domenica 5 aprile 2020

Un compleanno speciale

Tanto lo so che piangerai come una fontana, ti conosco. 

Ecco, adesso come adesso, la certezza di quelle lacrime un poco mi conforta, in questi giorni sospesi, in questo nulla colorato di incertezze che prosegue ancora e ancora, in queste ore di abitudini nuove, di gente che suona dai balconi vicini, di sguardi smarriti e code silenziose davanti ai supermercati, e poco nulla del resto che ti sei persa. 

Di te ho già parlato qui e qui, e qui, con oggi fanno tre post, cominci ad essere un po' troppo ingombrante tra queste pagine virtuali. Si vede che forse, un pochino te lo meriti. Oggi, almeno oggi, te lo concedo. 

Ci siamo incontrati l'ultima volta il 12 marzo, una scappata veloce in studio da te poco prima di cena, dovevo installarti un programma, che tu, come al solito, non eri capace. Quest'emergenza era già in atto, anche se la lontananza degli eventi non rendeva ancora così reale il pericolo, non sembrava così venefica come di lì a pochi giorni avremo sperimentato: tenevi l'Amuchina nell'ingresso, tuo marito mi ha aperto la porta, ho fatto finta di baciarlo, abbiamo scherzato, Wilson sempre al suo posto, ho letto distrattamente le dediche che allora ci avevamo scritto su. 

Pochi minuti dopo avevo già fatto, "Grandeeee!!!" mi hai risposto quando ti ho detto che era tutto a posto. E sono uscito. Sorridevi.

Te lo saresti immaginato, il tuo futuro di lì a poco? Io certo che no.

Il 15, improvvisamente, mi hai scritto "ho la febbre da ieri", e per qualche giorno abbiamo tutti pensato che si trattasse di una banale influenza; i telegiornali  passavano nel frattempo informazioni sulla diffusione del contagio via via più drammatiche e nei giorni seguenti la febbre non ti passava, mentre le tue preoccupazioni aumentavano, si percepivano attraverso le parole dei messaggi, e nonostante le reciproche stupide battute sdrammatizzanti "tua moglie non deve preoccuparsi del contagio, non ci siamo nemmeno baciati" le capivo, le sentivo, erano le stesse che avevo io. E sapevo che quel tuo preoccuparti non era per la tua salute, certo, ma per quella di tuo marito, per i tuoi cari. 

Il 21 ti hanno ricoverata e non scherzavamo più. Il giorno dopo mi confermavi che l'esito del tampone era positivo, il 23 il tuo primo "quanta fatica a respirare", io ti rispondevo sempre per messaggio, ti mandavo ogni giorno giornali da leggere, cercavo in qualche modo di alleviarti la tensione. 

Il 27 il tuo "mi intubano" mi ha raggelato il sangue.

Buio

Ci tenevo a farti sapere che non ti sei persa niente, di questi giorni che tu praticamente non hai vissuto, chiusa in isolamento in una città lontana, lontana dai tuoi affetti, con tante persone nelle stesse tue condizioni. Chissà come è stato.   

Qui sono stati giorni grigi, fatti di niente scandito dal giorno e dalla notte e via ancora, con la paura delle cose che non si sanno che aleggiava sopra le nostre teste come un velo maligno, con il silenzio irreale delle strade, con il suono troppo frequente delle ambulanze, con la televisione quasi sempre accesa in attesa dei notiziari, con la mia Ciccia ed io agli estremi dello stesso tavolo, lei con il suo portatile intenta a seguire le lezioni ed io con il mio a lavorare. Hai un marito forte, gli abbiamo offerto in tanti una mano, ha ringraziato ma non ne ha avuto bisogno. Ha accudito la vostra famiglia come solo lui sa fare, magari la gara di rutti con il tuo bimbo grande non sarà stato un metodo educativo ortodosso, ma tranquilla, che li ha insegnati anche alla piccola. 

Sono sopravvissuti alla tua mancanza, alla mancanza del tuo essere sempre presente, della tua forza e della tua determinazione. E sai, se la sono cavati alla grande, ma (e non farlo sapere a nessuno) solamente perché sapevano che sarebbe stato per poco. 

