giovedì 13 agosto 2009

Chiuso per ferie

bbene sì, non lo credevo possibile ma anche quest'anno è arrivato. Con tutte le robe che devo ancora fare! Con tutti i lavori da chiudere e le cose da organizzare. Con tutte le ultime idee da buttare a secchiate, da tante che ne ho. O anche solo con tutto il tempo che devo ancora dedicare a me stesso qui, nella riposante tranquillità del mio studio, che mi sono costruito pezzo per pezzo e che adesso, senza il costante fastidio del telefono e con la sola vicinanza delle note sospese in "per fare a meno di te" di Giorgia, ripetuta ancora e ancora, trovo bellissimo. Devo chiudere quella porta, mettere l'antifurto, dare l'ultima innaffiata alle mie rose, alla pianta dei limoni, al benjamin che da quando l'ho portato fuori si sta riprendendo, e sì che pensavo fosse morto. Taglierò l'erba ancora una volta, perchè mi piace saperlo pulito ed ordinato anche quando non ci sono, perchè non deve essere bello solo per gli occhi. Poi chiuderò il portone che qualcuno mi ha detto essere grigio e non verde (sono leggermente daltonico), cosa che mi ha fatto sorridere pensando alle indicazioni date in questi anni a chi doveva raggiungerci. Accarezzerò tutti e due i pomelli d'ottone che brillano come fossero d'oro e, fino alla fine del mese, vedrò di calarmi in una realtà diversa, fatta quasi esclusivamente di mia figlia, delle montagne e del correre. Ho intenzione di riposarmi sfinendomi, e anche se sembra un paradosso, è proprio quello che spero di fare.

L'altro ieri mi sono portato in studio la mia ciccia e poi è venuta a correre con me, lei ovviamente con i Rollerblade. E' riuscita a piantare lo stesso casino sia in studio che fuori. In studio, al posto di fare i compiti ha giocato, disegnato se stessa a grandezza naturale sui fogli del plotter ed ha timbrato mille bigliettini nascondendoli dappertutto; nei cassetti delle scrivanie, nella macchinetta del caffè, persino in bagno. Al Parco Ruffini mi ha rallentato per i primi due giri, incespicandosi, andando piano, girando dalla parte sbagliata, volendosi mettere le cuffie e perdendole. E al terzo giro ha preteso di provare a correre con me senza pattini. E' durata meno di duecento metri, e poi ci siamo dovuti fermare, sfinita e sudata fin nei capelli. La cosa mi è costata poi un gatorade, tre panini ed un gelato che era più grosso di lei. La sera non è che si sia addormentata, è crollata letteralmente. La mattina dopo mi ha detto che preferiva andare da sua zia.

Ieri sono andato a correre da solo. Sarà merito delle scarpe nuove ma il male al tendine sembra un dolore piccolo piccolo, una punturina di spillo appena sospirata che aumenta solo se ci pensi e cerchi di cambiare il modo di mettere il piede. E ieri ho ricorso bene. Intendiamoci, fare 7 km in 38' 50 non vuol proprio dire correre, ma a me, per il momento basta. Per il momento.

Ma ho corso bene per altri motivi. Ho corso sentendomi bene e ho elaborato "infinite storie" che devo proprio trovare il tempo di mettere giù. Tra queste l'incontro tra Sveva e Paco, "Al di là dello specchio", "La sorpresa del dopo", oltre a quanto è già giù nei miei post in modalità Bozza. Quindi ho corso non pensando al correre, ma liberandomi dal mio peso mi sono staccato da me ed in pace, con una serenità che da tempo non mi prendeva, ho dato libero sfogo ai miei pensieri. E' cominciato osservando le ombre degli alberi sull'asfalto di una giornata a tratti afosa, con le nuvole che giocando a fare il mio gioco, assecondavano il mio percorso, coprendo il sole nei tratti in cui non ero riparato da alberi. Non c'era nessuno, ad eccezione del signore con il giornale che c'è sempre, con il suo camiciotto azzurro e i radi capelli bianchi attaccati alle tempie e che percorre un tratto ombroso avanti ed indietro, interrompendo la lettura quando passo. C'era anche il solito vecchietto che in pantaloncini e canotta si trascina correndo come una tartaruga stanca nel senso opposto al mio, curvato dall'età e dalla fatica, con il sacchetto di plastica con il ricambio stretto nella mano sinistra. C'erano i toretti che gorgogliavano d'acqua fresca, canto di sirene blandamente cercando di fermarti e c'era il vetro della giostra, quello che quando ci arrivo di fronte mi rimanda sempre l'immagine distorta di uno che non sono io, che corre stanco e male. Ed è per questo che adesso ho deciso di non guardarla più. Non cerano i bambini chiassosi ed imprevedibili di estate ragazzi, che deve essere finito anche qui. C'era la musica che copriva il mio fiatone ed io, imbrigliato tra mio cappellino e la mia maglia della maratona, ci son finito dentro. La musica che sento è racchiusa dentro una playlist che è praticamente la stessa da almento quattro mesi, con piccole modifiche che non cambiano il tempo totale. In pratica se nell'ultimo chilometro comincia l'ultimo brano, vuol dire che sono andato da schifo. Ieri a momenti ce la facevo, ne ho sentiti solo cinque secondi. Ci sono brani lenti e veloci, cose che piacciono solo a me e brani notissimi, tutti con qualcosa ancora da darmi. La penultima è Solsbury Hill di Phil Colins


e lì capisco se o quanto devo recuperare. Ieri sono letteralmente sparito con "Now we are free" di Enja, il brano cardine de il Gladiatore.


