venerdì 30 luglio 2010

Ruvido

Sì, così mi sento ed è tutto così faticoso. Uffa.

Faticoso tutto, faticoso riprendere, faticoso sopportare, faticoso veder passare le cose senza quasi riuscire ad afferrarle.

Faticoso fare la faccia, la voce ed il sorriso di quello che gli va tutto bene. A stare in equilibrio ancora una volta sul quel maledetto filo, in bilico sulla ragione e sul tempo, sulla testa della gente con le loro idee stantìe che proprio non si arrischiano a volare.
Faticoso correre. Faticoso cercare di trovare quella maniera giusta di andare, che ti senti che corri e non che ti trascini come ti capita. Sembra che in questi mesi abbia dimenticato ogni cosa, la spinta delle gambe e delle braccia, il ritmo del respiro. Arranco, come in ogni cosa di me. E riprendere è difficile, i primi giorni saranno anche quelli peggiori, quelli che chi comincia per la prima volta, spinto dai tuoi racconti entusiasti, ti guarda stranito e poi, di solito smette. E tu lo sai che sarà diverso, dopo la svolta, che il panorama cambierà dietro l'angolo, che troverai nuvole e stimoli e sogni e parole ma intanto quel maledetto angolo è ancora così lontano ed è al culmine di una strada tutta in salita.
Faticoso tenere un contegno ed un contatto con la mia piccola nella più brutta vacanza della sua vita e della mia, un filo di ragnatela d'argento che non le aggiunga malinconia. Mi dicono tutti pazienta, anche la consorte mi blandisce e mi trattiene, ma dai, è per il suo bene, cosa prendi e vai, aspetta, che adesso c'è l'esodo e ti fai ottocento chilometri per niente in mezzo alla buriana, perchè è normale, perchè deve crescere e le fa bene, le dà forza e tanto venerdì prossimo poi torna.
Ma non avete capito niente, cos'è che le fa bene nello star lontana da chi la ama, perchè io lo so, io la so, quando sento che al telefono ha la voce di terra che mi dice solo boh, che si sforza a non piangere, ma è come se lo facesse e nel suono delle parole sospese sento solo che vuol dirmi dai, vieni a prendermi Totson, che non riesco ancora a divertirmi senza di voi, non sono abituata alla vostra assenza che non capisco più dove siete e se ci siete, fa male non ricevere neanche una carezza io che sono abituata a riceverne cento e mille, mi manchi e sento che ti manco, mi manca prepararti lo scherzo ogni mattina allo spazzolino da denti ed a te fa male, ogni mattina, non trovarlo, quello scherzo.  Ed è così faticoso dare ascolto a tutte queste voci contrarie, che ti dicono che non è così che si allevano i figli e a dargliela vinta si sbaglia e poi vedrai quando sarà più grande. Ma al momento è tutto tranne che grande e domani forse, ci penserò, ma adesso darei voce solo al cuore, e se gli dessi ascolto e spazio e chiavi della macchina starei a guardare il mare in questo momento, seduto su di un muretto di pietra, ruvido, come me, che mi restituisce il calore del giorno, e nella mia mano stringerei un'altra mano ed un altro calore che sa di sorriso.

Faticoso anche cercare una maniera diversa e forse meno mia essere così come sono e di conseguenza di scrivere, meno sbagliata, confusa e contorta, più fluida e lineare. Mi sforzo, ci provo, ma alla fine vedi che proprio non ci riesco.

giovedì 29 luglio 2010

To barba

No, non so se ci vivrei. Livorno è una città diversa da me o forse molto più simile di quanto io pensi. Confusa, limpida e lurida, di traffico caotico, intrecciato e colorato di motorini, di palazzi aristocratici e di abbandono sudicio dietro l'angolo, di mura di canali antichi che sono monumento che sembra una ferita aperta, con il mare che vi penetra profondamente.

I cadetti sono giovani, hanno capelli a spazzola e lo sguardo verso l'orizzonte più lontano, audace e lucido come le loro divise. Avresti voluto lo facessi anch'io. Non ti ho mai ascoltato. Forse mi conoscevi più di me.

In quel piccolo bar scovato la mattina presto, un'armonia di profumo di caffè e di fragranze appena sfornate, di chiacchiere e cadenze,  le sfoglie perfette alla mela, alla mora e la granella di zucchero, ieri erano ancora più dolci e delicate del solito. Chissà se qui ti ci sei mai fermato.

Sulla passeggiata che è scacchiera immensa dove ti ho fatto conoscere mia figlia io, alfiere troppe volte sconfitto ma mai vinto  ho corso a lungo fino a smarrirmi, confrontandomi col mare aperto e scuro, respirando a pieni polmoni quest'aria che sa di salsedine e di resina di pino, irriso dal vociare senza sosta delle cicale.

No, riprendendo l'autostrada per un attimo - ma un attimo solo - ho tentennato. Poi ho puntato la freccia a sinistra, chiudendo in un armadio insicurezze e voglie egoiste da padre sperduto e mi sono diretto verso nord. La mia piccola sta meglio e sorride anche senza di me. Sono corsi ai ripari. Loro hanno capito, finalmente, che è piccola sul serio, nonostante la statura, e se la chiamo così un motivo ci dovrà pur essere. La sua voce non è più rotta dalla nostalgia di me.

Ho comperato miele per la tua dolcezza e oli profumati per districarti i capelli dal sale per quando tornerai, un tuffo nei pensieri più profondi a riportar dal fondo i sorrisi più luminosi, mai persi. Una mano aperta a confrontar la tua e sulla lingua le parole che ci leghino insieme ancora più stretti.

No, che non ci sono andato. A piedi, di corsa, ma quale corsa, non si può certo chiamare correre andare a 6 al chilometro, se non oltre. E sì che in quella rotonda me lo sentivo, che c'era qualcosa che mi chiamava. Avrei dovuto ascoltarlo, quel sospiro, quell'alito di vento giocoso che intrecciava i miei capelli ormai lunghissimi e ribelli, girare incuriosito tra viali incogniti. Bastava poco, l'ingresso del cimitero era a meno di cinquecento metri dal punto in cui mi son fermato a sentire qualcosa che non proveniva dalle cuffie del lettore. E poi ti avrei trovato. Avrei dovuto lasciarlo, quel sorriso sulla fotografia incorniciata dall'ovale

In ogni cima raggiunta ritrovo i tuoi passi di allora, metto le dita su ogni appiglio dove le tue dita un tempo si sono posate. Un mozzicone di Windsor de Luxe abbandonato alle soste. Nel riflesso verde di alberi affogati di quel lago che è stata la tua prima sorpresa per me si non si è ancora consumato l'eco dei tuoi racconti e del mio ascoltarti incantato. E adesso tu da qui guardi il mare e sei solo. La medaglietta che porto al collo e mi rimbalza sul petto quando corro porta inciso sul retro una dedica: "To barba".
Non l'ho mai levata, da quando sono nato.