Hai trascorso quasi dieci giorni in terapia intensiva, lontana dal conforto della tua vita di sempre, dalle tue sicurezze, catapultata in un mondo nuovo, asettico, con l'incessante rumore dei respiratori e gli occhi di medici e infermieri da dietro le visiere. 

Dieci giorni in cui le notizie dal tuo mondo a qui arrivavano con il contagocce, e quelle di fuori facevano paura e male a sentirsi. 

Dieci giorni in cui io ho continuato a mandarti ogni giorno messaggi su WhatsApp, cretinate perlopiù, video per farti sorridere. Non vedo l'ora di vedere finalmente quella doppia spunta blu.

E ieri, dopo il messaggio in cui tuo marito finalmente  mi avvisava che eri stata estubata, ho avuto la certezza che li vedrai, i video divertenti e le battute cretine, so che riderai e un po' ti commuoverai, so che adesso non vedi l'ora di riabbracciare i tuoi, so che avrai forte in testa il verbo RICOMINCIARE.  

Oggi è il tuo compleanno, hai addosso una mascherina. Quelle persone speciali che in questi giorni ti hanno avuta in cura ti hanno fatto fare una videochiamata, così li hai visti i tuoi tre, hai potuto rivederli, sentire le loro voci, le risate, hai potuto vedere che stanno tutti bene e loro hanno potuto farti gli auguri per oggi, il tuo compleanno. E penso proprio che sarà il regalo migliore che tu abbia mai ricevuto, addirittura meglio di Wilson, quando te ne sei andata via da noi. 

Basta, mi sono dilungato fin troppo e son stato così tanto melenso da mettere a repentaglio la mia reputazione; adesso, come si dice da queste parti bogia, insomma sbrigati a tornare perchè: 

  • a casa ti aspetta un sacco di lavatrici da metter su 
  • devi darti una mossa ad usare il software che ti ho installato se no cosa ho rischiato a fare
  • un po' ci sei mancata
  • soprattutto, in ogni compleanno che si rispetti, devi offrire da bere, tu che, come ho già scritto, "basta anche solo un goccio d'alcool da inanellare tutta una serie di doppi sensi da far impallidire anche il più rude dei camionisti calabresi".
E buon compleanno, amica mia.
On Air Lenny Kravitz: Happy Birthday



lunedì 20 gennaio 2020

Come nessun posto al mondo mai

Ieri ho chiuso per l'ultima volta la porta di quella che è stata la mia casa per trentanni.

Quello appena compiuto è stato un anno intenso, spigoloso spesso, ruvido sovente, in cui i miei occhi hanno subito troppe albe e si sono soffermati su così pochi tramonti da qualche parte sulla riva del mare.
E' stato un altro anno tosto, serrato come i precedenti ma sempre un poco di più, l'asticella del salto una volta ancora spostata più su di una tacca; ci sono stati momenti in cui, confrontandomi con la consueta chiacchierata serale mi sono lasciato andare ad un "non so proprio come riuscirò a fare tutto, questa volta", a cui seguiva sempre la stessa risposta "ce l'hai sempre fatta, alla fine".
E' vero. Alla fine ce l'ho sempre fatta. Ho accumulato ritardi e risparmiato sulle ore di sonno, ho sacrificato gli amici, le mie parole più vere qui, innumerevoli fine settimana. Ho accantonato il mio tempo più spensierato, molte delle mie corse, ripide pareti da affrontare ed ho detto pazientate, ci ritroveremo, prima o poi. 
Mi sono arrabbiato spesso con me stesso scoprendomi indolente e non sufficientemente produttivo alle volte, mi sono segnato impegni e scadenze sull'agenda settimanale, riportando gli incompiuti la settimana successiva, con un sottile piacere ogniqualvolta un tratto deciso di penna dava per terminato un lavoro. Ho fatto quasi tutto da solo,  testardo One Man Band dei progettisti, con la caparbietà montanara che sta diventando parte del mio modo di essere e di pensare, tollerando poco niente, in quello che mi sta intorno, che non va come dovrebbe.
Quest'anno ha visto cambiamenti importanti in casa D&R, a partire dalla maturità delle Ciccia oramai definitivamente non più ascrivibile al titolo di "mia piccola", il suo conseguente ingresso nel mondo universitario, con la scelta della facoltà di Psicologia, fortemente voluta e pensata fin da quando era piccola (... fa solo che non mi diventi come Bruno) ed il naturale stravolgimento di orari, abitudini, percorsi e vita. 
Si è lasciata andare la casa in cui ho vissuto la mia prima vita a Torino e quando si devono svuotare le stanze i ricordi ti travolgono, ti trapassano, ti sommergono, tornano fuori prepotenti angoli di te che eri sicuro di aver dimenticato. 

