Arena di Verona, alle 10 di sera (che per gli alpinisti seri equivale alle tre di notte delle persone normali), quella volta che con le pile, dal Gastaldi sono usciti per venire a cercarci e suonarcele loro, di santa ragione (era la famosa volta al Gastaldi), ma questa è un'altra storia. Ricordo chi aveva riempito talmente lo zaino da dimenticarsi di metterci gli scarponi e ha percorso un ghiacciaio con i ramponi calzati sulle scarpe da ginnastica, riducendone alla fine le suole, in tante striscioline sottili. Non si creda che siamo degli stolti incoscienti, comunque. Cioè, forse sì ma solo un poco. La montagna sempre e comunque esige rispetto e quel pizzico di timore che non devi spegnere mai. Anche noi abbiamo qualcuno che non è più tornato giù, e questo non si dimentica. Renè ha uno dei suoi ricordi più tragici proprio qui, su questa montagna. 


Questa volta il mio zaino contiene tutto il necessaire per l'aperitivo in quota - Bacardi breezer, noccioline, patatine varie, salse messicane - Una quantità particolarmente ricercata di salumi, un assortimento di birre, tre o quattro tipi di formaggi e come dolce un bùnet veramente spettacolare. 
Renè è Daniele non erano da meno, con il risultato che avevamo da bere e da mangiare per una ventina circa di persone. Per tutto il necessario invece ci siamo divisi equamente i compiti: per il tè, ad esempio lui ha portato il fornelletto la bombola ed il pentolino, mentre io ho provveduto alle bustine e allo zucchero.... beh anche all'acqua ed ad un cucchiaino, che tre pesavan troppo. 

Il percorso da metà in su non è una passeggiata di salute, si devono attraversare torrenti, ci si aiuta con le corde fisse, peraltro fissate veramente male. I boschi gradatamente si allontanano, le rocce diventano sempre più vicine, il percorso ostico, si comincia ad aver bisogno anche delle mani. Compare la prima neve, poi il primo ghiaccio. E quando il cielo si colora di rosso arrivano a farci compagnia un paio di stambecchi, vicinissimi, tranquilli e curiosi, per nulla intimoriti. 
Stanno un po' fermi a guardarci, in bilico con una naturalezza che fa invidia ed a un certo punto, semplicemente spariscono e non li vedi più. Inganniamo il tempo parlando di montagne, di noi sulle montagne, delle nostre salite. Parliamo qualche volta di troppo degli incidenti che ci hanno segnato l'anima e Daniele ce lo fa rispettosamente notare, con ripetuti gesti scaramantici. Quattro ore dopo circa, arriviamo qui.  Sta facendo buio. Il bivacco risplende delle luci interne, e la cosa non ci piace. Avevamo sperato di averlo tutto per noi. Entriamo. Siamo in undici. Due italiani, sei francesi e noi, loro tutti praticamente già pronti per andare a riposare. Il nostro arrivo li risveglia dall'apatia. Sono tutti imbaccuccati come Ambrogio Fogar al polo, noi arriviamo in pantaloncini corti, riscaldati dalla salita. Ci guardano increduli, uno domanda addirittura se siamo attrezzati. Ho voglia di rispondergli che no, abitualmente vado al mare a Riccione, ma non serve, dopo un paio di battute capisce. Il nostro show lo facciamo in sordina, non possiamo proprio disturbare più del dovuto. Certo, osservando tutte le cibarie tirate fuori dagli zaini qualche risata gli scappa, anche a tre degli alpinisti francesi, i più distaccati. Ci facciamo amici invece i due italiani non più giovanissimi, che hanno i letti vicini alle panche per cenare e che sono costretti da noi a riposare con la luce accesa. Ce li compriamo passandogli ogni tanto qualche genere di conforto - un pezzetto di salame, un bicchierino di limoncello, un bacio di dama - sono sorpresi alla vista di tutto quel ben di Dio. Si ride, piano, ma si ride. Stiamo bene. Isolati dal mondo. In questo guscio giallo del bivacco, intorno la notte più nera, il vento soffia che sembra voglia scardinare le lamiere. Dopo un pò esco. Ho voglia di guardare la notte, le stelle, il buio e farne improvvisamente parte. Ma il vento è così forte e freddo che toglie il fiato e piega in due. Rientro quasi subito con i brividi addosso. Ci prova Renè e ottiene lo stesso effetto. Saremo una decina di gradi sotto lo zero. Alle 22 siamo già a dormire, Renè è di fianco a me. Mi rifiuto categoricamente di dargli il bacino della buona notte. Proviamo a chiudere gli occhi, ma alla fine dormiremo poco. Non c'è riscaldamento ovviamente, il riscaldamento siamo noi. Il vento ha una violenza inaudita, ulula e precipita in folate rabbiose, si abbatte scuotendo le pareti, dà colpi secchi alle porte. Le correnti d'aria entrano comunque, spifferi gelidi si diffondono sotto le coperte. Le ore passano lentissime. Ci si gira, si cerca una posizione per provare a dormire, lì vicini a persone che non conosci e che come te non riescono a chiudere occhio, li senti. A tratti qualcuno russa,ma dura poco, il vento lo sveglia di nuovo. Verso le due circa la mia coperta mi scivola e finisce a quelli di sotto. Provo a rubare quella di Renè, ma ci si è avvolto come una mummia, impossibile. Rimarrò con il pile e le mani in tasca, tremando ogni tanto, ogni centimetro di pelle nuda viene attaccato dal vento gelido di fuori. 