Torno, promesso.

martedì 27 luglio 2010

Livorno, on running

Lì in alto c'è scritto 3.89, ma secondo me Google Earth esagera un tantino, probabilmente sono solo 3.50 che sommati ai 3.50 del ritorno fanno i miei primi 7 km tutti di fila. Il tempo non ve lo dico per decenza, fidatevi quando vi dico che è alto e anche, molto. Veloce come un bradipo nel periodo del letargo mi sono elegantemente liberato dall'invito a pranzo dell'impresa e, lasciando stupiti i partecipanti alla riunione, ho detto gentilmente di no al consueto piatto di liguine allo scoglio che ancora adesso, a ripensarci, mi procura un notevole aumento di salivazione ed ho spiegato che sarei andato invece a farmi una corsetta.
E così, recuperato uno spazio in cantiere mi sono rapidamente cambiato, ho inforcato gli occhiali che mi separano dal mondo, acceso il lettore su Malika Ayane e via. 
Via giù subito per lo scalo d'Azeglio e poi giù, a cercare il mare, annusandone la traccia. E' vero, lo so, dovevo fare i cinque minuti di riscaldamento e poi al massimo cinque minuti e poi via di nuovo, ci ho provato, ma non l'ho fatto apposta, giuro, la colpa è della voce suadente di Malika che iniziando a cantare mi ha distratto, perchè la musica andava a tempo con i miei passi stanchi, e con l'odore aspro di mare che sembrava mi chiamasse e i pini marittimi anche loro, che hanno quel profumo così speciale, di resina acidula e di sale, cha sa di ombra e di cicale, con i rami che sembran finti da come son fatti, e poi ad ondate altri odori e luci e ombre, ed il parco anche qui, ed anche qui fidanzati sulle panchine e parole al vento caldo di amori eterni e di baci, e vecchiette con i cani e bimbi riccioluti ed abbronzatissimi con i loro passetti, che si arrestano perplessi quando gli passi vicino e che mi ricordano la mia, che ieri sera ho fatto il diavolo a quattro ed ho spiegato  a quelli che anche se alta come un corazziere in miniatura, è pur sempre uno scricciolo di dieci anni, sola e spaesata alla sua prima esperienza lontana senza i suoi riferimenti, che se la prendi e la metti insieme ad altri cinquanta che si conoscono già tutti e la butti allo sbaraglio tra aerei, ritardi, autogrill e un albergo pietoso e triste poi urla come in caserma e sveglia svegliaaaa!! alle sette del mattino e serrande tirate su di furia ed un trattamento senza un briciolo di attenzione individuale è normale che vada in crisi. E che se va in crisi lei solo perchè non sono in grado di fare il loro mestiere io me ne strabatto che non si può e vengo a prenderla STA-SE-RA capito?
Hanno capito. Avevano capito già mentre qui si enumeravano in maniera quasi spietata tutte le carenze. Ragion per cui mentre qui al telefono si usava quel tono di voce che non ammette repliche, di là c'era già un'animatrice pronta ad usare quel minimo di tenerezza che necessitava usare e tanto è bastato. E poi scuse su scuse, che non avevano capito che era così piccola, e che era la prima volta che, ma sembra una quindicenne, sa?
Lo so che cosa sembra, è figlia mia, da me ha preso almeno l'altezza e qualche ombra ogni tanto in quegli occhi scuri che sono bellissimi, quando si aprono in un sorriso. Lo so cosa sembra, ma so com'è fatto il suo cuore, lo conosco ad occhi chiusi, ho imparato il suo battito a memoria quando era un cavallo al galoppo nella prima ecografia e so come tradurlo in linguaggio, so che ha ancora bisogno di conferme, che alcune sue radici le ha perse troppo presto ma non così tanto da impedirle di soffrire. Lo so cosa pensa quando mi abbraccia e mi dice che non vuole crescere mai. So le sue paure e le sue certezze. Conosco quali corde suonare per sentirla felice. E' figlia mia. O sarebbe più giusto affermare che io sono SUO padre. E Ieri sera, su due balconi illuminati dalla stessa luna accesa come un faro che toccavamo con un dito ed eravamo di colpo di nuovo insieme, la distanza era annullata, la voce più serena. Le ho raccontato la mia favola della buona notte così, inventandola guardando la luna e lei rideva come una matta.
E secondo me, rideva anche la luna, che in silenzio ascoltava le nostre voci insieme.
Lo so, alla fine della mia corsa di oggi non è che vi abbia detto più di tanto, lo riconosco.
Ma non importa, vero? Rimedierò domani, forse.

lunedì 26 luglio 2010

E domani

Livorno.
Nella borsa un progetto, fatto e rifatto poi ri-rifatto, e modificato ed integrato e ma che dici se cambiamo questo e scusa ma l'hai già cambiato perchè abbiamo cambiato di nuovo idea noi e prima era meglio o forse no, adesso è pronto. Spero.
Ma nel baule della macchina ho già messo lo zaino con pantaloncini, occhiali, lettore MP3 e le mie nuove Asics che han voglia di muoversi.
Domani correrò di fianco al mare, su quelle piastrelle chiare e scure che c'è da perderci gli occhi, inebriandomi di quella bellezza che sono onde scure e schiumose ed un poco anche mie, respirandole ed imprimendomele bene nell'anima malata e curva che ho, osservando gli orizzonti che vedranno le divise eleganti dei cadetti ufficiali e respirando iodio per darmi la carica ed aiutarmi a riprendere. Domani mi farò largo tra gente sconosciuta, con passi leggeri su strade percorse altre volte sì, ma mai di corsa e mai da solo.
Domani, se arriverò, se troverò la strada nella mia parentesi, entrerò in silenzio, punta di piedi e sudore e porterò un saluto a quel mio zio che là riposa e che mi ha regalato il primo libro di Comici e l'amore per la montagna, che lui sa e, lo so, mi aspetta.
E domani sono quattrocento chilometri più vicino alla mia piccola e alle sue lacrime, che saranno anche solo tre giorni ma già non posso più sentirla così, che mi dice che io le manco di più che lei a me perchè è più piccola. E magari non sarò un bravo padre, forse anche le lacrime fan bene, aiutano a fortificarsi, a crescere, ma perchè deve crescere e fortificarsi, ma chi l'ha detto, tutto sommato è ancora uno scricciolo racchiuso in un corpicino molto più grande di lei e se sta male non riesco a star bene io, che mi pervade quella sensazione che è quasi colpa, per non poter raccogliere quelle lacrime e deviarle in una risata come è giusto che sia, per non offrirle un abbraccio per proteggerla, per non poterle regalare un buffetto sulle guance ed una granita alla menta.
Per cui, se le cose non migliorano, domani, forse farò moolto tardi.
Perchè anche a costo di prendere a cazzotti animatori di ogni età, razza e sesso, ti riporto a casa, piccola mia.