La felicità sta veramente nelle piccole cose, nella luce che filtra dalle persiane il primo giorno d'estate, in mia madre che la mattina lottava con un me piccolo per infilarmi le calze appena sveglio, nella mia tazza della colazione e la granella del Buondì Motta che mangiavo sempre come ultima cosa preziosa. 

E senza quasi volerlo, in uno scatolone richiuso da tempo ritrovi la tua fresca giovinezza lì pronta ad aspettarti, scorrendo le dita su un foglio consumato sporco di china rivedi come proiettato sul pulviscolo che danza nella stanza quel te di allora che in fondo non è mai cresciuto, un po' schivo, chino e concentrato a disegnare di notte alla luce della lampada da tavolo, col buio di questa città un po' magica a fare da cornice, la finestra aperta a rinfrescarsi dalla calura estiva e le cuffie nelle orecchie. Ho ritrovato frammenti di me inutili e bellissimi accarezzando vecchi mobili consumati dal percorso delle mie proprie dita, ho ritrovato paure e felicità improvvise, risentito vive le voci ed i rumori della domenica, il profumo del sapone da barba di mio padre, l'apparecchiare per il pranzo con il servizio buono e la radio accesa: mi riavvolge come fosse ora il silenzio colmo di apprensione di quando da ragazzo vegliavo nel sonno di quella famiglia che eravamo noi, un padre una madre e due sorelle e un bene grande e saldo che rappresentava tutto il mio mondo, ed ascoltando il respiro regolare dei miei pregavo Dio di regalarmene tante da non poterle contare, di quelle notti e silenzi e respiri quieti nel sonno. 
Avrei voluto congelare ogni momento ritornato luce, avrei voluto essere l'io di mille istanti che mi hanno accompagnato in questi giorni di armadi aperti e fogli strappati e scatole richiuse con il nastro da pacchi. 
I miei genitori non mi accompagnano più da troppo tempo, anche se ogni tanto mi confronto ancora con loro, gli chiedo silenziosamente se stia facendo le scelte giuste, a loro rivolgo il pensiero apprensivo di padre quando osserva orgoglioso la propria figlia crescere. Ieri, nascosto nei pacchi di vecchie foto, nei biglietti di auguri di compleanni dimenticati ho trovato ancora intatto il loro amore ed orgoglio nei miei confronti. Sono cosciente che buona parte dei ricordi custoditi tra queste pareti e che mi hanno abbracciato in questi giorni si dissolveranno definitivamente ed è questa, la perdita più importante, in fondo. Mi sono portato via degli oggetti, il divano che mio padre adorava, il tappeto persiano del suo amico architetto, qualche libro con le dediche di stima ed affetto che in molti gli avevano tributato. Forse non sono ancora pronto a perdere tutto. 

Ieri ho percorso per l'ultima volta le stanze di quella che è stata la mia casa per trentanni. Ho appoggiato le mani alle pareti spoglie, ai mobili rimasti, agli stipiti delle porte, agli interruttori della luce, ho rimesso la mia abitudine a quei luoghi, a quei rumori, a quella luce, al balcone di sala, al tramonto sul Monviso che solo da quella finestra, assaporando come se fosse musica lo scricchiolio del parquet. Ho appoggiato a lungo i palmi delle mani su tutto come se fosse un abbraccio, un pezzo alla volta, gli occhi umidi ma solo un poco, ripetendo a bassa voce grazie casa, ciao casa, sei stata una buona casa, sono stato bene con te, bene a crescere qui, a coltivare speranze e sogni, grazie. 
E nel silenzio dell'abbandono mi è sembrato quasi di sentire, lieve, il respiro quieto di una famiglia felice nel sonno.

Poi ho chiuso la porta.