venerdì 30 aprile 2010

Primo test

Le dita tutt'uno alla presa giusta. Ed in mezzo minuto ero su, ad artigliare il bordo.
Dovessi pensare a ieri, riassumerei tutto in queste poche parole.
Ieri era il giorno fissato per la verifica periodica alla seconda delle palestre artificiali di arrampicata che seguiamo. La logica ed il raziocinio che da sempre mi contraddistinguono (!!!) han fatto sì che le mie incombenze si riducessero solamente a portare attrezzatura ed a fare sicurezza dal basso a chi invece, in parete avrebbe fatto la parte del leone.

Questo in teoria.

Sono stato bravo, non mi ero vestito alla bisogna, ho fatto solo lo sherpa, srotolato la corda, annodato, preparato corde cordini e moschettoni e mi sono seduto tranquillo a fare sicurezza osservando il mio socio che, smoccolando il giusto, controllava serraggi di dadi e bulloni.
La palestra è una di quelle toste, secca, con parti strapiombanti e pochissime prese nei percorsi verticali. E' questa qua.  I primi passaggi del mio socio, sbuffante e tirato, addirittura gli han consigliato di scegliersi una via meno impegnativa, per evitare di cuocersi da subito i muscoli delle braccia.
Guardavo le mie scarpette, chiuse nel sacchettino. Guardavo i friend ed i nuts che ho usato poche volte, avendo arrampicato quasi sempre in pareti attrezzate. Guardavo e ripensavo alle prime vie, alle falesie impegnative ed alle lunghe doppie in discesa, quando il discensore diventa rovente per l'attrito.
"Provo io, adesso", ho detto al mio socio una volta ritornato sotto dopo aver verificato una parte della parete, mentre si stava massaggiavando le braccia.
Lui mi ha guardato, e mi ha solo detto "vedi di non fare cazzate, appena senti dolore fermati che ti calo, la posso finire da solo senza problemi".
Ma non era per quello. Non volevo dargli una mano, no, volevo arrampicare e basta. Volevo senrtirmi ed esserci. Volevo ritrovare confidenza con la parete, con le mani ed i piedi, con tutto me stesso.
La scarpetta, già stretta di suo, non ne voleva sapere di entrare. Ho dovuto slacciarla completamente e ripassare le lunghissime stringhe per allacciarla stretta. Una seconda pelle, di gomma dura che stringe le dita e tessuto.
Il tendine ha protestato da subito, è abituato alle comode scarpe da running, da circa due mesi. La cicatrice era in bell'evidenza, tirata e lucida.
Mettere le mani dietro, trovare il sacchettino e la magnesite sulle dita da soffiare mentre studi la via. Un respiro.
Tutta l'attenzione si concentra magicamente su quelle sporgenze colorate, quelle buone per i piedi e quelle dove due dita si incastrano di brutto.
Subito mi son detto dai, prova. Metti il piede come devi, allungalo verso il basso, vedi come reagisce, se fa male smetti, non fare il cretino.  
Ma i primi movimenti sono stati impacciati, avevo timore, ho provato a non caricare troppo, ma andare su con due mani ed un piede solo era francamente al di sopra delle mie possibilità.
Allora ho smesso di pensare al tendine, a me ed ai mille cazzi. Ho smesso di pensare e basta. Ho caricato il peso, saggiato la forza nelle braccia e via, son partito. Ed i passaggi, i gesti, erano tutti lì, in un sacchetto a portata di mano, gli appigli mi venivano incontro, facili, vicinissimi.
Ed in un niente ero già in cima, sereno, rilassato, morbido. Mi sono messo in sicurezza con una tranquillità remota e mi sono goduto la mia mezz'ora di serraggi, sbuffi e denti stretti.
Tornato sotto mi sono goduto la ritualità dei gesti, il mettere via ordinate, le cose, i rinvii, gli attrezzi. E senza pensare ho sfilato, da cretino, la corda di servizio della via che avevo appena salito.
E sempre senza pensare me la sono legata ad un cordino dell'imbrago e son risalito a riportarla su. Il mio socio, che nel frattempo parlava al telefono è rimasto per un attimo sconcertato: voleva farmi sicurezza, lui, ma non aveva una corda sulla quale farmela.
"Ti sei accordo che sei slegato, vero?" Mi ha chiesto, sempre al telefono
"Non tanto", gli ho risposto io.
Ed ho rifatto la stessa via di prima mano dopo mano, appiglio dopo appiglio, senza aiuti mentali o scuse, senza se e senza ma. Affidandomi a me dal di dentro. Confidando sulle mie capacità e basta. Ignorando le false paure dettate dalla logica bassezza della ragione.
Ed ho percorso una bellissima via, questa volta, molto più bella e completa di prima.
Giunto in cima ho preso la corda, l'ho ripassata nel moschettone finale e son ridisceso.
E sotto ho ritrovato il mio tendine, gonfio come una noce, una volta liberato dalla ferra stretta delle scarpette.
Ho subito telefonato a Renè, il mio allenatore privato e personalissimo, che mi ha, come si conviene, insultato di brutto. Ma rideva, era contento, l'ho sentito. E' arrivata l'ora di cominciare sul serio - mi ha detto, salutandomi. Non vedo l'ora.
Peggio del tendine erano ridotti i miei jeans che, dopo vent'anni di onorato servizio, si sono meritati il diritto di andare definitivamente in pensione.
Meglio del mio tendine, invece, tutto me stesso. L'arrampicata rappresenta uno tra gli antitress più efficaci mai provati.
Non penso però, purtroppo che l'arrampicata possa annoverarsi tra le sedute di fisioterapia più indicate, ma voi, mi raccomando, non andate subito a spifferarlo al mio luminare!!