domenica 25 luglio 2010

The day of the flying dandelions

Osservavo svogliatamente fuori e mi son capitati dinanzi agli occhi proprio oggi, mentre, mordendo distrattamente una biro, cercavo un motivo buono per mettermi al lavoro, cosa che che poi non son riuscito a trovare.
Han volteggiato leggeri nell'aria, più leggeri ancora, diafani e sospesi a cavalcare onde del vento, a galleggiar nel nulla. Insieme, attaccati, hanno atteso, per un attimo, come curiosando di me al di qua del vetro dove io, proprio in quel momento, pensavo a te. Poi, un guizzo improvviso di vento, un soffio bizzarro li ha portati  su, veloci, e salendo sono spariti alla mia vista, sempre insieme.
Sempre insieme, come io e te, cuore del mio cuore.
Sei alla tua prima vacanza da sola. Dieci anni, così piccola e così grande nello stesso momento, un amore di donnino. Da quando sei nata non mi sono mai allontanato da te per più di tre giorni, figuriamoci due settimane; penso che la tua mano sia ciò che più di ogni altra cosa abbia mai tenuto tra le mie. Ricordo il tuo primo profumo di rugiada e borotalco, da piccolissima, i primi deliziosi urletti e le ditine che si aggrappavano al mio indice. Ti ho, completamente ed assolutamente. Ho raccolto i tuoi primi sorrisi e le tue prime lacrime, cercando sempre i primi di farli durare più a lungo e le altre di farle scomparire più in fretta possibile.
Sono stato con te in quei giorni ed in quelle notti, quelle terribili,  dove per un momento ho avuto paura anche solo di pensare di poterti perdere, quelle dove mi chiedevi "papà, ma io sto male?", dove per ironia della sorte il compimento di un nuovo anno mio poteva rappresentare la fine di ogni cosa. In quella cameretta isolati dal mondo tu, la tua febbre che non si voleva abbassare, i tuoi peluches e la tua mano attaccata alla mia ed io che non ti ho lasciata mai. E insieme ne siamo usciti ed al ricordo di noi, là fuori in quel giorno felice di gelo, non ho memoria di vacanze di Natale più belle in tutta la mia vita. Ritorno spesso con la mente a quei giorni e penso a chi, meno fortunato di me è invece precipitato nell'abisso di cui io ho solamente intravisto il baratro. E mi sento così piccolo, di fronte al coraggio ed alla reazione che sono riusciti a trovare (andate ad esempio a leggere qui) e che invece io non saprei dove prendere .
Sei stata, indirettamente, una tra le persone che mi hanno spinto a creare questo blog, quando mi dicevi che ti piacevano sempre tanto le favole che inventavo per te ogni sera e che avrei dovuto scriverle.
Ma io no che non so scrivere, bimba mia, il tuo papà se la cava benino con numeri e disegni ma con le lettere è una frana che solo perchè sei piccola ti sembra bravo; sbaglio sempre e tanto, e metto sempre troppi aggettivi e tante congiunzioni, ma fa lo stesso, non importa, anzi non ti importa ed allora lascia che sia, la mia favola più bella la scrivo per te, senza finale, perchè i finali presuppongono sempre la parola fine che io odio. E allora ti disegno una favola tutta per te bimba mia, speciale, adesso che sei lontana che non posso raccontartela la sera accucciati sullo stesso letto con la torre e lo scivolo, parlando piano pianissimo ma che so che se fai attenzione e presti orecchio e cuore puoi sentire lo stesso.
Una favola che non finisca mai, e che continui, piena di colori e risate ed arcobaleni e di profumi d'estate, di mano nella mano e biciclette e mare e sole e peluches, tantissimi da nascondercisi dentro da quanti che sono, e sale che si incrosta sulla pelle, una favola di maschere e boccaglio che non riesce proprio a contenere il tuo sorriso, che quando mi vedi che torno sù dal fondo dove sono andato apposta per prenderti una conchiglia bellissima ti entra l'acqua in bocca dalla troppa felicità. Una favola che racconti di scoperte e animali del bosco, di temporali che bagnano ma non spaventano, dei primi funghi raccolti insieme, di filastrocche e di stelle cadenti, tante da esprimere desideri e che cosa sono i desideri se non altre favole da inventare e raccontarti e ancora e ancora.

E ieri correvo, e questa mattina correvo di nuovo, il fiato e le gambe pesanti come mai credo di avrele avute, i consigli del luminare già al vento, ma è che ho così tanto arretrato e voglie e pensieri che cinque minuti non sono abbastanza, che per emergere da tutto mi ci vorrebbe quotidianamente un paio d'ore almeno. Il cielo un fotogramma che Dio aveva scattato apposta per me, con le nuvole candide, fioccose ed indorate di sole lontano, che si stagliavano su un cielo blu con una luna malinconica che già si affacciava a guardarmi faticare.

Pensavo al tuo codino impertimente che si è allontanato nella coda del check-in come se niente fosse, mentre tutte le mamme piangevano ed i padri cercavano di darsi un contegno con occhi umidi, me compreso. Pensavo poi alle tue parole di ieri sera tra il magone neanche troppo velato "ma allora mancano ancora quattordici giorni prima che possa tornare" ed alla mia falsa allegria, fatta apposta, creata per te, un'altra favola sai, bimba mia, per darti forza, allegria e voglia di divertirti e cominciare un pochino a staccarti come è giusto che sia, quando invece avrei voluto salire sull'auto e farmi tutti i i settecento chilometri che ci separano d'un fiato e venirti a prendere, e vedere il tuo sorriso che è così incredibile quando è tutto mio e portarti via con me sentendo che mi stringi piano la mano come solo tu fai.
Ma no, in fondo e a malincuore so e forse sai anche tu che non sarebbe giusto. E' la tua prima vacanza da sola e sono certo che saprai divertirti, giocare ridere (no, per i ragazzi è ancora presto, almeno per i prossimi quindici o venti anni....) e in un attimo ritrovare quel sorriso negli occhi e quella gaiezza ti rende così speciale.

E tornando da correre  qui, nel giardino delle rose, imbrigliato ai rami della siepe, oggi, uno solo dei due soffioni mi attendeva, sconsolato anche lui, come me.

E per la prima volta mi sento solo, veramente solo e basta. E non è, tutto sommato una senzazione così sgradevole. La si può anche mettere in musica, e può servire da colonna ad un cartone animato. Che altro non è che una favola, in fondo.

Buone vacanze piccola.
Il tuo Totson




lunedì 19 luglio 2010

Ricominciare ®

Chiedo scusa in anticipo per la ridotta punteggiatura, mentre quella che eventualmente ci metterò sarà disordinata, buttata giù alla viva il parroco, e per i periodi lunghissimi ed inutilmente concatenati e per tutti gli e, e varie ed eventuali. Ma ho appena corso, ed ho corso esattamente così, perdendomi distrattamente punti e virgole sotto gli alberi del parco.

"Fuck to you", graffiato nervoso a stampatello con lo spray nero sul muretto basso.
E' la prima cosa che noto, tornando. Qui. Magari c'era già allora, forse no. Le scarpe son quelle nuove, l'orologio mi segnala che la batteria andrà sostituita. Non ho la fascia cardio, ma per quello che ho intenzione di fare non ne ho certo bisogno.
Sono appena sceso dalla macchina ed i gesti consueti della preparazione mi vengono incontro alla spicciolata e li ritrovo intatti. Ritrovo gli alberi che separano la pista sterrata da quella in asfalto e lo scricchiolio della sabbia sotto le suole, ritrovo i pali della luce ed i marciapiedi, le scritte dei metri della Turin Marathon per terra e le tracce scalpicciate di corridori passati di qui.

E' tanto che non corro la sera, mi riporto con la mente a quegli anni laggiù, lontani sullo sfondo, quelli del Palio che è il Palio e non si discute, che faceva infuriare le nostre fidanzate di allora, dove gli allenamenti si concludevano sempre nella cantina di questo o di quello, quando si fumava ancora e si faceva prima ad ordinare la bottiglia di vodka che più giri di bicchierini, e tanto si andava veloce lo stesso.