Mi sono immedesimato pienamente, spegnendomi da dov'ero e ritrovandomi a carezzare con la mano le bionde spighe di grano, mentre il sole cospargeva l'aria di un giallo dorato ed il vento creava e trasformava di continuo le onde sinuose da dov'ero io fino alla sommità della collina. Ero al di là della fine della mia vita e provavo un caldo piacere come di chi ritorna soddisfatto, finalmente a casa. Ad attendermi, a differenza di quello che succede nel film dove c'era sua moglie e suo figlio, c'erano tutti i miei amori.

Amori vecchi e dimenticati, altri freschi e musicali; quelli dei miei parenti da troppo tempo andati avanti, l'amore di mio padre e il mio per lui, mai completamente espresso. C'erano amori mai cominciati, che non avevano mai avuto il sufficiente coraggio: amori non ricambiati e amori non compresi. C'erano amori consumati e quelli non ancora provati. C'erano tutti, ma proprio tutti e tutti insieme mi danzavano intorno, piccole briciole incredibilmente scintillanti, lucciole festose di una giornata serena, e si disperdevano e ritornavano a posarsi tra le mie dita, forti e vitali come nel loro tempo migliore. "Sei tornato", dicevano le scintille, allegre.
Mi sono ritrovato un chilometro più avanti e non mi ricordo nulla di quel tratto, giuro. E mi sono subito riperso con tutti gli altri brani, tra cui "Almeno tu nell'universo" cantata da Elisa, che mi ha ricordato di Cri e delle sue lacrime. Elisa la canta da Dio, ma Mia Martini la cantava con una sofferenza che la rende inarrivabile 

Mi ha riportato sulla terra Phil Collins, dandomi una pacca schersosa sul sedere per farmi accellerare un pò sull'ultimo chilometro. Ho poi finito nella zona degli attrezzi a defaticare per cira un quarto d'ora, recuperando e, sentendo Malika Ayane. Poi mi son diretto verso la mia moto, parcheggiata pigramente sotto gli alberi, discretamente soddisfatto e sereno.

In questa giornata non posso non ringraziare il solerte vigile urbano (per Clara: com'è che li chiamate, voi hooligans?) che appioppandomi ben 100 Euro di multa, in un giorno in cui in giro non c'era nessuno a cui potessi dar fastidio, ha pensato bene di riportarmi generosamente l'umore sotto le scarpe da corsa. Buone vacanze anche a te, grandissima testa di cazzo.

Beh adesso è l'ora. Nello zaino ho messo la roba per correre, lettore, occhiali, berretto, ecc. Poi un taccuino per non perdermi niente quando non avrò una tastiera a portata di mano, ed una delle mie amate stilografiche. La Pelikan Souveran della foto deve riposare, forse la sostituirò con una delle mie "bellissime", quelle numerate, per intenderci: Waterman Serenitè, Parker Duofold Mandarin o Delta Pompei: non so, devo ancora scegliere. Forse alla fine ne prenderò una meno blasonata, che anche se la perdo tra i monti non torno indietro a cercarla con la pila di notte. La roba da arrampicata per questa volta rimane relegata in un angolo dello studio. In moto non riesco a portarla, ma comunque ho già troppe cose da fare.

Perciò buone vacanze a tutti. A Paco e a Sveva, a Mondo e Lucia, a Patti ed anche a Bruno, ma sì. A chi mi conosce e a chi no, indistintamente e con la stessa simpatia. Ai primi sappiate che se volete venire a trovarmi sapete dove stiamo e sarà come sempre un piacere; ed in attesa di riparare il forno e riportare in auge la mia famosa (?!?) farinata, sarò in grado di ovviare con l'incredibile pasta al pesto (con le patate!!) di mia mamma e carne di ogni tipo, che cotta sulla pietra ollare viene una favola. Agli altri mi potrete trovare facilmente avanti e indietro sul percorso di allenamento della Decauville, spero la mattina presto o in Valle Stretta, nel lungo tratto pianeggiante che costeggia la parete dei Militi. Cappellino, walkman, occhiali da sole anche se piove e le mie Saucony nuove. E tanti sogni ancora da scartare.

Arrivederci a settembre.