Appena comincia a far chiaro siamo tutti in piedi, di cattivo umore. La temperatura è ancora bassa, ma è il vento che rende rischioso salire. Attendiamo, facciamo fuori qualche provvista. Intorno alle 7 arrivano da sotto due duri e puri, zaino piccolo, passo deciso. Saranno partiti alle quattro con il buio. Si fermano due minuti, parlottano, ci confermano che c'è troppa neve per tentare di salire senza ramponi e poi via, verso la cima. Dopo un attimo non li vediamo già più.
Un'ora dopo ci mettiamo in marcia anche noi. I francesi sono partiti mezz'ora prima, preceduti dai due italiani che abbiamo capito essere degli habituè di queste parti. I francesi tenteranno la cima, gli italiani probabilmente no, andranno al Quintino Sella, dipenderà dal vento. 
Daniele non ci accompagna, preferisce lasciare a noi l'onore. Rimarrà a riposare ed a fare fotografie. Lo riprenderemo al ritorno. 
Il freddo è intenso ma siamo ben attrezzati, gli zaini questa volta son leggerissimi, il passo è spedito. 
Il vento comincia a darci tregua, ma quando arriva sono rasoiate di ghiaccio che fan male. 
Si sale. Il tracciato è ben segnato. Il cielo non ha una nuvola, il ghiaccio riempie ogni fessura, increspa ogni specchio d'acqua, Nel frattempo arriva il sole, insidia le ombre delle cime sulle pareti opposte che pian piano si accorciano lasciando il posto al bianco abbacinante della neve, su un cielo blu scuro. 
Salire diventa improvvisamente una delizia, fresco e vitale. L'altitudine non toglie tanto fiato, stiamo bene. In breve raggiungiamo la quota dove la neve la fa da padrona, vediamo i francesi che abbiamo quasi raggiunto e scorgiamo da lontano il bivacco Andreotti

Ci rendiamo conto che non potremmo proprio andare oltre, lo strato di neve non permette di proseguire senza ramponi, rischiare così non ha veramente senso. Decidiamo che nostra salita terminerà qui. Una breve sosta al bivacco, ci riposiamo, per poi prepararci senza rimpianti a ripercorrere i nostri passi. 
Lo sguardo spazia intorno e si perde, Il blu scuro del cielo, il risplendere della neve, le montagne lontane abbracciate a cerchio, una catena e dietro un'altra e poi dietro un'altra ancora, la pianura fumosa di smog in lontananza. 