E adesso sono qui. Respiro. Il parco è sempre uguale e tutto diverso. Riconosco e trovo mie così tante tante cose mentre in altrettante è cambiato, dall'ultima volta, che faceva un freddo cane, era febbraio, allora e non c'erano le foglie e il cielo era grigio latte, non questo azzurro che scolora lentamente. Adesso invece il caldo è umido e pesante, le fronde degli alberi si abbassano sotto lievi sbuffi di vento e i rami odorano di muschio e di città e di traffico che non è poi così lontano, soltanto dimenticato.

Sono qui e mi sento, qui, finalmente pronto. Avevo bisogno di mettere le mie scarpe su questo asfalto, a sospendermi nel tempo qui, a mettermi le chiavi della macchina dentro la tasca posteriore dei pantaloncini, dove ci sta anche il walkman con il cavo che va agli auricolari che passa sotto la maglietta Gore nuova. Non fare il fesso, mi ha detto il mio luminare, e per questa volta mi sono imposto di ascoltarlo. Cinque minuti a piedi e cinque di corsetta leggera, poi altri cinque ed altri cinque ancora, totale venti minuti massimo e poi gli ultimi cinque di stretching finale e la voglia di partire ed urlare che sono tornato è così tanta che riesco incredibilmente a metterla da parte e indosso gli auricolari con il volume al massimo, pigio start sul Polar e parto a piedi, percorrendo quella strada che conosco così bene.
Sono qui. I Negramaro mi colmano le orecchie e gli occhi, no gli occhi si beano ritrovando cose che sapevo già e che mai potrei dimenticare, angoli e rami e la bocciofila vuota e le panchine consunte con l'erba che è sparita di sotto ai piedi di chi si è fermato a riposare o a fumare o a leggere il giornale ed è rimasta la chiazza di sabbia e un palo della luce ogni tre alberi e poi due panchine vicine a farsi compagnia e poi di nuovo gli alberi malconcicon la corteccia macchiata e corrosa e i tombini e il percorso che potrei fare anche ad occhi chiusi, con il tratto in salita ed i lunghi rettilinei. La gente è diversa, non ci sono praticamente runners in giro, e menchemeno nessuno che vada veramente forte, forse l'ora non è quella giusta. Ho dimenticato il cappellino nero che è rimasto nello zaino da corsa insieme a tutte le altre cose che non sono in fondo così importanti adesso. Uso gli occhiali con le lenti gialle per imbrigliarmi in qualche maniera i capelli ed ecco che i cinque minuti di passi a piedi e di stretching sono passati e adesso tocca a me.
Riparto, nuovamente, finalmente, dopo tutto questo tempo che non esiste più adesso e d'un fiato eccomi, sono un runner. I piedi ritrovano immediatamente quel passo, l'elasticità del gesto e l'aria sulla faccia, sulle braccia e tutto diventa una piacevole sensazione. Sto correndo ancora, percorso da un brivido di leggera emozione e di tranquilla consapevolezza insieme. Con le mie scarpe nuove vado bene, ma certo non fan miracoli, loro, chi ci deve mettere la benzia sei tu.
Ci sono e mi sento, mi ritrovo, qui in questi odori e nella striscia gialla rettilinea che ipnotizza lo sguardo, mentre la musica nelle orecchie mi spinge avanti e nelle collinette sullo sfondo a sinistra, nei due fidanzati che si abbracciano appassionati e che si promettono chissà cosa ridendosi negli occhi, nei bambini speranzosi che corrono dietro ad una palla e gridano di gioia, anche se non sento le urla coperte dalla musica. Corro ma questo non è correre, mi dico, è strisciare veloce, una volta sapevi fare di meglio. Svegliati, mi dico, anche se le parole del luminare sono un monito sempre presente. Il tendine aggiustato si fa sentire, dà qualche scossetta leggera, mentre il ginocchio destro fa la sua parte anche lui, così, in definitiva il dolore, proveniendo da due arti contrapposti, praticamente si annulla e mi fa viaggiare leggero e un'occhiata al cronometro mi dice dai fermati che i cinque minuti sono già passati, ma come, di già, ed allora mi fermo nella zona degli attrezzi, non ho neanche il fiatone, che strano e via con un pò di stretching e qualche passo a piedi.
E poi di nuovo di corsa e via a provare a forzare ma un pochino solamente e il giro questa volta si fa sentire, nelle gambe negli occhi e nel fiato che fatica ad uscire più di prima e il sudore e i capelli e la musica ancora e ancora una volta un passo via l'altro, e quella curva quante volte l'ho percorsa e la recinzione contorta eccola lì, non si è mai mossa lei, ma cinque minuti sono davvero pochi, neanche il tempo di finire di guardarti dentro ed affrontarti una buona volta, neanche il tempo di ripescare un sorriso dal profondo, neanche il tempo di ripassare di qui di nuovo che già ti devi di nuovo fermare, e così un'altra volta ed un'altra ancora.
E' dura, recuperare, scoprire quanto purtroppo hai perso in fiato, forza e resistenza, in questi mesi di inattività forzata, è dura recuperare la tranquillità, la serenità e la voglia di saper guardare avanti e oltre. Ma sono qui ed è ora di smettere di lamentarsi. Qui si deve andare, liberare la mente e correrle dietro, semplicemente così. E' presto per pensare al tempo al chilometro, non ho voluto deliberatamente pensare a quanto penosamente stessi correndo, so che verrà il monùmento per farlo, certamente non ora, ora devo metter su fiato nelle gambe evoglia di spingere. 
Finisco che è buio, fuori, i fari delle macchine disegnano ombre furtive e veloci e tra i lampioni il percorso è una striscia luminosa e grigia e le scure chiome degli alberi si sono chiuse nere sopra i miei ultimi passi. Dovevo fare solo venti minuti ma erano veramente troppo pochi, alla fine ne sono passati quaranta, e mischiato al sudore ed alla fatica ed al fiatone il potere terapeutico ha appena appena iniziato ad entrare in circolo.
Già si fa sentire.
Ho finito la mia nuova prima corsa, sapendo presto ne seguiranno altre.

mercoledì 14 luglio 2010

Il new deal del chiodo

Che poi sarebbe quello che dovrebbe scacciare, chissà come, chissà perchè, quello precedentemente piantato e che invece non fa altro che farlo penetrare più nel profondo, dove sta adesso, coì dentro che sembra che non ci sia, che solo i più accorti degli altri ne intravedono, forse, la traccia di una cicatrice rossastra ma tu, dentro anche se non lo riconosci con le dita, lo sai e lo senti. 