D&R

martedì 11 agosto 2009

Neve

Sembra neve, la nostra finta storia
dei forse e dei se
delle cose non fatte e delle troppe parole rimaste tra le labbra
dei momenti distanti e dell'esplosione del mondo in un solo sguardo
del battito d'ali del cuore in uno sfiorarsi le mani
nel lento e silente cadere delle nostre vite
non un cristallo uguale, non un sussurro, nella fredda complessità dei nostri cuori.

Ma se solo riuscissi a intuire
la possibilità di sciogliere il tuo con un bacio
metterei tutto me stesso in quel gesto.
E se tu sapessi leggere la trasparenza nei complicati disegni di me
fatti di graffi e scarabocchi su fogli sempre bianchi
se riuscissi a decifrare questo mio linguaggio fatto di troppi silenzi
saresti sola e qui, a bussare alla mia porta

Allora saremo neve.

[James Degorio - Danzando su solitari sorrisi ed altre storie]

Appeso con due dita alla vita - Sveva

"Arrivo, arrivo subito, signora Lucia" La vocina querula da vecchia chioccia l'aveva chiamata di nuovo, e poi ancora. Finì di ripiegare le camicie da notte che era andata a ritirare in lavanderia ma che, secondo la vecchia, "qua non le stirano per niente bene", per cui lei doveva riprenderle e ridargli una una spuzzata di appretto ed una rapida passata col ferro. Le appoggiò delicatamente nella cassettiera e tornò in salotto, dandosi una rapida pulita alle mani nel grembiule bianco della divisa. La signora ci teneva molto al decoro, per cui, quando erano nell'ampia casa di Torino o nell'appartamento in montagna, sempre lo stesso che prenotava da ormai più di vent'anni, immancabilmente pretendeva che lei si acconciasse con la divisa e la crestina "casomai dovessimo ricevere visite". Povera vecchia; oramai le poche volte che qualcuno bussava alla loro porta era unicamente il servizio in camera.

La vecchia era sistemata sulla poltrona imbottita in legno e tessuto ruvido vicino alla portafinestra che dava verso il parco e guardava fuori, in alto oltre le pendici boscose del Colomion. Sorrideva, con i suoi vecchi occhi azzurro chiaro, resi velatamente liquidi dalla cataratta. "Eccomi, signora Lucia. Di cosa ha bisogno?", disse nel suo italiano che avrebbe portato per sempre la pronuncia della sua terra, facendo un inchino appena accennato, come le era stato insegnato appena aveva preso servizio da lei.

Lucia distolse lo sguardo da fuori e per un attimo, il contrasto tra la luminosità dell'esterno e la leggera soffusa penombra dell'interno della camera dai colori caldi, le impedì di vedere la ragazza che le stava di fronte, indistinta in uno spazio scuro. Chiuse per pochi secondi appena gli occhi, mentre con le dita accarezzava la levigatezza del pomolo di legno della poltrona riconoscendo al tatto le venature e, quando li riaprì, i colori della stanza parevano avere ripreso vita e sia le pareti sia gli oggetti erano diventati chiari e conosciuti. Ora la vedeva bene. E sorrise di nuovo guardandola, vedendola bella come lei stessa era stata, mille anni fa, maledetto il tempo che era passato troppo in fretta, lasciandole addosso uno zaino pesante carico di dolori, di ricordi e di solitudine.

Era un sorriso compiaciuto il suo, perchè era stata esclusivamente merito suo la trasformazione da crisalide a farfalla, da ragazzina sparuta chiusa in uno spaventato silenzio ed in un informe cappotto di tre taglie più grande che mostrava più anni di lei (così le era apparsa al loro primo incontro) a quella donna bella, sicura di sé e elegante anche nella divisa che aveva indossato da subito senza neanche un'obiezione, e che ora le stava di fronte in rispettosa attesa. Per molti era la sua badante, per alcuni la domestica, ma lei, che in un atteggiamento a volte dispotico ed egoista, come spesso sono i vecchi, nascondeva la voglia di rivedersi giovane, l'aveva praticamente adottata e la considerava quasi definitivamente figlia sua. Una figlia nuova di zecca, per ripartire un'altra volta da capo, per riprovare a non commettere gli stessi errori, visto che gli altri, i figli veri, il sangue del suo sangue, passavano a trovarla solo quando erano a corto di quattrini, nella malcelata speranza di poter finalmente mettere le grinfie sulla sospirata eredità. Ma lei teneva ancora duro. Non gliel'avrebbe data vinta così facilmente, non ancora almeno. Con tutte le cose che aveva ancora da fare.

"Sono le cinque, cara". Visto che è una bella giornata calda prenderei volentieri il tè nel giardino. Preparati". Aggiunse un delicato "vai cara" e si girò nuovamente a guardare al di là dei vetri, verso la distesa di alberi, che nascondevano intatti tutti i suoi ricordi. Fuori da lì la voleva senza divisa, elegante e discreta.