Le rocce plasmate da mani di giganti, i segni dei tuoi passi nella neve che diventano una traccia lontana, l'aria così fresca che solo quassù, il caldo del sole sul viso, il silenzio perché anche i suoni si propagano in modo diverso, più netto e distaccato. 
Lontano, distantissimo appare il mondo, laggiù tra la nebbia, e l'essere improvvisamente separati dalle cose, le grane, i problemi da una sensazione di equilibrio e di quiete.  
Prima di prepararci per la discesa osserviamo il gruppo dei francesi iniziare la salita senza legarsi in cordata. 
Noi due invece torniamo giù in fretta, ci ricongiungiamo con Daniele, un pasto sereno per eliminare quanto più possibile il peso in eccesso dagli zaini e poi di nuovo giù per il ritorno. Un'infiammazione a un legamento del ginocchio  trasformerà poi la mia discesa in un incubo e dopo troppe ore di agonia, assistito da Renè tramutatosi in amorevole infermiera, arriveremo finalmente alla macchina.
Sapremo poi, solamente il giorno successivo dai giornali, tornati alla nostra vita di sempre, che uno degli alpinisti francesi che abbiamo osservato allontanarsi, poi, proprio in questo stesso punto perderà la vita, sulla via del ritorno, scivolando sulla neve e fermandosi giù, sulle rocce sottostanti.

Perché non è uno scherzo, qui. Mai. 
Ma non vedo comunque  l'ora che arrivi la mia prossima volta.

lunedì 24 settembre 2012

La Brutta Bestia [seconda parte]



Continua da qui
Il segnale inconfondibile del messaggio in arrivo sul cellulare, dal piano di sotto. 
Lei si drizza su ed il livello passa immediatamente a livello C, sottosezione "allerta - colpo in canna".
"Chi è che ti manda i messaggi a quest'ora?" domanda.
"Non lo so, il telefono è sotto, ed io non ho la vista a raggi x", rispondo.
"Beh, che aspetti, vai a prenderlo, se ti mandano messaggi in piena notte magari è importante", suggerisce maligna.
Mi alzo di malavoglia e vado sotto. Non abito nella reggia di Versailles, devo fare si e no una ventina di metri tra andare e tornare, compresa una rampa di scale. Riesce a domandarmi "e allora eh? Chi era?" almeno quattro volte, prima che raggiunga il cellulare.
Il messaggio proviene da un numero sconosciuto. Lo devo leggere, ovviamente non posso esimermi dal non farlo ad alta voce. Potrei inventare e far finta di leggere "Vodafone servizio gratuito...", ma sarebbe peggio, considerato che ho il contratto con Tim. 
Ed a distanza di anni me lo ricordo ancora a memoria.

"Serata strana. Tu non hai idea dei pensieri che mi frullano in testa".
....
Me li ricordo ancora benissimo, quei dieci interminabili secondi di silenzio assoluto, prima dello scoppio della tempesta perfetta, l'Apocalisse.