Eppure, in una maniera a me ignota il metodo del chiodo funziona. Perchè, per darsi una svegliata dall'apatia opprimente non c'è niente di meglio ad esempio di uno scossone, di una bella litigata furibonda la mattina presto, qui, nello studio delle rose che sbocciano a grappoli, tanto per cominciare belli carichi la giornata.  Una di quelle che lasciano il segno, che così ti liberi, e finalmente esplodi, erutti tutte le cose che hai dentro e colpisci senza mezze misure, povero vecchio socio con gli occhi da bracco dietro agli occhiali, che ha avuto solo la sfortuna, nel momento sbagliato, di sparare le solite quattro stronzate di sempre, quelle che normalmente non fai neanche finta di sentire.
E così reagisci e colpisci duro perchè qualcosa in fondo devi pur colpire, non puoi mica tenerti tutto dentro, eccheddiàmine, perchè per come ti senti, per quello che hai, che non sai cos'è, non è rabbia, non è disperazione e forse semplicemente non è ma ti assale comunque e ti morde dentro e non molla la presa mai, neanche se dormi, per quello dicevo non c'è niente che serva, niente di niente.
Bisognerebbe sparire forse, facile per chi ci riesce, per chi ha coraggio o fame o coscienza, sarebbe molto meglio accendere la miccia a tutto questo, tu che una volta ti sentivi così, luminoso quasi, e brillare di quell'unico incredibile fuoco d'artificio che squarcia le tenebre più oscure, accompagnato da un botto solo e assordante, che lascia spazio unicamente al silenzio assoluto e sordo e dopo alla calma più stanca, con le ultime scie che affievoliscono precipitando nel niente.
E non c'è niente di meglio che occuparsi di un lavoro che ti fa dimenticare anche di mangiare, che ti porta fuori di qui quasi tutto il giorno facendoti passare le ore velocissime, questa volta, ad occuparsi di tutta la parte tecnica e non che occorre per spostare un ufficio di ben 61 persone da una parte all'altra della città con annessi e connessi, e ingegnere la stampante non mi stampa e ingegnere la mia scrivania aveva un altro colore e ingegnere ma qui siamo a norma e nei bagni manca anche la carta igienica.
Mi van bene, giorni così, costruiti veloci apposta per impedirti di pensare e farti altro male. Mi fan bene, in fondo, passati a sbrogliar nodi semplici annodati di mille piccolissimi problemi, a usar le gambe e le mani per lasciar in pace la testa.
Mi va bene, in fondo, stancarmi di niente, correre di niente e di niente riempirmi i pensieri. E sì che potrei, invece, riprendere a correre sul serio, che il mio luminare si è finalmente espresso, dopo tutti i pollice verso, un sudatissimo e, lasciatemelo dire meritato pollice recto, impressionato dalle mie scarpe nuovissime e da un'ecografia di tutto rispetto. Mi ha osservato, da dietro gli occhiali e quei baffi da gatto sornione che ne han viste tante, e mi ha bofonchiato a mezzo sorriso che ho un tendine "da campione", e che, finalmente posso. Cinque minuti a piedi e cinque di corsetta, poi altri cinque minuti camminando ad altri di nuovo veloci, piano, non strafare, che se te lo scassi adesso non c'è Orava che tenga.
Riprenderò. Stasera, domani, o dopo. In quest'istante, mentre scrivo poco importa. Il tempo con le sue mille sfaccettature da concetto relativo ha riperso importanza.

Ritardo, più che posso, pregustando il momento, l'istante subito prima, assaporando i minuti che mi separano da quell'incontro, da quell'aria che sentirò sulla lingua e nelle gambe, da quei gesti e da quei profumi che, piano, ritorneranno una volta ancora ad essere abitudine, poi forza e chissà, forse anche sorrisi. 

Una sorta di nuovo, primo appuntamento. Ma con la tua ragazza di sempre.
Come potrà essere, adesso posso solo immaginarmelo.
Come sarà ve lo dirò la prossima volta.

In questo momento ho in mente solo il titolo, anche se è un "marchio registrato".

sabato 10 luglio 2010

Una lunga storia d'amore [seconda parte]


Capitolo 3: Il cattivo
"Ci hanno comunicato la diagnosi. Linfoma non Hodgkin. E' una brutta bestia, sai."
Quella telefonata me la ricordo ancora. Me la ricordo bene, per la tua finta calma, quella spaventosa meticolosità nell'elencarmi tutto l'iter delle cure, e i tanti "e se questo non funzionasse allora poi".
Me lo ricordo quell'istante preciso e di ghiaccio, quella telefonata assurda e assordante, quel freddo nero che mi saliva dentro e mi rimaneva a soffocarmi in gola mentre tu parlavi.
Ci separavano, allora come sempre, quel centinaio abbondante di chilometri, ma forse non siamo mai stati così uniti e vicini, neanche quando dormivamo ad una branda di distanza, o quando mettevamo le mani sulle stesse rocce. 
Quel centinaio abbondante di chilometri che è la nostra condizione normale di amicizia, che si sbriciolano in un lampo riducendosi allo spazio che c'è prima di un abbraccio, come quella volta che sei sbucato in quella chiesa in cui salutavo per l'ultima volta mio padre, trovando le mie lacrime che non avevano voluto saperne di uscire, fino a quel momento. 
Me lo ricordo bene, quell'istante, quella fucilata al cuore, nella vostra splendida vita.
Il destino, doveva andare così, è il destino, mi ripetevi, così dannatamente calmo.
E io lo maledicevo, il destino, lo avrei aspettato fuori e caricato di botte, che le cose ingiuste contro cui non puoi e non sai combattere sono quelle che fan venire sempre più rabbia, e non avevo parole, non avevo frasi di circostanza, niente, avevo di mio solo il dolore più puro e sincero, che devastava e la mia incapacità di farti coraggio. Oltre a tutte le speranze e le preghiere ed i pensieri che i "se questo non funzionasse" si esaurissero subito.
Ma i se questo non funzionasse non si sono esauriti, anzi, si sono ingrossati, snocciolandosi uno via l'altro.
Le cure aumentavano d'intensità, le operazioni, prima, quelle terapie che non sai cosa è peggio, se il male o la cura, che ti bruciano anche la voglia di alzare gli occhi poi, e sempre più giù e sempre addosso e sempre peggio. False speranze, falsi forse questa volta.
Il cattivo era un subdolo bastardo e combatteva da vigliacco. Sulle prime pareva che accusasse il colpo, faceva finta di perdere vigore, barcollava ferito, indebolito. Faceva finta, sì, perchè quando si rialzava in piedi tornava ancora una volta più aggressivo.

Ed ho anche un'altra telefonata, nella mia mente, che difficilmente dimenticherò.
Fine settembre a Parigi, Eurodisney e mia figlia, allora piccola piccola che aveva paura dei pupazzi che le correvano incontro per abbracciarla. Ero nello slargo davanti al castello di Biancaneve, le tre del pomeriggio circa. Ed Irene aveva pesantemente accusato gli effetti delle ultime terapie.
Squilla il cellulare, è Francesco, che a quell'ora non telefona mai. 
Si è formata in me la certezza, in quel momento tremendo, mentre guardavo muto il nome che lampeggiava, che Irene non c'era più. Mi è salita in gola tutta la disperazione che avevo sopita, mentre trovavo la forza per schiacciare il tasto verde e rispondere all'amico. Non c'era più né parco né  castello, c'ero io e quel telefono, e c'era Francesco ma non c'era Irene.
E sono stato in silenzio, senza poter dire niente, con le lacrime mi scendevano inconsapevoli e mia moglie mi guardava sbigottita, mentre dall'altra parte Francesco, tutto tranquillo, si informava solamente dell'andamento nostra breve vacanza, perché era quello e nient'altro, il motivo della sua telefonata. E Irene c'era.
Sono stato sgarbato, ho tagliato corto e ho messo giù, lasciandolo un pochettino stranito. E mi sono messo subito a piangere come un deficiente, singhiozzando in mezzo alla calca di bambini e palloncini e colori e guglie d'oro, mentre non riuscivo neanche a spiegare a mia moglie che piangevo ma di sollievo. Irene c'era. Era un lumicino di Irene, una farfalla dalle ali sottili ma c'era.. Ci ho messo una mezz'ora buona, per calmarmi, fare respiri profondi e poi trovare la forza di richiamarlo ed insultarlo di brutto, dicendogli NONFARLOMAIPIU'! con la consorte che rideva pensando che ha un marito che sembrerà anche un orso, ma in realtà è un orso di pura pastafrolla.