Sveva aveva occhi limpidi della gente della sua terra. Occhi che guardavano lontano, verso il paese da dove, cinque anni fa, era stata strappata, lasciando la sua famiglia alla stazione a vederla partire, immobili nella loro disperazione dovuta alla necessità di vivere; sua madre, la vecchia nonna e due fratellini così piccoli che a pensarci ancora faceva male dentro; tutte le sue lacrime mute si erano confuse alle gocce di pioggia che rigavano il freddo vetro dall'altro lato del finestrino. Era partita aggrappata a quella maniglia di lucido acciaio senza più aver la forza di abbassarla e mettersi a gridare di aspettarla e di non crescere in sua assenza, mentre lei navigava verso l'incognita del nulla, per cercar di portare un pò di denaro dentro quella casa ed aiutare i piccoli a crescere. Era andata via. Quel giorno era morta in un piccolo pezzettino di cuore.

E sì che di denaro ce n'era un tempo, in quella casa. Non tantissimo, ma si stava bene, insomma. Era il tempo sereno di quando su tutto incombeva la tranquilla solidità di suo padre. "Il mio generale" lo chiamava affettuosamente sua madre, perchè era una presenza imponente, con un paio di baffoni che quando lei era piccola le facevano spesso il solletico sul collo e che gestiva da sempre la vita e le scelte della famiglia. D'altro canto organizzare le squadre al porto era stato il suo lavoro, e lo svolgeva bene, rispettato da tutti.

Per lei era assolutamente stato il grande amore di bambina, il suo porto sicuro al riparo dalle folate di vento impetuoso della vita. Era il suo punto di riferimento da sempre e sarebbe stato per sempre così. Non poteva immaginarlo diversamente. Da piccola aveva fatto un sogno che ogni tanto, ancora adesso, le capitava di rifare uguale. Lei ancora bambina ma indossava un candido abito da sposa ed era in chiesa, con suo padre elegante al fianco che la sosteneva, con il suo solito passo fermo e preciso, mentre la conduceva lento e cadenzato verso l'altare, infiorato ed illuminato da mille luci filtrate dai vetri colorati delle alte finestre. All'incrocio delle navate, al termine del tappeto di velluto rosso, ad attenderla sorridente con le mani protese ad accoglierla c'era un ragazzo alto e bellissimo, con un paio di baffoni imponenti. Suo padre da giovane. Si svegliava nella notte chiamandolo per nome, con il viso rigato di lacrime.
Invece la malattia se l'era portato via così in fretta da non lasciare a nessuno il tempo di capire e di disperarsi. Gli occhi di suo padre rimasero gli stessi anche alla fine, cosparsi di una dolcezza infinita mentre la guardava e non riusciva a comprendere che si sentiva morire. Lo seppellirono nel triste cimitero della loro cittadina una grigia mattina di metà febbraio, a meno di un mese da quando era andato a farsi visitare per un leggero fastidio la prima volta. L'aria lattiginosa ed umida profumava del salmastro del mare che, oscuro ed umorale, li stava pensoso ad osservare, al di là delle tante gru del porto, in quella piccola penosa processione di donne con il foulard annodato sotto il collo ed uomini con il vestito buono, dalle mani grosse e callose che maltrattavano nervosi i loro consunti berretti.

Le costose spese per ritardare l'inevitabile avevano rapidamente disseccato il magro gruzzoletto che in una vita erano riusciti faticosamente a mettere da parte. E così, di colpo, si erano ritrovati soli, senza un soldo e senza più nessuno al timone a condurre la loro esistenza. Sbandati.

Il lungo viaggio in treno le aveva regalato una nuova vita in Italia, a più di duemila chilimetri dalla sua Lituania. Proveniva da Klaipéda, industriosa cittadina di mare che si affaccia sul grande porto, e lì aveva vissuto fino ad allora, spostandosi solo per le brevi vacanze. Bionda come buona parte dei suoi connazionali, aveva splendenti occhi marroni che, nell'incanto del tramonto sul mare di piombo del Nord, spesso prendevano sfumature verdastre. Da quando era nata aveva respirato l'aria del mar Baltico e la sua pelle era stata abituata fin da piccola al freddo ed al vento tagliente dei lunghi e grigi inverni, quando la notte lascia il posto ad un giorno di poco più chiaro dell'ardesia. Aveva corso e giocato tra le gialle dune ventose spruzzate dalle chiazze dei lunghi steli d'erba nelle sue estati ed aveva passato interi pomeriggi a fantasticare sulle tante imbarcazioni che arrivavano e partivano. Quando il tempo lo permetteva, da piccola, andava spesso a prendere suo padre all'uscita del lavoro e lui, anche se stanco, immancabilmente se la metteva sulle spalle, le prendeva le mani nelle sue e le indicava i paesi lontani, confusi nella sottile linea d'orizzonte dove finiva il mare. Le raccontava mille cose: da dove arrivavano e dove andavano tutte le navi con i container colorati attraccate al porto, a cosa serviva ogni gru e le descriveva minuziosamente gli avvenimenti della giornata di fatica, conditi di particolari creati apposta solo per farla ridere. Con pazienza e affetto rispondeva tranquillamente a tutti i suoi infiniti perché di bambina. Con tenerezza la portava a vedere le regate delle barche a vela e poi se la riportava a casa in braccio, placidamente addormentata e cullata da quelle braccia forte create appositamente per lei.
[W.i.P. - Si sente che mi piace? Eh sì, signori, questa è Sveva!]

