venerdì 31 maggio 2013

Ehi voi

Che a quest'ora sicuramente ancora poltrite nei vostri comodi letti. 
Qui si corre. 
Sappiàtelo.

sabato 18 maggio 2013

Sorge dal mare

Il sole sorge dal mare, in questo mare che di giorno è un'immane distesa colore del fango.
Strano per me, questo brillare di luce tagliente che invade prepotente la mia camera d'albergo, la mattina presto. Strano per me, che il mio sguardo non ha abitudine a spaziare così in questa maniera, io che ho un mare diverso stampato nel fondo degli occhi e di quel mare ho preso forse il suo stesso animo, un animo che calmo non riesce a stare più di tanto. Questo mare liscio di qui non respira fremente di forza sotto la pelle delle onde, non ha ansie ed anse e scogliere ruvide al tatto a nasconderne la vista, non ha quel sapore tra i denti e quel colore blu profondo ed il rumore incessante di sassi che si rincorrono nella risacca, onda dietro onda. 
Strana per me questa lama fredda e luccicante, che nel mio mare invece il sole ci si immerge dentro la sera, caldo sulla pelle delle braccia, mentre il cielo esplode di rosso e si allaga di riflessi profondi.
E strano è stato anche questo viaggio, che non so, ma nella logica delle cose è candidato per essere forse l'ultimo per la mia auto, che ogni volta che dico quanti chilometri abbiamo percorso insieme tutti strabuzzano sempre gli occhi, e per la prima volta nella sua vita ha fatto un viaggio rispettando giocoforza - e di molto anche - ogni limite di velocità. Una due giorni intensa di aggiornamento tecnico, insieme a tanti che fanno più o meno il mio stesso mestiere. Ed una cena di gala a cui non ho volutamente partecipato, perché, per una volta, avevo di meglio da fare, per me stesso e basta, il mondo ogni tanto si fotta pure. Ritrovarmi nelle mie scarpe e nei miei passi veloci, su di una strada di pensieri tutta da inventare, con le mie note di sempre nelle orecchie, annusando sogni che proprio non mi riesce di smettere di sognare. Ed è stato facile rincontrare i gesti delle mie dita che fanno il doppio nodo alle stringhe,  i primi passi e poi via, il resto è un marciapiede che si srotola troppo piano, sprazzi di luce dei lampioni che ti vengono incontro e si perdono indistinti alle spalle, le poche coppie che si spostano per lasciarti passare, un cane che sembra indeciso se annusarti al passaggio o tentare l'addentata al volo del polpaccio, il buio nero della distesa liquida dietro alle cabine scrostate che si contrappone alla fila disordinata degli hotel scintillanti di luci, dalla parte opposta della strada.
Sono qui. Sono qui ancora.

E poi, se ci pensi bene, non è così strano trovarmi di nuovo su questa passeggiata, alle sei del mattino del giorno successivo. Allacciarmi con cura le scarpe, indossare il cappellino del CUS che mi ha dato la mia Ciccia (gliene avevano regalati due e lei mi ha gentilmente concesso quello che mi piaceva di più), far partire il conto alla rovescia di Endomondo fino al fatidico "libera le endorfine" ed ecco che i primi passi elastici di corsa sono già alle spalle, ritrovando un'abitudine, forse, nonostante le grane e ogni fiato amaro di questi ultimi tempi.
Sono qui, sono qui ancora. E sono io.
Io con i miei occhiali scuri ed i capelli che ondeggiano ad ogni passo. Io ed il fiato dei polmoni che esce regolare. Io e le mie scarpe che hanno buchi nuovi, ma di cambiarle non è di sicuro arrivato ancora il momento, io e questa strada con le panchine che sembrano barche, e quest'alba che s'intensifica lieve, il traffico rado, le poche persone che puliscono la spiaggia, le piattaforme in equilibrio sul filo dell'orizzonte e queste onde che accarezzano la spiaggia. Io ed i miei sogni e le mie contraddizioni, che con gli ultimi non ho ancora imparato a conviverci ed i primi ho imparato a sognarli troppo tempo fa, ma no, mi rendo conto che non ho ancora smesso, se bastano quattro passi veloci e me li ritrovo tutti quanti qui, a spingermi in avanti.
I chilometri mi vengono incontro con troppa lentezza e passano oltre, incontro pochi runner che mi fanno vergognare del mio avanzare ma va già bene che non sia finito sotto una tenda ad ossigeno, le gambe si fanno sentire imprecando.