Esplode. Dallo stato di piccola nana rossa, che è la sua condizione normale (almeno è così che la chiamo), passa in un lampo a quella di Supernova. Il contatore Geiger del tono di voce schizza a livello F in un lampo e poi va ancora su, su, su, fino a che l'ago impazzito spacca il vetro e si conficca nel muro alle mie spalle, sfiorandomi la giugulare.
Urla come un derviscio che si avventa sul nemico, si mette in piedi sul letto (ma non si nota quasi la differenza) mi insulta di brutto, ha gli occhi iniettati di odio, mi dice lo sapevo, sei un bastardodisgraziatocriminaleporcoesporcotraditore, riesce a parlare ed a tirar fuori una sequela di insulti fittissimi senza riprender fiato tanto che temo possa venirgli una sincope, se la prende con Tizia che insidia i mariti altrui e sulla nostra liason che finalmente viene smascherata, è furiosa, isterica. Io cerco invano di placarla, di calmarla, di farla ragionare, non può essere lei, sragioni, è un numero sconosciuto, non è quello di Tizia, che ho in agenda, e non è che uno va a casa all'una di notte e come niente si può fare un numero nuovo solo per parlare con uno, anche se figo come me. Lei ribatte che allora Tizia sta usando di sicuro il telefono del marito, ma io ho anche il suo numero, e non è possibile, anche perché il suddetto marito, di professione idraulico, ha in dotazione due consistenti bicipiti e la chiave del 36 che, se solo mai sospettasse mi dessi da fare con la sua di lui metà, potrebbe adoperare su di me in maniera non estremamente gradevole.
Tento di ricondurla a limiti ragionevoli, le dico di finirla di urlare che avremmo già svegliato mezza Bucodiculoplace, di aspettare un attimo, di farmi capire, ma lei niente: provo anche a mandare un messaggio, in sua presenza al numero sconosciuto chiedendo "chi sei" , ma dall'altra parte mi giunge in risposta solo un laconico
 "boh, non so nemmeno più io chi sono"
E questo la fa solo più incazzare e aggiunge strilli e urla "e lo vedi che è lei" e urlo anch'io per calmarla, ma lei continua inviperita "elovedichehoragionemaioVirovino, è lei e l'ho sempre sospettato che sei un bastardodisgraziatocriminaleporcoesporcotraditore, solo che adesso, finalmente c'ho le prove".
Compare la piccola, in pigiama, l'aria addormentata ed il passo incerto, svegliata di soprassalto da tutte quelle urla,  gli strepiti, i colpi sul letto. Porta da una parte un cuscino e dall'altra una bracciata di peluches stretti, una decina circa, lo stretto indispensabile in caso di fuga improvvisa per grave calamità naturale. Le manca l'elmetto di emergenza. Sospetta un terremoto, uno tsunami, un'alluvione. Ci guarda stupefatta, sua madre in pigiama, scarmigliata e isterica in piedi sul letto, suo padre mezzo svestito e vagamente barcollante con il cellulare in mano alle due di notte. Non si scompone. Noi la guardiamo, ci fermiamo in silenzio.
Lei non ci chiede neanche se siamo impazziti, non serve, è convinta di sì.
Ci dice soltanto, in tono accusatorio: "ma lo sapete che mi avete svegliato? Me e forse tutto il paese?" 
Io le chiedo scusa. Ha ragione, e senza rimpianti abbandono il campo di battaglia. E per riuscire a far riposare almeno i vicini le propongo di tornare insieme a dormire nel suo letto. E nonostante i ringhi e tutti i brontolii sommessi provenienti dalla stanza di fianco, con le parole della mia piccola "stai tranquillo, la mamma è un po' matta, ma non è cattiva", e le sue mani tra le mie, nella sua stanza con le stelle che luccicano sul soffitto, finalmente ci addormentiamo.
La mattina successiva ho il primo appuntamento fuori studio. Mentre mi muovo in auto ho un illuminazione. Telefono da noi. Mi risponde proprio Tizia. 
"Scusa Tizia, ma E., il nostro collaboratore che è andato via, ci ha per caso lasciato il suo numero nuovo? Sì? me lo mandi, per favore? Grazie".
Mi arriva l'SMS. Lo confronto. E' proprio lui, lo stesso di questa notte. E' lui che, la sera prima, alla cena insieme a noi, era stato così bene che, ripensandoci, nonostante con il nuovo lavoro andasse a guadagnare molto di più ed a lavorare molto di meno, era sinceramente dispiaciuto di abbandonarci, tanto da non essere più sicuro delle sue scelte e da mandarmi i messaggi in pena notte. Compongo il numero.
E.: "Sì?"
D&R: "E.? Sei tu? Ma la sai una cosa?"
E.: "No, che cosa?"
D&R: "Te lo ricordi quanto è gelosa mia moglie?
E.: "Miiii, Certo che lo so.... e allora?"
D&R: "E allora... Ma sarai stronzo?!??!!" 

martedì 18 settembre 2012

La brutta bestia

Così dicono di lei. E quando intendo Lei non pensate male, non mi sto riferendo alla mordace consorte, che casomai rientra nella categoria degli "animali di piccola taglia". Un po' come quei cagnetti che abbaiano sempre e sempre mostrano i denti: non feroci, no, ma estremamente rompicoglioni.
La brutta bestia a cui accennavo è la gelosia, di cui la consorte pare permeata, inzuppata come un savoiardo nel caffellatte. 

Dico sempre che le sue malefatte sono state così tante e così tanto varie che potrei tranquillamente scriverne un libro. Tale libro lo utilizzerei eventualmente a mia difesa, nel momento in cui qualcuno, lavorando casualmente con il martello demolitore nel pavimento del garage, ne rinvenisse in futuro i miseri resti. Tanto sarò già all'Avana, tra fiumi di rum e donne scandalosamente giovani e pertanto chemmefrega. 