martedì 4 agosto 2009

Appeso con due dita alla vita - Incoming Sveva

Nella confusione del momento, con Bruno che, sorretto per le braccia si stava lentamente tirando su a sedere, con l'aria di chi è appena stato catapultato da un altro pianeta, tra il vociferare condito di termini tecnici dei medici, e il borbottio indistinto di chi ancora commentava in piccoli crocicchi come al mercato del sabato, i pensieri di Paco erano imbrigliati nel continuo sussurrare del vento e nel chiacchiericcio argentino del ruscello vicino. Il resto aveva perduto ogni sostanza e gli sembrava di galleggiare leggermente, con piccoli movimenti in orizzontale. Sarà stato l'abbassamento della tensione nervosa, saranno state le mani di Patti ma lì, con gli occhi socchiusi ed il caldo del sole che gli si spalmava liquido sulle palpebre socchiuse e si insinuava sulla pelle, passando tra i peli ispidi della barba di due giorni, stava per assopirsi. Il richiamo di Renato, che lo fece sussultare, non poteva essere più efficace: "Signore e signori, con l'ausilio del nostro sponsor qui presente", indicando l'uomo con la telecamera, "Il nostro Paco, alias l'Uomo Ragno del giorno, colui che avete potuto ammirare nelle sue spericolate evoluzioni e salvare, con estremo sprezzo del pericolo, la vita al qui presente... a quest'essere qua, questo coso, dai, su saluta con la manina, quella sana però" aggiunse, alzandogli un braccio inerte e scuotendolo, facendo ridere il gruppetto di fronte che ormai aveva occhi per Paco e per lui, alternativamente. Renato lasciò andare la mano di Bruno e il braccio tornò automaticamente lungo il fianco, come un manichino con le articolazioni svitate. "Stavo dicendo, il nostro eroe che sicuramente merita il vostro applauso, offre da bere a tutti!!".

La promessa di bere gratis immediatamente sortì un improvviso picco di simpatia nei loro confronti. Sentì partire l'appaluso, unito ad acuti urletti di incitamento. Vide la gente farsi avanti, con i volti abbronzati e sorridenti. Si trovò di colpo pieno di amici, lui che di amici ne aveva meno delle dita di una mano. Ricevette cordiali manate sulle spalle, complimenti, dammi il cinque. Si ritrovò ancora seduto sullo zaino ma con un bicchiere in mano senza sapere da chi lo aveva ricevuto. Guardò Renato con un mezzo sorriso stanco; lui di bicchieri in mano ne aveva due, uno di bianco ed uno di nero, e stava contrattando per il terzo. L'arancione e le striscie fluorescenti di una divisa gli occuparono lo spazio visivo: un medico, giovane con la barba e che portava occhiali dalla montatura strana, gli si era avvicinato, incurante del casino e gli stava esaminando un fianco con occhio critico. "L'altro lo portiamo giù con noi. A parte il polso non sembra ci sia niente di rotto. Invece bisognerebbe dargli un'occhiata a queste" Gli puntò un dito tra le costole, facendolo saltare dal male. Lui grugnì e gli lanciò un'occhiataccia. Il dottore aggiunse, con una voce cordiale e leggermente apprensiva. "E fossi in lei passerei giù da noi a farsi fare una lastra e per farsi medicare tutti questi tagli ed i graffi, prima che si prenda un'infezione. E si compri un paio di brache. Ah, e per l'onorario basta che mi leghi una volta alla sua corda. A me andrebbe bene" gli disse sorridendo, porgendogli la mano.
Paco lo guardò, sorrise a sua volta e gliela strinse. "Per l'infezione non si preoccupi dottore" li interruppe Renato. "Neanche le zanzare lo pungono a questo, perchè se no muoiono, mentre per arrampicare sah, le toccherà prenotare. E i tempi sono lunghi, a meno che..."
"Ho capito, ho capito", rispose il dottore; "Una o due bottiglie?" ed all'espressione uguale dei due che lo guardavano divertiti dopo aver esclamato insieme, come se l'avesserro studiata da tempo "e perchè solo due?" risero tutti insieme.