giovedì 29 aprile 2010

Rêver

Ti ho cercato.
Sì? lo pensavo d'altronde. Anch'io, comunque. Come vedi sono qui, adesso.
Sì, ti ho cercato.
E dove?
Tra le vie del centro, nel traffico caotico, nella gente che si muove indaffarata a piedi. Ombre indistinte e confuse che si muovono disordinatamente in bianco e nero.
Ti ho cercata.
Ma se ero qui, da questa parte. Avevo da fare, un sacco, sai? E poi, dove?
In una piazza dove, un giorno lontanissimo sapevo di te così forte che forse mai, così. No, non è così, sapevamo di noi, e tu, che pazza.
Pazza io? Ma ti sei guardato? E cosa hai fatto?
E ti ho cercata poi anche nell'ultima piazza di questo mondo, defilato, quella in cui mi hai lasciato solo strade graffiate dal gelo. Quando i cavalli della giostra hanno smesso di correre, si son staccati dai sostegni e sono andati via e la musica dissonante piano piano si è smorzata. Quando mi hai detto che occhi bellissimi hai, e ti sembrava che piangessi, ma io sorridevo, invece, solo che le lacrime me li riempivano da dentro, affogandomi.
So tutto. So anche questo, sì.
Ti ho cercata nelle librerie, ad annusare storie di noi e non ne ho trovata una uguale. E mi son consumato le dita e gli occhi, a leggere. Poi ti ho cercata sotto i portici di una giornata d'improvviso calda. Alla palla del cannone ho sussultato, mi è sembrato di riconoscerti.
Ma non ero lì.
No che non c'eri. Ho cercato, annusando l'aria, per trovar tracce impalpabili del tuo profumo. Ho cercato ancora, e poi ancora. Ti ho intravista mille volte, in mille persone, mille espressioni, mille passi che non erano i tuoi.
Sono anche andato lungo in moto. Mi ha fermato un paraurti.
Ma bravo! Cosa fai, sogni ad occhi aperti, adesso? E cosa ti han detto?
Non lo so, non sentivo, non avevo orecchie nè voce nè cuore.
E cosa mi avresti detto, se alla fine mi avessi incontrato, cosa c'era di nuovo, che già non sapessi tu, che non sapessi io?
Ti avrei tenuto ferme le braccia per impedirti di scucire il mio cuore. Ti avrei tenuto fermi gli occhi incollandoci uno sguardo limpido. Avrei legato i pensieri fasulli per scoprirti. E ti avrei coperto con due onde di mare. Avrei parlato io, senza parole. Ti avrei detto stai zitta e ascolta.
Ci sono poche persone che possono dirmi stai zitta. Non so se tu sia ancora una di quelle.
Stai zitta comunque. Ti avrei raccontato del silenzio del sole quando ci illumina, della pioggia che non abbiamo mai preso insieme, delle parole senza senso che danno musica e tempeste, della luna triste di  ieri sera, che si appoggiava sui filari dei platani lontani, e che mi guardava commiserandomi.
Non è più tempo, sai?
Non mi importa. Non ti importa e non l'hai ancora capito.
E' quello che speri tu.
Può darsi.
Allora vado.
E dove? Non lo vedi che non c'è altro, che il mondo è sparito, che le stelle si sono spente, che.
Stai zitto tu, adesso. Non posso più, davvero. E' durato già troppo, stanotte.
Come vuoi, se è questo che vuoi. Cosa mi lasci?
Un respiro quieto. E questo silenzio. Non esisto, senti? Solo questo posso darti.
Allora va bene. Lo terrò come se solo questo esistesse, lo innaffierò di parole nascoste per farlo avvizzire.
Sai che non serve a niente?
So che il niente non serve. E' diverso. E forse questo non lo hai mai capito, o l'hai capito molto prima di me.
Devi andare. Stai per svegliarti. Basta un soffio e sparisco.
Allora non soffio. Voglio rimanere da questa parte. Non voglio svegliarmi. E' tutto perfetto, così.
Ma devi, non ci puoi far niente. Le cose perfette le trovi solo nei sogni, d'altronde. Hai messo la sveglia, 6.15, sai? E poi ti devi alzare subito, che devi lavorare un sacco, ultimamente.
E se poi, domani notte non ti incontro? E se invece mi capita un incubo? Diventerai il sogno di un'altro?
Ehi, cos'è, mi fai il geloso, adesso? E gli incubi te li ho fatti cancellare, solo sogni belli, contento?
Ma che me ne frega dei sogni belli, voglio questo!
E allora cercami, comunque. Vedrò di capitare di qua, una notte o un'altra.
Dammi le mani adesso.
No!
Dai, dammi le mani ed un bacio. Meno cinque, quattro, tre due, uno.........
Drrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr.