Poche impronte, su questa lingua di sabbia dura e conchiglie, se la mia Ciccia fosse qui con me a quest'ora  invece di correre saremmo tutti e due inginocchiati per terra a cercare la più grande e più bella, quella con i riflessi di madreperla, ridendo dei paguri che tentano di sottecchi sfuggire alla cattura riguadagnando la sicurezza delle onde. Lei, che sotto un cielo lontano a quest'ora sicuramente ancora dorme, lei che mentre penso ai suoi sogni  mi alleggerisce i passi, lei che mi dona sempre la forza di un sorriso. Il passo è un martello incessante, nonostante la fatica che aumenta la voglia non si esaurisce, era troppo tempo che non mi trovavo da solo con me ed avevo troppe cose da dirmi, troppe cose da ascoltare, troppi nodi da sciogliere, troppa musica da farmi fluire nelle gambe e nelle braccia, troppi sguardi da portare lontano, troppo vento da sentirmi addosso, troppi errori da ammettere, troppe domande ancora a cui devo saper dare delle risposte. E la strada ti dà ragione, ti asseconda e ti dice vai che ne ho quanta ne vuoi, passa nei muscoli delle gambe e nelle orme che lasci, in qualche strana maniera assorbe la rabbia, i pensieri sbagliati, quelli contorti e disperati, strappa i rovi spinosi e le erbacce liberando solo quelli puliti e limpidi, quelli per cui valga la pena di.

Un'ora dopo sono nuovamente ai piedi della fontana grande, quella con le reti da pesca. Il mio hotel è di proprio di fronte. Entro mentre la città inizia piano a svegliarsi con profumi fragranti di pane e caffè. L'addetto alla reception mi squadra di sottecchi, ma non me ne curo.
Il primo sorriso della giornata è tutto mio. E della mia Ciccia, che al telefono sveglio perché si prepari per andare a scuola.

Oggi non ho un muscolo che non mi faccia male. Ma va bene così.


mercoledì 8 maggio 2013

Dicono di me

che sbaglio. Che molto probabilmente ho bisogno di una sana vera vacanza - e probabilmente è vero, Dio solo sa da quanto tempo non mi fermo a respirare con fiati composti da respiri lunghi, misurando il tempo, ascoltando battiti regolari. Chissà da quand'è che non mi dico convinto andrà bene, che ogni pieno di gasolio non è un tracollo insanabile, che riesco a guardare questo posto qui e la sua gente senza avvertire un senso di angoscia che prende alla gola.
Dicono di me che prendo tutto troppo sul serio, che sono inflessibile e severo, sempre troppo al limite, che con me le cose o sono bianche o sono nere, e quando qualcuno non la pensa alla mia maniera per me è subito contro.
Intransigente. 
Certo è che ultimamente urlo parecchio. Urlo per un niente, urlo con le vene che, con una facilità disarmante mi si gonfiano sul collo, e con il tono di voce che va su in un lampo, senza quasi che possa far niente per evitarlo.
Urlo come forma di liberazione e ribellione ad ogni prevaricazione e stupidità anche se questo, ironia della sorte, mi fa sentire stupido, urlo perché non riesco a raddrizzare le cose, urlo perché magari non avrò altre valvole di sfogo, perché non ho costanza e tempo e forse neanche tutta questa voglia di rimettermi nuovamente a correre. Urlo perché mi sa che ho finito i sogni.