Bruno venne infine caricato sull'ambulanza e con lui salì sua sorella, che gli lanciò un'ultima, lunghissima occhiata, dopo aver lasciato a Tony le chiavi del SUV, che stava ordinatamente cominciando a recuperare materiale. Di lei rimase gli impresso il viso, mentre gli parlava. Lui la guardava come ipnotizzato. Lei parlava e Paco non la sentiva. La fissava dritta negli occhi incapace di staccarsene, quegli occhi color nocciola che gli facevano venir voglia di prenderle una mano, baciarne l'incavo del polso e sentirne i battiti con la pressione delle labbra

"Senti bell'imbambolato" lo distolse dai suoi sogni Renato "io, magari, avrei ancora voglia di farmi un paio di tiri, visto che in tutta la giornata non ho fatto altro che recuperarti mentre volavi. Ma se mi assicuri che non ti perdi a pensare, e non c'è bisogno di tanta immaginazione per capire a chi, provo a salire, altrimenti mi faccio fare sicurezza da qualcun altro. Vero Tony?" disse girandosi alla loro sinistra, dove quest'ultimo aveva ormai riempito nuovamente il baule dell'auto e che si vedeva chiaramente che non aveva tutta questa voglia di tornare indietro. Gli mancava da metter dietro solo più la costosissima sdraio, che aveva appoggiato in piedi contro la carrozzeria lucida.
"Se mi rendi il piacere nessun problema", rispose prontamento Tony, con un ampio sorriso "d'altronde anch'io, a parte fare il facchino, non è che mi sia ammazzato di fatica oggi. Mi andrebbe sciogliermi un poco i muscoli": non stava aspettando altro.
"Beh, allora il problema è bell'e che risolto; io mi metto qui all'ombra a riposare e voi vi fate una bella via lunga, disse prendendo con una mano lo sdraio e sedendocisi sopra. "Nel frattempo do un'occhiata a quei salamini che avevo portato.." - "Non ci provare, sai? Te l'ho già raccontata la leggenda della sfiga che colpisce le cose che non vengono mangiate in compagnia? Fan venire la cagarella. E poi dovremo riempire la pancia con qualcosa di solido, visto che il nostro sponsor non aveva praticamente roba da mangiare, ad eccezione di tutto quel poco che gli ho sgraffignato prima e che ho nascosto dentro al tuo zaino". Paco curioso aprì lo zaino: ecco perchè quando si era seduto gli era sembrato più grosso! dentro c'erano due bottiglie di grappa di mirtilli, due formaggette intere, un pezzo di mocetta, un salame, e una intera serie di creme caramel e budini al cioccolato, oltre a due rotoli di carta igienica. " E perchè questi?" gli disse tirandoli fuori ridendo, mentre gli altri due si stavano già allacciando le scarpette. "Perchè mentre uscivo mi ha beccato sua moglie e quella era la prima cosa a portata di mano. Gli ho detto che mi mandava suo marito e che ci serviva per fasciarti le ferite... e ci ha creduto!". Risero ancora, insieme. Poi Renè, cavallerescamente mostrò la via a Tony dicendo "prima tu" ed iniziarono, alternati a salire.
Paco si mise disteso sulla sdraio comoda, con un filo d'erba in bocca a vedere i due salire e pigramente seguire il lento muoversi dell'ombra delle nuvole che si proiettavano sulla parete, lente, che si scioglievano e si riformavano, cambiando forma. Adesso, con i muscoli che si erano raffreddati, sentiva veramente male. Anche allungare o piegare una gambia gli procurava dolore. "Passerà" pensò tra se, "ne ho passate di peggio". Basta un poco di tempo spalmato sulle ferite e queste prima o poi guariscono". Passò il polpastresso dell'indice ad inseguire i percorsi irregolari di una cicatrice che gli correva lungo il ginocchio destro, a sentire la differenza di spessore del tessuto e l'irregolarità prodotta dove erano stati messi i punti. Su in alto i due procedevano in sintonia, ed il rumore dei rinvii e gli sbuffi della magnesite gli era familiare e rassicurante. Alla sua sinistra, dentro lo zaino di Tony, la canzone "Blucobalto" dei Negramaro incominciò improvvisamente a suonare, aumentando rapidamente di volume. Dall'alto Tony gli chiese: "mi fai il favore di rispondere? E' nella tasca di fianco".