martedì 27 aprile 2010

Immerso


In piscina i suoni son distorti, amplificati dal riflesso sulla lucida superficie dell'acqua. Fa caldo, umido. C'è sempre gente, all'ora di pranzo. Non tantissima, due, tre persone al massimo per corsia. Scelgo sempre quella dove vedo che non si fermano.
Ma accendo il walkman, lo fisso sull'elastico degli occhialini e metto gli auricolari speciali nelle orecchie.
Appoggio l'accappatoio, levo i sandali e cerco di costringere i miei troppi capelli dentro la cuffia.
Mi immergo piano, il tendine è ancora in rodaggio, non è il caso di ricominciare il calvario a causa di un tuffo atletico.
Sono in acqua. Metto su gli occhialini a specchio e la musica a palla.
Di colpo sono solo. Non c'è più il rumore dell'acqua, e neanche il rimbombo della piscina. Ci sono io, immerso nella musica liquida che mi avvolge, mi gira intorno, mi fagogita. Inspiro e mi immergo.
La prima vasca la faccio quasi completamente sott'acqua. A rana, lento, lungo, dosando il fiato che preme per uscire dai polmoni. La musica è l'acqua, ci nuoto dentro, mi dimentico del resto, del mondo, di me.
E nuoti.
E nuoti, vasca dopo vasca, non ci riesci mai, a contarle, cominci, una, due, tre, ma questa è la quarta o già la sesta, ma dai che non ci riesco, mi dimentico, mi dissocio, perchè nuoto, ma in realtà non è proprio che nuoti, vago, è che il sangue lo allontano dal cervello e butto tutto nelle braccia e non penso, non uso i pensieri con raziocinio, è come quando corro ma qui di più, sarà questo blu che mi circonda, di sotto e di sopra, e intanto devo girare che un'altra volta il bordo è già arrivato ed il fiato regge, ma in realtà il corpo va come vuole lui, vado a stile, o a rana, il più delle volte, quello sì che lo so fare bene ancora adesso, che da ragazzino le mie poche gare le ho vinte così, e già allora ero fuori dagli schemi che quando vincevo alzavo un braccio e volevano sempre squalificarmi perchè si tocca il bordo con due, C-O-N D-U-E hai capito? Ed io che alla volta successiva rialzavo il braccio lo stesso e fate e dite quel che volete che tanto sono io qua, in questa vasca e sono io che ho vinto comunque. Quanto ero sbruffone allora, anche se poi non è che sia cambiato di tanto.
E nuoto, che la piscina è una boccia di vetro da pesce rosso, e guarda un pò chi può essere il pesce, muto, liberato ed oppresso da tutto il silenzio che c'è intorno, che è silenzio assoluto, che emerge da sotto questa musica, che la puoi alzare quanto vuoi ma il rumore odioso del silenzio lo senti lo stesso, subdolo, ronzante, insetto fastidioso che non riesci proprio a scacciare.