Tempo fa ero in un bar a nutrire l'affamata schiera del popolo di studio e ne stavo rievocando un aneddoto, accaduto qualche anno prima. Sospetto che tutta l'ilarità suscitata, (un pò come accade al Berlusca e le sue barzellette durante i comizi elettorali) sia stata in parte dovuta al fatto che la mia mano verghi gentili autografi sugli assegni delle loro buste paga, ma alla fine le risate erano così tante che da un lato ci hanno gentilmente quasi cacciato dal locale e dall'altro mi han fatto pensare che, di questa storia potrei benissimo farne parte anche a voi. 
La premessa è la solita. Non invento niente, al limite infiocchetto, ma è vero in tutto, tranne quando faccio parlare il gatto. Se credete anche a quello allora avete dei problemi. 

Era la vigilia di Natale di tre anni fa. Una cena di studio, con tutti, soci e collaboratori. Una cena particolarmente sentita perché in quella ci accompagnava, per l'ultima volta E., un nostro collaboratore storico, un amico che, dopo circa dieci anni trascorsi sempre insieme, dall'anno successivo sarebbe andato a lavorare da un'altra parte.
Abbaiamo trascorso una serata veramente piacevole. Buon cibo, buon vino ed una buona compagnia han fatto sì che il tempo passasse veloce, tra risate, e attimi di leggera commozione. Il nostro amico che era in procinto di lasciarci aveva gli occhi più lucidi di tutti. Alla fine ci salutiamo e ci dirigiamo ognuno a casa nostra. Tra le persone di studio ci sono anche due ragazze che abitano lungo la strada che faccio per andare a Bucodiculoplace e, considerato che si mormora abbiano l'abitudine di bere smodatamente e che soprattutto non sono automunite, mi offro cavallerescamente di riportarle a casa. Le chiamerò, per rispetto della privacy, Tizia e Sempronia. Su Tizia (esclusivamente per questioni di ordine cronologico) si stanno concentrando ultimamente gli strali della gelosia della consorte. E Tizia, tra le due, è ovviamente quella più vicina a casa mia. 

Accompagno pertanto Sempronia a casa, la salutiamo, accompagno Tizia a casa, saluto anche lei, e di lì in capo a dieci minuti, senza il minimo sbaffo di rossetto sulla camicia o un capo di biancheria intima femminile che sbuca dalla tasca della giacca son lì, fischiettante e sereno, diversamente sobrio ma solo il giusto, con lo sguardo da maritino angelico d'ordinanza che risalgo le scale di casa. E' circa l'una e mezza di notte. 

Lo so perché le lancette del mio orologio, per il gelo come nella scena di The day after tomorrow, sono rimaste bloccate per sempre.