E' stata una guerra spietata, sapete. E' stata una battaglia dura come poche ne ho viste senza schivare i colpi. Accettandoli, ma senza arretrare di un passo. Hanno combattuto insieme, donandosi fiducia e coraggio, sostenendosi nei momenti peggiori. In uno degli ultimi Irene aveva confidato di volerla smettere con tutte le terapie, ma solo per aver tempo da dedicarsi, per rimanere loro due soli e godersi serenamente il tempo che restava alla loro storia. Ma sono andati avanti, fino all'ultimo degli e se non funziona.
L'ultimo di questi si chiama autotrapianto del midollo. In realtà l'ultimo era il trapianto da donatore, ma trovare un donatore compatibile è praticamente impossibile.
L'autotrapianto inizialmente consiste in un prelievo. Pelevano e mettono da parte cellule staminali dal sangue del paziente stesso. Le raccolgono prima di sottoporre il paziente a chemioterapia ad alte dosi. In pratica ti bruciano dentro, distruggono il male ma anche il bene, come usare il napalm per scovare due guerriglieri nascosti in un villaggio con donne e bambini.
E così hanno fatto con Irene.
L'hanno quasi uccisa per salvarle la vita.
Hanno colpito con lo stesso getto d'acqua uno scarafaggio ed una farfalla dalle ali iridescenti, schiacciandoli entrambi.

Lei l'hanno poi raccolta con cura, facendo attenzione a quell'unico filo di vita a cui era ancora appesa. L'hanno ospitata in una camera sterile, con una parete vetrata, dove non entrava nessuno e lì le hanno ridato le gocce di vita, una per una, provenienti dal suo stesso midollo. Francesco era sempre lì. Francesco era quel vetro, quel camice, le fredde luci al neon, tutti i capelli che Irene aveva perso. 
Irene, chiusa nella sua bolla, era collegata al mondo dal pc, e io le mandavo mail stupidissime solo per farla ridere, immaginandomi quegli occhi stanchi che debolmente ritrovavano il loro colore.

Ce n'è voluto tanto di tempo ma l'ha ritrovato intatto, tutto quel colore, quel suo sorriso che sa di ieri e le sue mani che, nervose sanno suonare anche l'aria. Ed è tornata a casa.
Rimaneva solo più da aspettare l'esito degli esami. Aspettare il e se non ha funzionato, perchè se non ha funzionato questo sono finiti tutti i se.
Ed era Irene che sosteneva Francesco, che gli diceva pazienza, se non ha funzionato, pazienza.
Se non ha funzionato siamo stati così bene insieme, ci siamo amati di un amore che pochi proveranno così, intenso, puro e luminosissimo. Siamo stati fortunati, per tutto il tempo che abbiamo avuto.
E allora lui, quel giorno là, quando mancavano due giorni al ritiro degli esami, alla condanna definitiva o alla salvezza certa, all'insaputa di tutto e di tutti (me compreso) ha pensato e fatto una cosa incredibile.

Ha preso Irene e l'ha sposata.
Ma aveva bisogno di un testimone ed ha pensato a me. 

Mi ha telefonato un pomeriggio, esordendo subito con "Irene sta bene", per sicurezza, questa volta.
Io ero nel bel mezzo di una riunione e, ignaro gli ho chiesto se avrei poututo richiamarlo di lì a qualche ora. Ed invece di dirmi che no che non andava bene, che aveva bisogno di me e che dovevo muovermi subito, ha detto solo che voleva salutarmi. Non glie l'ho mai perdonato, di essere così com'è. Come non l'ho mai ringraziato abbastanza, di essere così com'è.

E il regalo di nozze più bello lo han ricevuto un paio di giorni più tardi, chiuso nella busta che han ritirato all'ospedale.

E oggi FrancescoeIrene, a distanza di tutti questi anni stanno insieme e bene. Lei si appresta a diventare il più grande direttore d'orchestra in gonnella esclusi gli scozzesi e lui, a quello che mi dicono ultimamente, dovrebbe essere "incinto" (e questa ve la spiegherò, prima o poi).


Nonostante le reciproche promesse e i tanti "un sabato di questi vedrai" non riusciamo a vederci. I concerti di lei, i reciprochi impegni sembrano fatti apposta per impedire che questo accada. Ma non importa, alla fine, perchè mi basta allungare una mano, oltre questa tastiera per toccarli e vedere gli occhi grigi e sornioni da dietro gli occhiali e quelli  neri, profondi e sorridenti di FrancescoeIrene.

mercoledì 7 luglio 2010

Non va

E no che non passa. Cosa ti credevi, che fosse facile, immediato, come spegnere uno dei tuoi interruttori - clac -  che alla successiva riaccensione fosse di nuovo tutto pulito e limpido, dentro ed intorno a te?
No, bello mio, non è così che funziona.

La fine di un lavoro, la fine in genere di quello che prima ti riempiva l'aria, le dita ed i pensieri e che ad un certo punto più niente ti lascia sempre un pò così, come svuotato, per dire. Come se tutta l'energia che ci hai buttato dentro, l'entusiasmo, la grinta, la voglia di farne qualcosa di tuo e tuo soltanto si siano trasferiti con il plotter sui fogli stampati e se ne siano andati via per sempre.

C'è che ti senti svogliato, ti andrebbe solo di parlare e parlare e parlare ma di niente però, così, tanto per dar fiato, da far passare nel nulla questo tempo storto e bastardo che va sempre all'opposto di come lo vorresti, che gira veloce quando lo vorresti lentissimo e quando invece vorresti che schizzasse via, come le immagini strappate dietro ai vetri di un treno in corsa, un frecciarossa tra i tuoi pensieri più fragili e foschi ecco che quello invece non si smuove, rimanendo inesorabilmente fermo alla stazione, senza darti tregua.

Poi, quando alla fine ti metti sul pc per lavorare, per fare, che comunque da fare ce ne hai di nuovo, per levarti quella patina umida e densa di apatia nel cervello, dài, sù, ecco che anche le mail  ti infastidiscono e ti rimane solo la voglia di stare lì, stupidamente, ad aspettare che qualcosa cambi.

E non che non cambia.
Don't preoccup, mi dico. Saresti il capo, qui, no? E per una buona volta fregatene santiddio, se non hai voglia di niente anticipa il permesso che ti darà di sicuro il tuo luminare domani, che quando vedrà quell'ecografia e quelle scarpe scintillanti, no certo che non potrà far altro che dirti vai e corri e fermati solo quando non ce la farai più. 