"Pronto", disse. Dall'altro capo un leggero silenzio imbarazzato, come di chi non riconosce la voce della persona che stava chiamando. Poi un "chi sei?" di una voce di donna uscì, leggermente indecisa. Paco la riconobbe subito. Era lei. Se la immaginò, mentre era al telefono. Aveva voglia di averla ancora davanti. Le avrebbe preso una mano, incurante del mondo e l'avrebbe attirata a sé, deciso, per baciarla senza darle un'alternativa, perché sapeva che lo voleva anche lei. Sorrise: no, non l'avrebbe mai fatto, ma sarebbe stato bello comunque. "Ciao sono Paco. Tony in questo momento non può rispondere. Gli devo dire qualcosa o ti faccio richiamare?" Immaginò nuovamente il suo sorriso, lo sentiva nel cambiamento del tono di voce. "Ciao. No, in realtà stavo proprio cercando te. Volevo dirti che hanno fatto uscire mio fratello quasi subito. In realtà volevano trattenerlo, ma quello già in ambulanza si è ripreso ed era incazzatissimo per essersi rotto il polso. Ha cominciato a rompere i coglioni a tutti fino a che non ci hanno praticamente cacciati fuori. Ora siamo in albergo. Ho pensato che non avevo un tuo numero di telefono per ringraziarti ed ho cercato Tony per sapere se ti poteva rintracciare. Tu come stai?"

"Mai stato meglio, soprattutto in questo momento" disse, leggermente ammicante. "Sono seduto sulla tua sdraio e mi godo il sole". In realtà voleva anche dire che era seduto sulla sdraio e per i primi cinque minuti non aveva fatto altro che respirare il profumo di lei, che aveva impregnato il legno chiaro, ma la sua scorza di riccio si richiuse rapidamente prima che potesse aggiungere altro. Poi calò un silenzio leggermente imbarazzato. Il non vederla, non avvertirne la presenza, forte quanto la promessa di un contatto, non gli bastava e lo bloccava. "Senti", aggiunse lei, liberando tutti e due da quell'impasse "stavo pensando di organizzare una piccola festicciola qui all'albergo del ristorante, per ringraziarti. Una cosa semplice, qui tra noi con quattro amici. Tu e il tuo amico potete portare chi vuoi, le vostre ragazze ad esempio." Aggiunse interrogativa. "Se dai della 'ragazza' alla moglie di Renato quella ti morde" rise Paco "ma loro non sono di qui. Grazie. Verremo volentieri solo noi due. Quando?" - "Vi va bene domani sera? Per domani penso che Bruno avrà smesso di mangiarsi il fegato e sarà in grado di assaggiare anche qualcos'altro" - "Ottimo, allora a domani sera. In quale albergo siete?" - "Al Des Geneys", rispose lei. Paco ci avrebbe scommesso, uno tra i più belli della cittadina. "Se ci sono dei problemi chiamami, il numero lo leggi sul telefono di Tony. A domani"- "Non vedo l'ora" aggiuse Paco, e mise giù.

"Chi era?" gli urlò Tony, dall'alto. "Niente, niente" rispose sornione Paco, segnandosi il numero sul suo cellulare e risistemandosi allungato, comodo comodo sulla sdraio, con il berrettino calato sugli occhi a nascondere un sorriso che proprio non riusciva a trattenere "Era per me."

"Il solito fanfarone", commentò placidamente Renato, mentre cercava di sciogliere un nodo che si era formato sulla sua corda.