Salendo dalla zona giorno alla zona notte avverto una strana, inquietante tensione nell'aria. Un ronzio sommesso e persistente, come quando passi sotto i cavi dell'alta tensione ed a noi maschietti si drizzano i peli sulle braccia. La luce dell'abat-jour della camera da letto è ancora accesa, la gatta sguscia via silenziosa con le orecchie bassissime, e con gli occhi ed un eloquente gesto delle zampe mi suggerisce che non è proprio aria. La consorte è nel letto, seduta a mezzobusto, con le braccia conserte che mi attende fissandomi con occhi ardenti. La prima impressione che mi dà mi ricorda Linda Blair nell'Esorcista. 
La saluto allegramente, sono di ottimo umore e mi stupisco di trovarla ancora sveglia.
Lei comincia a parlare con la voce livello "D quasi E" del repertorio delle voci della Consorte. Il repertorio delle voci della consorte comprende, in crescendo, tutte le sfumature dal livello "A" alla "F", dove il primo è quello a cui corrispondono toni amorevoli e passionali (non lo usa dall'86, me lo ricordo perché l'avevo registrato ancora su cassetta C60) mentre Il livello "F" l'hanno sentito una volta a New Orleans e mi han confessato che l'uragano Katrina in fondo era stato meglio. 
Il livello D ha un tono di voce leggermente acuto, tagliente e sarcastico, vagamente sinistro, con la parlata veloce ed interrotta di frequente da "eh già" velocissimi che mi ricorda le telefonate in VOIP quando l'ADSL fa le bizze. E' già furibonda ed io al momento non ho ancora capito il perché. Ho anche lucidato l'aureola apposta, prima di uscire. Forse è nascosta dai capelli.
Incomincia: "E allora eh? ti sarai divertito, immagino!" Inizia prendendola alla larga. "In effetti sì", ribatto cercando di buttarla sul faceto. "Pare che le serate passate a indossare il cilicio stando in ginocchio sui vetri ed ascoltando film originali in polacco siano passati terribilmente di moda. Pare che la gente abbia l'abitudine di cercare di star bene, ridere, scherzare, divertirsi". Ma la mia allegria non la contagia, anzi. Gli "èh già" ed i "si deve pure divertire, lui" si susseguono a ritmo serrato, infastidendomi. Badate, non voglio dire di essere un maritino perfetto, questo no. Spesso non sono gentile, non sono premuroso, non sono affabile: non saluto i vicini e faccio piangere anche i bambini più piccoli (e anche questa, giuro, è proprio vera). Abito - la dizione più corretta sarebbe "dormo" - in un paese (il suo di lei), di emmenthal dove brucerei almeno metà della popolazione accanendomi in particolare modo su alcuni folcloristici componenti della di lei famiglia e tutte queste cose gliele ripeto pure spesso. Ho un lavoro mio, che mi da tanto ma che come contropartita mi fa stare lontano da loro tutto il giorno, senza orari, e nonostante tutto non voglio rinunciare, per sopravvivere, a cose egoisticamente solo mie come correre ed arrampicare, quando posso, quando proprio non riesco farne a meno. Ma a parte questo basta. Tre, quattro uscite all'anno tra uomini sono ciò che mi concedo, semplicemente perché mi va bene così, perché è giusto così, perché casa dovrebbe voler dire che si lascia tutto fuori, trovando dentro la tranquillità, il calore e l'affetto delle persone a cui vuoi bene, che ti vogliono bene.  
Sono stanco, a quest'ora, per litigare senza senso. Non me lo merito, non ho voglia di fomentare le sue paranoie, e neanche di iniziare una discussione sterile: "Sì, una bella serata, infatti, siamo stati bene", rispondo spogliandomi. Si informa su chi c'era, evidenziando con sorrisetti e mormorii (se c'è una cosa che mi fa .....zzare sono i mormorii che non capisci cosa ha detto ma che SAI che era un qualcosa a contenuto altamente dispregiativo).
"Immagino che Tizia ti sia stata seduta vicina, a cena"
"Si," ribatto io " principalmente per due motivi. Il primo è che in quanto ad organico non siamo la FIAT, quindi stiamo tutti tranquillamente intorno ad un tavolo. Ed il secondo è che siamo in inverno, non potevo certo farla cenare da sola nel dehor". 
"Comunque ti era seduta vicina, o di fronte, vero?" (la consorte a mente non sa fare 8+13 però riesce a calcolare in una frazione di secondo tutte le combinazioni possibili della posizione delle persone intorno ad un tavolo rettangolare per sapere che se sono in mezzo alla tavolata, sono praticamente spacciato). 
"No, proprio vicino non c'era posto. Allora, per farla contenta, l'ho tenuta sulle ginocchia, fino a che mi si sono addormentate le gambe".
"Fa anche il cretino lui"
"Considerato che ti ho portato all'altare rivendico il fatto che non faccio il cretino, io sono cretino" cerco di sdrammatizzare.
"E poi, eh? Scommetto che le avrai portate a casa tu, vero?"
"Sai, in verità abbiamo messo dei foglietti in un cappello ed abbiamo estratto a sorte per vedere a chi mai poteva capitare questa insperata fortuna. Ha vinto Caio, sai l'architetto che abita in direzione opposta alle magioni delle due fanciulle. Lui però, sebbene entusiasta, girando in bici anche d'inverno aveva qualche difficoltà a trasportarle entrambe. Allora ha messo all'asta a malincuore la sua vincita e me la sono aggiudicata io per un milione di Euro. Dici che ho speso troppo?

Lei ignora le mie battute. "E immagino che avrai accompagnato per ultima Tizia, c'è da giurarci, vero?"  allude, acida. 
"Considerato, mio buon vecchio Watson, che la suddetta Tizia è la più vicina alla nostra avita magione mi compiaccio per l'arguta deduzione, MA" - alzando l'indice per  richiedere attenzione - "in realtà sbaglia, perchè l'ho accompagnata per prima. Arrivati sotto casa sua le ho, travolti da irrefrenabile passione, dato due gentili colpetti sul sedile posteriore dell'auto, in maniera che Sempronia osservasse e potesse prendere appunti. Scaricata la prima pulzella ho girato la macchina e son ritornato verso Torino, per lasciare la stessa Sempronia, la quale a sua volta, poverina, pretendeva di mettere in atto gli appunti diligentemente presi. Infine ho fatto per la terza volta dietro front e mi sono diretto a casa. Totale 540 km per due sveltine". Poi, guardandola fissa  e cercando di farle capire l'assurdità delle allusioni "certo che l'ho lasciata per ultima, è la più vicina a casa nostra, non credi?".