Tempo, ci vuole, mi dico, alla fine. Come al solito, come mai vorrei, ma soprattutto adesso, mi trovo ad aver bisogno di tempo. Tempo per ritrovare fiato e parole, tempo per cercarmi, sprofondato e perso laggiù in fondo, così in fondo che non riesco neanche più a vedermi.

E le parole faticano, lo scarico è otturato e gorgoglia, e usi solo quelle che galleggiano, nei pensieri disordinati e stantii, altre non ne trovi, le hai dimenticate, sarà per quello che quelli dello studio che ti leggono ti dicono ma non è che copi, che sembra che non sei tu che scrivi, ma signora maestra giuro, no che non ho copiato, davvero , scrivo come sempre, come mi viene, come mi sento, come sanguino, e sì, signora maestra, in questo momento sanguino.

domenica 4 luglio 2010

So solo che adesso

è tutto troppo tranquillo, improvvisamente fermo. Il caldo torrido di fuori si infrange sui vetri dello studio, vuoto, di domenica, tranne me, al solito, e la radio che, al solito anche lei, canta Giorgia, in uno splendido assolo.
So solo che è finito.
Tutto quello per cui ho corso come un matto in questi mesi, miracolosamente, si è esaurito. Come l'acqua giù nello scarico che lascia solo il rumore. Le relazioni concluse, i disegni pronti, i calcoli fatti.
Questi solo sono i momenti più strani, adesso riscopri solo che hai tempo, per una passeggiata, solo per fermarsi a scattare una foto come questa all'uva che sta maturando,  nel giardino delle rose.
Questi momenti di cristallo e silenzio e te solo, in cui adesso hai tempo ma è tardi, e quasi non sai cosa fartene ora, in cui potresti scappare ma dove se hai solo posti che non ti riconoscano, in cui chissà perchè comprendi le mille sfaccettature della parola solo, che tu da solo normalmente ci stai bene e ti basti che corri da solo, nuoti da solo, vai in moto e in montagna da solo, ma quando d'improvviso non ti basti e allora son cazzi, e perchè ti assale quel magone sordo e quella debolezza negli occhi che derivano da troppe cose non dette, non fatte e non udite, o anche solo da troppo tempo davanti al pc.
Ma me lo prenderò, quel tempo, tra poco pochissimo, ma non adesso, ancora un poco no.
Tiro il fiato un istante, leggo qualcosa di voi, taglio l'erba al giardino, non so. Comunque senza far niente non so stare.
Poi scapperò, farò una fuga a casa ad abbracciare questa mia bimba splendida che ieri sera, quando le sono apparso davanti all'improvviso, stanco e tirato ma lì, nella festa del paese vicino a bucodiculoplace dove lei e tutto il parentado vario in trasferta si erano recati, mi è saltata addosso a riempirmi di baci che profumavano di gelato, con i suoi quaranta e passa chili di peso dolcissimo e per tutto il resto del tempo mi è rimasta in braccio, incurante del caldo appiccicoso e delle zanzare.
Per cui tra poco, con quella quietezza strana che è tipica di momenti come questi salirò sulla mia moto, che da quando gli ho "lavato" ben bene e pulito il filtro dell'aria è tornata ad essere guidabile ed aggressiva per quanto può esserlo un Transalp e via, percorrendo quelle strade e quelle curve a cui col caldo, le gomme della moto si attaccano come colla, permettendoti quasi in piega, di accarezzare l'asfalto con le ginocchia. 
Ma ancora adesso no, un minuto, un minuto ancora fatto di niente.
Un minuto solo.

sabato 3 luglio 2010

Una lunga storia d'amore [prima parte]


E tua moglie come sta? - Ti ho chiesto.
Mia moglie è sempre bellissima, e sta bene. Ed è troppo magra.
Mi hai risposto così, in quell'ordine esatto.
Subito dopo ho indovinato il tuo sorriso. E mi ha contagiato, perchè non ho potuto fare a meno di sorridere anch'io.
Beh, sappi che, in quell'istante preciso ti ho invidiato.
L'amore è sempre bello. Bello da vedere, da sentire, da farsi contagiare.
Il vostro di più.
E hai ragione, tua moglie è veramente bellissima. Che cosa invece ci abbia trovato lei in te è il cruccio che mi assilla da diverso tempo. Sospetto tu l'abbia drogata o che abbia passato parte della propria infanzia chiusa in una buia cella d'isolamento; altrimenti fatico a trovare ragionevoli  spiegazioni.

Tema: Loro due.

Svolgimento:
Loro due, che una volta si chiamavano lui Francesco e lei Irene, da quando si sono incontrati, per me sono diventati FrancescoeIrene tutt'attaccato, perchè non si pronunciano più separati da tempo immemore, "ho sentito FrancescoeIrene oggi", riferisco la sera alla consorte, oppure "perchè non andiamo a trovare "FrancescoeIrene per il finesettimana?".
Detto piano piano, tra me e voi che non li conoscete, ho un debole per questi due, anzi, li adoro proprio. Mi onorano da tempo della loro sincera amicizia e sono per me, come già ho scritto una volta, la più bella storia d'amore che conosca.
Già, perchè FrancescoeIrene non sono una coppia qualsiasi, di quelli che magari vedi sempre attaccati e bacinibacinibacini, no, niente di tutto ciò. C'è qualcosa nel loro viversi insieme, matti e felicissimi, nelle loro indipendenze che legano, nel sorriso musicale che intreccia sempre i loro sguardi che in qualche maniera ha reso migliore anche me. 
Speciali? sì, assolutamente e, se ve lo dico io che sono uno spirito fortemente critico ad estrazione plantigrada, leggermente asociale e simpatico spesso come un cucchiaino di merda a digiuno, non potete non credermi. 
Comunque, a supporto di quanto testè asserito, vado "sinteticamente", com'è mio solito costume, a raccontarne un pò, di cosette di questi due qua. Così, perchè ce ne ho voglia adesso, anzi a onor der vero questa voglia mi frulla in testa già da un pò.
Pronti? Dai, che vado ad incominciare.

Capitolo 1: La parte di FrancescoeIrene che è Lui
Lui, il Francesco, che ha un soprannome che solo io e l'altro possiamo usare e che non diremo mai a nessuno nemmeno sotto tortura, la prima volta che i nostri destini si sono incrociati l'ho considerato leggermente meno dell'unghia del mignolo e lui (me l'ha raccontato poi) ha subito pensato: "ma guarda questo quant'è stronzo". 
No, Signori della corte, nell'arringa della mia difesa inserisco, come attenuanti generiche, la ricerca della sopravvivenza dei giorni insulsi del CAR e la lontananza da casa. Però, se devo dirla tutta, in quell'occasione ci aveva preso in pieno.
E a distanza di tutti questi anni, di insultarmi questo bel tomo non ha mica ancora perso l'abitudine, sapete? Infatti anche nell'ultima telefonata mi ha apostrofato usando con enfasi lo stesso epiteto di allora almeno una decina di volte (chissà, forse intendeva festeggiare la ricorrenza del primo insulto), perfino scandendo bene le sillabe.
Ma lui può. C'ha il pass per gli insulti, lui. Ed in fondo non mi offende mica, certo che. Anzi, presumo che, tutto sommato, una sorta di ragione ce l'abbia pure.