lunedì 3 agosto 2009

Renè. Sul serio

Venerdì pomeriggio ho ripreso. Non uno degli spazi miei, non il lago nero in cui ogni tanto mi immergo alla ricerca di cosa non so più neanch'io. Un momento condiviso, Senza musica nelle orecchie, senza occhiali scuri che mi separano dal mondo. Io, con le mie scarpe nuove, il fiatone ed il mio amico Renè, quello vero, e non quello fatto di carta ed inchiostro, di fianco a me.
Dicevo che venerdì pomeriggio sono andato con lui. Una leggera sgambata tra i boschi e i campi alti di granturco, con il fiume che pigramente ci vedeva correre nei suoi riflessi. Da quando lo conosco è la prima volta che non mi strapazza e che mi chiede di andare piano (Dio esiste!!!), ma solo perchè ha male e parecchio. Siamo stati via mezz'ora, ed abbiamo chiacchierato correndo. Gli ho detto delle cose che scrivo e che l'ho buttato dentro alle storie di Paco, nella speranza che gli faccia piacere leggerle.
Renato è un amico portato. Portato nel senso che mi è stato presentato da un altro mio amico. Potrei dire, senza nulla togliere all'altra amicizia, con la quale ho condiviso gli anni dello studio all'università, che con lui ho fatto quasi tutto il resto. A casa sua l'ultimo bicchiere da scapolo: con lui sono stato in cima al Bianco con trenta gradi sotto zero e con lui ho visto la oscura parede Nord dell'Eiger. Insieme a lui abbiamo fatto lo Spigolo Fornelli, quella volta che mia madre l'ha cacciato di casa ed insieme abbiamo deciso di tornare indietro dalla normale al Cervino, senza neanche mettere un piede sulla via, blandamente consigliati da tutte quelle lapidi, che ci hanno fatto capire che non allora eravamo pronti. Tanto le montagne aspettano, e un giorno chissà.
Il tempo trascorso insieme è stato tanto, positivo sempre, senza eccezioni. Abbiamo avuto molti momenti sereni, alcuni momenti seri e qualche percorso di dolore. E tanti momenti ancora ci aspettano, nell'incognita delle cose che faremo. Ricordo ancora la prima volta che ci siamo incontrati. Eravamo in montagna e loro, un gruppo di matti senza pari, erano venuti su per far teatro. Recitavano e recitano ancora adesso, soprattutto fuori dal teatro. Lui è il classico elemento che esce in scena e scatta automatico l'applauso. Guidava una Fiat UNO (bianca se non ricordo male) e ci aveva chiesto se volevamo un poco di musica. E appena gli abbiamo detto sì si è messo a cantare, perchè non aveva l'autoradio.
Lui è uno che corre e che corre sul serio, alto magro, segaligno e con la smorfia di un sorriso sempre pronta ad uscire contagiandoti. Corre anche adesso che è vecchio (vero che stai leggendo?), mentre io sono rimasto un ragazzino... più o meno, forse solo affetto dalla Sindrome di Peter Pan. Pensiamo sempre che quando saremo vecchi sul serio faremo le gare in carrozzella, su e giù per i lunghi corridoi dell'Ospizio dove lavora. Che lavoro faccia è un mistero: lui dice sempre che per avanzare di carriera dovrebbe fare solo più la Madre Superiora, ma pare che il Papa non sia poi tanto d'accordo.
Grazie a lui ho cominciato a correre, mi ha aperto un mondo che non conoscevo e pertanto gli devo parecchio.
Ed il perchè ho ripreso a correre adesso lo so.
A me piace sentirmi in corsa, in tutti i sensi. Ancora a sentirmi stringere i denti. Ancora ad ascoltarmi, ad affrontarmi e a liberarmi. Ho voglia di sfinirmi, anche se ogni volta non so se ho la stessa forza di un tempo. E’ inutile che mi prenda in giro, allora correvo, correvo magari anche discretamente, ma è più giusto dire che scappavo, più o meno come adesso. L’incapacità di affrontare le cose di petto mi ha sempre contraddistinto. Corri, musica a palla nelle orecchie e continua a riperterti le stesse cose che vuoi sentirti dire, visto che non te le dice nessun altro. E poi sei così stanco che a un certo punto anche il tuo io vero, quello con le palle, quello che vorresti essere sul serio e che non hai mai avuto la forza di farlo venire a galla, si rompe i coglioni e lascia spazio a quell’altro, quello che ti dice che hai ragione, che sei bravo e anche bello e sicuramente tutto quanto ti circonda è stato fatto per te. Un poco alla volta tutte le cose storte si raddrizzano e non la vedi più così nera. In pratica un' anestesia quasi totale, escluse le gambe.
Oggi sono rimasto solo uno che corre, spesso aggrappato dentro alla sua maglietta della maratona di Abidjan, che mi spinge ancora ad ogni falcata. Sempre e comunque soprattutto uno che scappa e poi magari rincorre, quando è troppo tardi, forse.
Non gli ho mai chiesto perchè invece corre lui. Forse perchè è una cosa che sa fare davvero bene, forse perchè è così, e basta. Forse perchè prova emozioni ancora diverse dalle mie o forse le stesse. Non gliel'ho mai chiesto e forse non serve neanche saperlo.
Grazie per tutte le corse Renè. Per quelle che ho fatto insieme, per quelle che ho fatto da solo e per quelle che, sono sicuro, faremo ancora insieme.
Indovina dove vado adesso? (No, non vado a farmi una birra!!!)

sabato 1 agosto 2009

Ancora qui


Non è mai facile un ritorno, non è impresa da niente, ma finalmente arriva il giorno in cui fai pace con te;

Capire il vento, la ragione il momento; spogliarsi di ogni incertezza, seguire un canto,
anche se per gli altri sarà follia.

Ad ogni chiusi io riconoscerei la mia prima volta. Tra quei sorrisi e quella sincerità il mondo era mio.
Quella minestra calda quanto mi manca; essere il primo a tutti i costi davero stanca:


Voglio respirare poesia: la mia

Ancora qui, per dire di si, ai miei sentimenti, con l'onestà di chi non ha mai barato con te.
Abbracciami adesso, perché è tempo di noi
Io non ti ho scordato, non l'ho fatto mai.


Una domenica diversa da qui, talmente lontana, era un appello che forse, per noi, non tornerà più.

I miei pensieri in volo dalla finestra e diventava un pianeta quella mia stanza, se coraggio un premio non è, cos'è.

Ancora qui per dire di si, riaccendere i sensi, affinchè tu non mi veda più diverso da te.
Nessuna dogana, per noi, nè ieri nè mai.
Ecco il mio indirizzo: torna quando vuoi

Lascia la porta spalancata alla vita, anche se l'hanno umiliata, brutalizzata;
c'è ancora qualche cosa di me, in ogni latitudine c'è,
qualcosa per cui ritornerei da te.

Da te. Ancora da te.
[R. Zero]
P.S. Andate a godervi il video: