venerdì 24 marzo 2017

E qualcosa rimane

tra le pagine bianche e le pagine scure.

Da ieri questa canzone mi gira in mente, senza aver voglia di uscire.

Ricordi.

Di me piccolo. Tu seduta alla panchina, i giardinetti vicino a casa, il sole, la terra smossa. Raccoglievo le formiche rosse e, facendo finta di abbracciarti, te le facevo scivolare nel collo. La farmacista, mezz'ora dopo che eri dovuta andare di corsa a farti vedere, mi aveva aspramente sgridato, ed io le avevo risposto tranquillamente che non potevano certo mangiarti tutta. 
Avevo tre, quattro anni.

Quante te ne ho combinate, e devo dire onestamente che tu non seri stata da meno. Ti ho tenuta sempre sul pezzo, pronta ad ogni evenienza che nemmeno un marine esperto in esplosivi. Come quella volta che mi hai beccato in piedi sul davanzale esterno della finestra di camera tua al quinto piano, che mi hai acchiappato al volo e poi sei andata a farti un cicchetto di grappa, alle quattro del pomeriggio. 

Hai sempre gestito la TUA vita e i TUOI figli con un cipiglio che al confronto la madre dei Gracchi aveva la grinta da commessa del reparto surgelati. Noi eravamo quasi di tua proprietà il "se ti ho fatto ti disfo", con te, non era una semplice frase ad effetto.

E me ne hai combinate, eccome se. Te la ricordi la volta dell'abete, anzi del TUO abete nel TUO giardino? Alto più di casa nostra e maestoso, con i rami bassi e lunghi a carezzare l'erba, ne avevi piantati tanti, insieme a tua mamma, nel giardino di quella casa dove sei nata, ho vecchie foto in cui io e loro erano alti uguali. Lui era cresciuto proprio bene ma era cresciuto troppo, era vicino a casa - getta troppa ombra, alle tre del pomeriggio mi costringe ad accendere la luce - ed avevi deciso di tagliarlo. Io mi ero opposto con tutte le mie forze, erano i pini su cui ho imparato ad arrampicarmi, non ne avevi il diritto e non si poteva farlo impunemente. Il tuo "è casa mia e faccio quello che voglio" era stata la tua risposta definitiva, l'accendiamo? E così, al successivo fine settimana , al posto di trenta metri di abete rimanevano dieci centimetri di tronco, trasformati in sottovaso per gerani. 
Non potevo perdonartela, così pochi giorni dopo ti aveva telefonato un mio amico, spacciatosi per ufficiale della forestale, che ti aveva accusato di aver tagliato un abete senza la necessaria autorizzazione. Al tuo "l'ho solo sfrondato un pochino" siamo scoppiati a ridere svelando lo scherzo, ma per un paio di settimane ho dovuto girarti alla larga.

La morte è una brutta cosa, è il respiro che è un rantolo, è la strumentazione che segue un cuore che non si rassegna a spegnersi, sono i tubi, le luci fredde e le infermiere che passano in silenzio. La morte non sei tu, che l'hai presa in giro troppe volte, che ci hai abituato a svangarla, anche quando i medici ci dicevano che non rimaneva altro che pregare.

Siamo stati i tuoi figli intesi come titolo di proprietà, cresciuti con il giusto rigore, mi sento ancora adesso così tanto figlio che mi stupisco di essere padre.
Da te ho ereditato l'amore per lo sci e la montagna, anche se non hai mai visto di buon occhio la mia passione per l'arrampicata.
Sei stata quella che ha insegnato a mia figlia a saltare nelle pozzanghere a piedi uniti, che quella volta là bagnate da far pena e schizzate di fango fin nei capelli, si faceva fatica a capire chi fosse la nonna e chi la nipote.

Sei quella che ha cacciato via non da casa bensì direttamente dalla val di Susa il mio amico Renè, colpevole di avermi convinto a salire una via lunga, alla parete dei Militi, senza averti informato prima. Siamo tornati a sera tarda, ti eri spaventata parecchio. Accadeva almeno vent'anni fa.

Sei quella che tentava di arginare un bambino forse esageratamente esuberante come ero io con un'educazione che prevedeva una dose massiccia di punizioni corporali (ho diversi modellini di navi assemblati minuziosamente spazzati via da precisi lanci di zoccoli, disciplina di cui eri campionessa olimpica in carica). Sei quella che mi imbarazzava raccontando ai miei colleghi di adesso tutto quello che combinavo da piccolo, sottolineando la necessità del tuo metodo montessoriano, ma che adesso dici che sbaglio se alzo la voce con mia figlia.

Mi mancheranno la quotidianità delle nostre telefonate di sera, in auto tornando a casa, le incazzature quando venivo a conoscenza di cosa avevi combinato che non avresti mai dovuto fare, da sola in montagna, e che avrei potuto fare benissimo io al primo fine settimana -  ma già, tu hai così tanto da fare e non voglio disturbarti - mi rispondevi sempre.

"Tuo padre è stato un grande uomo e di fianco ad esso c'è sempre una grande donna. Sono triste per la notizia, ma felice di averli conosciuti entrambi", è il messaggio che mi è rimasto appiccicato addosso.

Sei l'ultima nonna rimasta di una ragazzina che da ieri ha gli occhi smarriti ed una ferita nel cuore, a quell'età sono così difficili da curare.

Questa volta dobbiamo lasciarti andare, e dentro di me sento comunque che è giusto, anche se sempre maledettamente troppo presto. Dovevo finire di progettarti la veranda, me lo rimproveravi spesso perché la desideravi da sempre, pensavo di poter avere ancora tempo. 

Renè mi ha telefonato oggi, aveva il groppo in gola - Mi voleva bene, anche se mi ha cacciato da Bardonecchia - mi ha detto. Domani sarà ad accompagnarti, tra le nostre montagne, la parete dei militi e il suo tappeto di aghi di pino sarà a pochi passi.

A voi che passate di qua, banalmente posso dire di non smettere di essere figli, voi che ne avete la possibilità, non comportatevi da adulti, anche se avete tutti gli anni che avete, sentitevi bambini, andate a prendere la carezza che forse non è più abitudine, ma che vale più dell'oro. 

Ed a te, invece, ostinata e testona come solo tu sai di essere, con il bene che ti voglio adesso vai, che lassù, in una giornata meravigliosa tra nuvole e sole, c'è un grande uomo, che non vede l'ora di abbracciarti di nuovo.