E me ne sono reso conto anche l'altro ieri di quanto sia diventato un perfetto idiota, là in quella piazza, con la mia voce amplificata dalle geometrie dei portici bassi che rimbalzava sulle pietre del selciato, tutti i miei  ringhiosi perDio tirati a denti stretti  e i passanti che guardavano di sottecchi la scena, sfilando via frettolosi. E mentre, tra me e me mi davo del discreto coglione, non riuscivo a comunque smettere, con ogni nuovo pensiero che era più furibondo del precedente, un mare oscuro in tempesta dove ogni ondata veniva subito sovrastata dalla successiva.  
E dire che, solamente due giorni prima,  in casa D&R era volato un piatto - coniglio alla ligure il suo contenuto. Uno scatto improvviso del polso da sotto in su e la stoviglia era decollata con eleganza dalla tovaglia roteando sul suo asse, descrivendo un'ardita parabola e rilasciando bocconcini di coniglio, olive e schizzi di sugo, piccoli gustosi missili che erano stati sparati tutto intorno. La gatta si era leccata i baffi.
Mia figlia invece si era messa subito a piangere. Mi sono ricomposto, ma che volete, il danno oramai era fatto. 
La sera, nel suo letto, mani nelle mani ed occhi negli occhi le avevo poi chiesto scusa, cercando di minimizzare, provando a scherzarci persino su e le avevo anche domandato perché mai si fosse messa a piangere. Lei mi aveva risposto che aveva avuto paura di me. 
Paura di me. 
Le ho chiesto se ricordasse che le avessi mai dato una sberla. Mi ha risposto che no, lo sapeva bene, nemmeno quella volta che aprendo di colpo la portiera della mia auto l'aveva mandata a sbattere contro la fiancata della macchina della consorte - tutte e due fresche di carrozziere - l'avevo mai toccata ("però anche quella volta lì mi avevi fatto paura, ma eri arrabbiato diverso"). Ma, guardandomi negli occhi che non sorridevano mi ha detto che quando sono così, quando ho gli occhi cattivi  non riesce a non avere paura di me.
Le ho promesso di cercare di lasciar correre. Le ho promesso di cercare di essere il suo solito papone che scherza e che ride e che se la porta sulle spalle la mattina quando la sveglia anche se è lunga quasi quanto me. Le ho promesso di raccontarle ancora storie la sera, e ci siamo detti che è proprio da tanto che non facciamo una bella conta dei peluches, di quelle che poi ci nascondiamo il gatto dentro. 
Sarò buono, promesso.

E son durato due giorni, proprio un bel record.
E dopo, quando tutto si era acquietato, quando ti senti improvvisamente così stanco da preferire il silenzio e  tenere gli occhi chiusi su tutto, era perfettamente inutile domandarle ancora una volta scusa. Ovviamente non era con lei che  ce l'avevo, ma lei era lì, insieme ad altri, in un'occasione di pseudo festa familiare. Chiunque dotato di un minimo di buonsenso avrebbe preferito lasciar correre.
Non aveva senso scusarsi, le ho parlato. Le ho detto con la voce bassa e disperata che non so. Che non so perché mi debba arrabbiare così, non so se non riesco a vedere chiaramente o meno le cose, non so più nemmeno distinguere se abbia ragione o torto e probabilmente sbaglio, sbaglio su tutto, sbaglio a vedere, sbaglio a capire, sbaglio ad urlare. 
La sua risposta mi ha lasciato senza forze. 
"Non so se sbagli papà - mi ha detto, con la sua voce più morbida - forse no, magari avevi ragione. Però dopo che hai urlato in quel modo mi sono sentita solo molto triste".

La Ciccia, tredici anni di meraviglioso donnino, non se lo merita proprio, uno così, che le fa paura e che la renda triste.
Non posso farle promesse che non so se riuscirò a mantenere. Non so quanta capacità io abbia, oggi di scuotermi di dosso il peso delle cose come si fa con la polvere di una strada terrosa dall'orlo dei jeans. Non ho occhi sereni, non ho orizzonti lontani. 

Non le ho detto "cambierò, promesso". Le ho detto che ci proverò. Che proverò ad ascoltare il suono del suo cuore, ad imprimermi bene in mente la morbidezza della sua mano quando stringe la mia, proverò a ricordarmi il colore dei suoi occhi, di nocciole e settembre. Proverò a provare. A cercare una soluzione  diversa, ad inventarmi una storia dalle forme delle nuvole, ad indovinare un arcobaleno, perché pare che accada proprio così, anche dopo la peggiore tempesta, se presti attenzione là in fondo, dove le nuvole si stracciano, guarda bene, che è lì che ti aspetta. 


On air: C. Cremonini: Dicono di me