Non pensare e nuota, nuota e non pensare, che questa non è piscina, è mare, il tuo mare, quello forte, di quel blu che è quasi nero e con i banchi di spuma rabbiosa, quello che quando è mosso è facile entrarci ma difficilissimo uscirci, devi contare le onde, sette, sono le onde e poi anche il mare respira e prende il fiato, periodiche, con i sassi che rotolano chiassosi nella risacca e, per rispetto, quando esci dal mare che ti ha dato il permesso, non devi mai voltargli le spalle.
Nuota, non pensare e nuota, un'altra bracciata e affronta le onde, il mare, la tempesta. Buttati alle spalle tutto, osservalo, nella scia che si allontana da te, ti sai, bastati, un'altra ed una dopo ancora, respira, hai imparato e sai, uno due tre e respira, che tempo ce n'è prima di tornare sotto, in apnea, giù, più ancora, prima che tutto il silenzio colori di scuro anche gli occhi.
Succederà, non ci puoi far niente. Sei già stato a galla troppo tempo, puoi ritenerti fortunato, in fondo.
In fondo.
             Il fondo.
                          A fondo.
                                       Affondo.
Te le senti, le braccia stanche, le gambe che pesano e che ti tirano giù. Il buio profondo ci prova, ti attira, ma non è tempo, non ancora.
Riemergi, ti risvegli, guardi l'ora e scopri che è già tardi, in studio han già ripreso tutti.
Esco, recupero le mie cose e mi avvio verso una doccia veloce.
L'istruttore, che mi ha guardato nuotare, mi ferma all''uscita: "Scusa. Ma facevi gare, da giovane?"
"Più che altro rompevo le balle", gli rispondo. "Ma non ho ancora smesso"
"Che cosa? Di rompere le balle?" Fa lui interrogativo.
"No, di essere giovane", ribatto io con un sorriso.

It's a dirty job. But someone will have to do

Prendo spunto da QUI e fedele a quanto scritto nel mio post precedente, preferisco farmene uno tutto mio, piuttosto che invadere spazi altrui.
Ma la domanda è seria, gente.
Cosa farò da grande? Mi troverò sempre qui, giorno dopo giorno, anno dopo anno davanti a questa tastiera, ad osservarmi invecchiare, ad imbastire una vita appannata fatta di calcoli e disegni, di relazioni e software, di normative e conti da pagare e clienti da inseguire?
Forse mi manca il coraggio.
Dovessi riassumere il contenuto del post che ho appena letto scriverei, forse, solo quello.
Forse mi manca il coraggio.
Dovessi riassumere il contenuto della mia vita scriverei, forse, solo quello.
Forse mi manca il coraggio.
Non so se sia giusto o meno. Ci sono momenti in cui lo penso veramente. In cui la vita stessa mi trattiene con mille briglie appiccicose. Momenti in cui mi dico che se non ci fosse mia figlia, di me qui, in questo istante rimarrebbe solo l'impronta delle dita sulla tastiera.
Ho cominciato ieri. Ma il tempo è una brutta bestia, se cerchi di imbrigliarlo ti disarciona, ti invecchia di colpo se lo consideri. Millenovecentonovantatre. Diciassette anni fa, una generazione quasi, una vita. Ed il tasto rewind qui non c'è, cacchio.
 
L'insoddisfazione nasce da ciò che non si sa.