Aria vagamente da menestrello, ha alle spalle anni di Conservatorio e sa suonare la chitarra in maniera impeccabile, ma per contro non ti sa fare neanche un giro di Do senza lo spartito, di conseguenza nell'attività di rimorchio al mare sulla spiaggia davanti ad un falò è perfettamente inutile che ti ci allei. E' una delle poche persone di cui ascolto i giudizi, (quasi) sempre. Abbiamo numerosi punti in comune ed in altrettanti siamo diametralmente all'opposto. Due caratteri diversi e due bastian còntrari (lui moolto più di me, pensiamo l'uno dell'altro) come pochi se ne trovano. Bruno io, biondo lui, io ingegnere e lui architetto. Adoriamo la montagna, il mangiar bene ed il bere altrettanto - Sua è la mitica frase dell'ultimo giorno alla Direzione Genio di Udine (ragazzi, quello che una persona beve in una vita normale noi ce lo siamo bruciati in meno di dieci mesi, ora si deve cambiar registro). In quel periodo abbiamo girato in lungo ed in largo il Frìuli ed il Veneto, bevendo grappe sul ponte di Bassano e discutendo animatamente sulla pronuncia della parola giòstra, gustando prosciutti di Sauris e frico fumanti. Siamo saliti su montagne splendide ed abbiamo iniziato il Mondo, allora ancora uomo di pianura e dichiaratamente astemio, alle gioie della montagna e della grappa ai mirtilli.
Dolomiti e rifugi, con qualche puntata all'estero, (anche se nel periodo del militare non si sarebbe potuto), con una leggerezza ed una serenità che fa piacere anche solo ricordarle.

E' fin troppo facile, quando ti trovi improvvisamente solo, lontano da casa, dagli affetti e da tutte le  sicurezze che ti sei pazientemente costruito, trovare momentaneo conforto in chi condivide le stesse mancanze: ed è altrettanto facile perderlo, quel feeling, quella confidenza, una volta che tutto è rientrato, che sei ritornato nella tua sfera di normalità. E' normale che succeda, così come è poi realmente successo con diversi di quel gruppo effervescente di allora.
Ma con lui questo non è successo. Il valore aggiunto che ha donato alla mia vita non si è smorzato, a causa della lontananza, della quotidianità, del non frequentarsi. E' migliorato, anzi si è arricchito, con il tempo, aggiungendo note nuove, profonde e preziose.
Anche perchè, poi lui ha incontrato Lei

Capitolo 2: La parte di FrancescoeIrene che è Lei.

Lei, l'Irene, si fa prima a dire che è uno splendore e basta. Una di quelle che noti quando passa perchè non puoi non farlo, che ti incanta con quello sguardo d'inchiostro che ti vede per come sei, non per come vorresti apparire.
Bella, di una bellezza che senti, che anche se la cospargi di pece e la butti in un barile di piume (comunque si potrebbe provare...) ne esce bella comunque.

Musicista nell'anima e nella vita e leggermente matta come sono un pò tutti i musicisti che conosco, ma, solare, tenace, fresca.
E' una di quelle che quando la vedi per la prima volta di fianco al tuo amico capisci che sì, si sono ritrovati e che si appartengono, da sempre e per sempre. Non è fortuna, no, è più semplicemente il completamento di un disegno, di un percorso che  che qualcuno nel tempo aveva già tracciato.
E ti viene quell'affetto da papà orso che se anche solo provate a guardarla di storto, beh, avrete a che fare con me.

E così eccoli qua, ve li presento. FrancescoeIrene.

E a voi FrancescoeIrene, vi presento i miei lettori del blog, Piacere.

Qualcuno magari mi dirà ma che ci hai visto in questa storia di così speciale da andare a raccontarlo in giro, sì, vabbè, carini, ma di gente così ne conosco a dozzine anch'io, se permetti. 
Eh no, cari miei. Mica permetto, perchè mica è finita qui. Anzi, è proprio adesso che comincia il bello.
Perchè, come nelle più blasonate storie d'amore dei film, dove non può andar tutto bene se no che gusto c'è e poi il pubblico si annoia, a un certo punto, colpo di scena ed irrompe sulla scena un personaggio: il cattivo.

E, vi assicuro, se non è cattivo questo.....
[continua......]

giovedì 1 luglio 2010

Le mie nuove compagne di giochi

Così, leggere e sbarazzine, giallo lime, che appena viste, pregustandomi i commenti scandalizzati della consorte (non penserai mica di andartene sempre in giro con... QUELLE??), con ho potuto non innamorarmene perdutamente.
Mi son fatto dare mezzo numero in meno perchè mi piacciono così, giustissssime, le ho calzate, provando il giusto feeling e immediatamente mi son sentito pronto.
Me le sono tenute subito, mettendo nella scatola le vecchie  e malconce Saucony e le ho saggiate, provando qualche passo veloce che ho scoperto di avere in tasca. 
Preso poi dalla mia solita mania ossessivocompulsiva da acquisto mi son anche regalato una bellissima Maglia smanicata bianca e nera GORE e un paio di calzette.
Certo la maglia è stato un acquisto scellerato, in effetti costa un patrimonio, quasi la metà delle scarpe, e quando qualcuno controllerà le spese della carta di credito allora sì che saran dolori ma, in fin dei conti, dopo quello che ho passato, fatto e disfatto, dopo le ore, le albe, la mia bimba che sento al telefono che mi dice dove sei e quando torni, che quando torno e quando vado via è solo una sagoma di bimba in penombra che dorme e mi sogna e che non posso stropicciare di baci e svegliare, secondo voi, mi meriterò qualcosa di più o no?
Alessandro e sua moglie, i gentilissimi titolari del negozio dove mi rifornisco (mi ci ha portato Renè ed da allora usufruisco del suo trattamento di favore) pensavano di sì, ed io pure, perciò...  

Facendo attenzione a non sporcarmele di nero con la pedalina della moto son tornato in studio. Le mie Saucony non hanno protestato, stanche forse più di me, accettando di buon grado la pensione nella scatola, dopo otto lunghi mesi di attività forzata, di corse e cantieri, di scale e stampelle. 
Perchè sia chiaro che non le butto. Non butto le scatole, figuriamoci le scarpe. Le userò ancora, forse le parcheggerò in montagna, passando impunemente dentro le pozzanghere, come sempre, per usarle negli allenamenti in salita, sorpassando lente comitive di escursionisti che ti guardano sempre stranito, con il loro carico da soma e passi pesanti ed io con berrettino e walkman.

Mi hanno accompagnato bene, in fondo. Non hanno protestato nè per il caldo o per la pioggia, per l'asfalto, la polvere o per il grasso della pedalina del cambio che frulla le stringhe. Prendendo in prestito la prima pubblicità nella storia dell'Adidas "una scarpa randagia, ma fedele", non potrebbe essere espressione più "calzante". E se devo fare una dedica, perchè con questo di oggi i miei post "pubblicati" assurgono a quota 100  (in realtà sarebbero 101, ma uno è stato ritirato e dunque non conta), non posso non pensare ad altri che a loro.
Semplicemente perchè, dei cento post che ho scritto fino ad oggi, questo, sicuramente, è il primo che scrivo senza queste due ai piedi.