L'insensatezza dei suoi ragionamenti diventa finalmente manifesta persino a lei. 
"Sono due persone normali, da accompagnare a casa, punto. E non mi costa nulla farlo. E sei ridicola. E Tizia poi oltretutto ha anche un marito." 
"Non vuol dir nulla" tenta un'ultima, strenua difesa. Ma ha perso di mordente, non ci crede più fino in fondo. Il livello passa gradatamente da D al C. La gatta, che mi aveva già preparato un giaciglio di fortuna vicino alla lettiera, dal bagno sento che sussurra "Te la sei cavata, non ci avrei scommesso la mia ciotola di croccantini, stasera" (ecco, questa è la parte a cui non dovete credere).

Sto per mettermi a letto, lei ancora rimbrotta qualcosa tra sè e sè, ma se essere gelosi è un'arte lei è il Michelangelo della gelosia, e non ce la fa proprio a finirla così. 
Stiamo per abbandonare anche il livello C. Mi rilasso.

E lì sta l'errore. Perché non è che abbia seguito un corso al CEPU, per diventare così, lei è una professionista, è campionessa mondiale in carica, docente di gelosia applicata. Fa solamente finta di abbassare la guardia, scarta ed aspetta la tua prossima mossa. E con lei devi rimanere sempre sul pezzo. Nonostante tutto fai ancora gli stessi stupidi errori. Basta un niente. Basta che tu ti dimentichi, ad esempio, di spegnere il cellulare, o mettere il silenzioso. Ma il cellulare tu, non lo spegni mai. E questo, la sfiga, la tua personalissima nuvoletta nera che ti segue fedele da quando eri in fasce, lo sa. 

Ed è proprio in quei piccoli istanti di pace, quando ormai pensi, d'accordo con la gatta, di essertela ancora una volta svangata, che accade l'irreparabile......
[...continua.]

mercoledì 12 settembre 2012

Domani

Si va. Un'altra cima, finalmente, mi aspetta. Io e Renè, una cordata veloce. 
Una notte in bivacco, la quiete del mondo che si addormenta giù in basso, i rumori della montagna che invece non dorme mai, le stelle che incantano, per la loro lucentezza. E' tutto così lontano lassù, sarà tutto così lontano, da lassù, domani notte.  
Il tè che te lo fai con la neve sciolta. La fiamma azzurrognola del fornellino e le ombre che proietta nel buio.
La sveglia all'alba ma chi dorme, in realtà. I primi passi al buio. E la cima che quando sei lassù scopri sempre che ne è valsa la pena.
L'attrezzatura è già in ordine, pronta da mettere nello zaino.
La lampada frontale tra le mani, ieri, di nuovo dopo tutto questo tempo, mi ha dato una sensazione di ritorno alle cose che amo senza misure. 
E questa spilla, che mi aveva regalato lui, che nessuno ce l'ha una spilla così, che mi ha accompagnato su ogni montagna che ho salito. Offritemi qualsiasi cifra, per questa spilla.
Ho fame.

Vi racconterò.

domenica 9 settembre 2012

Mattina presto

Torino, un tram intero tutto per me, il chiarore che nasce, i viali alberati che scorrono veloci ai lati, gli edifici aggraziati e desolati, questa musica nelle orecchie. 
La mia città, a volte, nei momenti più inaspettati è un regalo, ad attraversarla così.