La domanda più stupida del mondo è dovessi ricominciare cosa farei? Certo che se dovessi ricominciare con la coscienza delle cose, con l'esperienza del vissuto certo che imparerei da questi. Ma dovessi ricominciare da capo, pulito, una lavagna nera lucida priva di tutte le tracce di gesso bianco che mi han segnato, carico di speranze e di voglia di vivere la mia vita, probabilmente rifarei tutto così come l'ho fatto.
Un uomo si appassiona facilmente. Ed è sano vivere le proprie passioni, coltivarle, assecondarle e realizzarsi in queste. Ed è altrettanto sano ed onesto riconoscere, quando se ne ha coscienza, che la strada intrapresa è sbagliata e che occorre cambiare strada, senza indugi nè rimpianti.
Da piccolo volevo inventare una macchina che indicasse con precisione in quale sport, professione o attività una persona potesse eccellere. E non è detto, che prima o poi.


Ma mi piace il mio lavoro?
Non lo so, sinceramente.
Ma adoro quello che ho fatto per arrivare qua, nel bene e nel male, nelle cose fatte bene e nelle enormi cazzate. E adoro quello che ci sta intorno, che lo colora, lo migliora.
Il mio lavoro non sono solo i conti, la lenta burocrazia, i mille fastidi che un'impresa deve affrontare, in un momento difficile come quello che stiamo vivento.
Il mio lavoro è oltre.
Il mio lavoro è il mio studio, vecchia fabbrica di biciclette, che abbiamo trasformato con le nostre sole forze. Dove abbiamo fatti i muratori, gli imbianchini ed i cartongessisti. Dove parla di noi tutto, dal plotter ipermegasuper al vecchio evidenziatore gonfio per l'incendio nella baracca di cantiere che lo ospitava.
Il mio lavoro è la gente che mi sta intorno, i miei soci, con cui litigo un giorno sì ed uno pure ma i quali cui ho condiviso tanto, non solo il tempo tarscorso. Sono i collaboratori, gli amici. la gente che è passata di qua, chi ha creduto in quest'idea folle e chi invece no, chi è andato via e chi invece poi è ritornato. 
Il mio lavoro sono le mie stilografiche bellissime, le rose del mio giardino, l'erba da tagliare la mattina presto e la vecchia grondaia da ripulire degli aghi di pino.
Il mio lavoro sono le corse al parco vicino per allontanarsi da qui ed evitare di picchiare qualcuno.
Il mio lavoro è lo sguardo di mio padre che, dovunque sia in questo momento, son sicuro che approva il percorso fatto e mi sorride, di un sorriso speciale fatto di tutte le cose che non siamo mai riusciti a dirci.
Il mio lavoro è aria di mare da respirare quando capita, sono interrati da ritrovare ed idee nuove da scoprire.
Sono segni a matita su un pezzo di carta che diventano idea, mani da stringere e persone da conoscere, insegnare a chi ha voglia di apprendere, esperienza da coltivare e altre mille e mille cose.
Se calibrassi il mio grado di soddisfazione in base all'aspetto economico, probabilmente avrei smesso già da troppo tempo.
Ma se lo impoverissi solo nelle quattro cose noiose e ripetitive che ci sono, probabilmente sarei irriconoscente, nei confronti di quello che questo mi ha portato a vivere.
Avessi fatto il veterinario, il madonnaro o l'astronauta non sarei qui, in questo momento, sicuro. Non è questione di coraggio ma di vita, di combinazioni del caso e di scelte e di quel gran bastardo del tempo che, incurante del nostro parere contrario, continua solitario ed imperterrito la sua strada.
E, molto probabilmente, in quell'altra vita, mi starei comunque ponendo le stesse domande.