venerdì 7 settembre 2012

Quello che non c''è

Non c'è un senso, il più delle volte, In queste parole (e questo è da mò che l'abbiamo capito, penserete voi).
Non c'è un'idea, un percorso, una scelta ordinata - nome predicato verbale complemento oggetto. Mi programmo raramente. Può anche succedere però - Ho vissuto da poco momenti che mi han lasciato segni nel sangue e nelle braccia e di cui vorrò scrivere, ma l'acqua è ancora troppo torbida, han bisogno di sedimentare e depositarsi sul fondo - dicevo, può anche succedere qualche volta, che ci sia un qualcosa di preciso, una frase, sospiro, un accadimento che mi porti qui, nel rifugio di questa finta lavagna che piano piano si allunga e si colora di lettere. Ma quando questo manca, quando senti solo quella voglia, che è un brivido piccolo di piacere, quel sottile pizzico nelle pieghe tra le dita che riconosci e che ti fa comparire  quell'inizio di sorriso che riconosci, quando ti basta una piccola spinta per andare, via, la bici in discesa a vedere dove andrai a finire e quanto tempo rimarrai così, in equilibrio, senza pedalare né frenare, a staccar le mani dal manubrio con l'aria sulla faccia e i capelli che si ribellano al vento, beh, allora incominci e scrivi. 
E scrivi non c'è. E poi ci metti quello che raccogli man mano, che vedi o immagini o senti, quello che magari ancora non sai, ma che sai che arriverà, basta non  chiedersi cosa. Basta non aver pretese. Attendere. Questo lo so fare.
Non c'è particolare tristezza, né particolare allegria. Non c'è un modo di stare, di sentirsi, di essere. 
C'è invece un profumo di erba bagnata, che entra morbido e dolce da fuori. C'è una luce del giorno che pian piano sfiorisce, si attenua e sfuma i colori attraverso le tante finestre di qui, e lo studio che gradatamente perde di forma e diventa ombre e contorni, ed il cono di luce della lampadina che invece aumenta di forza ad rischiarare questa scrivania, con su i fogli malamente impilati e le matite e il disordine mischiato alle cose a cui tengo che sono mie e di nessun altro, un diamante al sicuro nel tappo di una bottiglia, una pietra blu dalle mille sfumature ed un post-it con su disegnato un cuore con i punti esclamativi. Un pupazzo con un tappo di sughero, gli stecchini e la carta da cucina sorride e racconta solo di quanto amore. 
Le foglie della vite invadente che spiano attraverso la porta, i rami del pino spioventi che dondolano, l'aria che entra fresca,i rumori del traffico sulla strada, la moto sbilenca che attende che andiamo insieme a prenderci un po' in giro.
Esci fuori. Stampata nel cielo, mezza luna di fuori, grande e gialla, osserva sporchi colombi riposare a piccoli gruppi sulle grondaie di queste file di tetti rossi; curiosa, sbilenca e discreta nelle vite degli altri dalle finestre socchiuse, dietro tende gialline a fiori. 
Accarezzi le piccole spighe nate dall'erba, te ne rimane il profumo tra le palme e la manciata di minuscoli semi che raccogli nel pugno, le rose riposano, le ortensie seccate attendono invano di essere raccolte. C'è una strana pace, come di quieta attesa, o rassegnazione, non so. 
E senti folate improvvise di cosa invece non c'è. Silenzio di graffi, non ci sono stelle, le stelle son lontane, distanti anni luce da qua che non basta una vita a raggiungerle, i sogni stessi son lontani, indistinti, il mondo potrebbe essere una proiezione su uno schermo rattoppato che tiri via e dietro ti appare la vita cruda com'è che ti dice svegliati ed arrenditi una buona volta, il mondo altro non sono che poche parole che raccogli come ciliegie mature e metti qua, le parole sono la bocca e fiato e labbra che si aprono, e gli occhi e i capelli e le mani che si muovono  a raccogliere una ciocca impertinente, i gesti che fai che riconosco, il suono della voce e il mondo, che quando senti il suono della voce il mondo cambia ancora e che adesso non c'è, magari il mondo, ti rimane come ultimo pensiero prima di chiudere la porta e lasciare fuori la luna guardare i colombi, che dormono, la testa nascosta di dentro e ci sono volte che a nascondere la testa di dentro sarebbe tutto così comodo.

E ieri osservavo di me, nuove, le pieghe lunghe e scavate ai lati della bocca. Mi han sorpreso. Parlano di me più di quanto mi aspettassi, della mia ostinazione, delle mie battaglie e delle mie troppe sconfitte. Ho l'aria stanca. 
Ho anche incominciato a stufarmi di tutti questi capelli lunghi.

E ci sono tutte queste cose che trovi e raccogli, quando senti, forte, più forte del solito, quello che non c'è.