lunedì 26 aprile 2010

Non è mia abitudine

Andare in giro e lasciare commenti sui blog altrui. Lo faccio di rado. E' una forma di pudore, di rispetto se vuoi, forse sbagliato. Sarò fatto male, ruvido, una sorta di Iorek Byrnison‎ dei poveri se vuoi,  ma son così. E non ci posso far niente, anzi no, è che non voglio. Mi vado bene così.
Non è supponenza, badate, non è tirarsela o mantenere le distanze, ma il più delle volte che leggo qualcosa che mi colpisce vado, scrivo un paio di righe di ciò che sento nella riga dei commenti e poi, subito dopo, cancello.
Qualche volta poi commento, certo che, strano sì ma completamente andato non ancora, d'altro canto, o almeno lo spero. Che poi ricevere commenti fa piacere, ma a rendere pubbliche mie sensazioni private in casa d'altri faccio fatica.
Chi mi piace leggere son quelli lì, questi della fila di fianco, ma non solo. Ne ho una lista più lunga nei miei preferiti, che vuoi per pigrizia, vuoi perchè ho spesso altro da fare, non aggiorno poi sul blog. Dire che sian bravi è quasi banale. Dovunque caschi, con questi qua, caschi in piedi.
Ma datemi ascolto, oggi, andate QUI e leggete. Leggerete come me col fiato sospeso, con gli occhi e col cuore. Leggerete di chi ha una capacità tutta sua di scavare sottopelle e riscoprire punti dimenticati del vostro essere e sentire. 
Leggete e commentate, voi che siete più capaci di me. Andate, ma non dite che ve l'ho detto io. Shh.
Io non ne ho voglia, ma se dovessi commentare, scriverei solo "meraviglia".
D&R

Glicine, on the road

E’ dappertutto, in quest’oggi soleggiato. La beata infiorescenza sui muri di mattoni scrostati delle case di bucodiculoplace mi ha stupito, quasi incantato direi, regalandomi vecchie sensazioni sopite. Elegante ed antica, avvolgendo pigra vecchie corti, circondando cancellate ed aggraziando balconate, con il suo tronco affaticato e contorto ed suoi fiori carichi, a grappoli, pesanti alla mano come uva matura, che son tanti cuori uniti, forti insieme e fragili se separati.
Li ho trovati ritornando al desco familiare, reduce dalla missione spesa, eseguita sulla base di una lista criptata redatta dalla consorte, la quale, completamente avulsa dalla mia estrazione ingegneristica che esige sempre e comunque precisione alla terza cifra decimale, invece scrive genericamente solo "pane", "frutta" o carne, trovandomi sempre molto critico e lasciando lei perplessa sulle mia capacità mentali quando riporto quindici chili di nespole, mezza coscia di cinghiale e due biovette.
E così ieri, a piedi, carico alla pari di un mulo e percorrendo strade tristissime, rese solo più leggere dalla mia bimba che cercava di investirmi in bicicletta, mi sono apparsi all'improvviso, opulenti, illuminati dal sole e placidamente appoggiati sui muri intorno. Ad un certo punto mi sono addirittura sorpreso a pensare che la strada di questo paese non fosse poi tutto questo male. Mistero.
Ha questi fiori strani, che proprio fiori non sembrano, di bei colori, dal cuore bianco candido all'interno che digrada fino ad una tinta piena, anche se, veramente che colore sia proprio non lo distinguo ma so che è a volte è blu, altre lilla, ma che colore veda davvero io chettelospiegoaffare, non vedi, che vuol dire prendi dell’azzurro e del viola, e trova la strada di congiunzione sino a che non distingui più l’uno dall’altro e quello è, almeno, il colore che vedo io. Piuù o meno.

So che arriva dalla Cina e che il suo nome vuol dire pianta dolce in greco, chissà perché, visto che è velenosa, ma come fa ad esserlo, così bella e profumata; personalmente però preferisco il significato di quello in tedesco, che tradotto fa pioggia blu, e che meglio gli si addice.

Sa di pomeriggi caldi e di strilla festose, del fiore di trifoglio da succhiare, di paneburroemarmellata e briciole, di rondini che ritornano, le vedi, non ancora, ma sì invece eccole qua, anche loro son tornate, a rincorrersi garrule e velocissime. Ha quel profumo inebriante ed unico, dolce, penetrante e deciso. Forte ma non aggressivo, gaio e festoso. E’ la primavera fatta a profumo.

Ha il ricordo del tempo e delle risate del mio giardino tra i monti, da cui manco da un po’ dove c’è una siepe da tanto di quel tempo che non ne ho memoria. Ma a quest’ora lassù la fioritura non è ancora incominciata di sicuro, che la neve ha abbandonato soltanto da poco i pini che hanno quasi i miei anni e di cui ascolto le sagge storie, a volte la sera.

Simboleggia l’amicizia, ho spiegato alla mia piccola. Me lo raccontavano da bambino, quando io allora, legandoli con i lunghi fili d’erba, ne confezionavo graziosi mazzolini che portavo orgoglioso a mia madre, che fingeva di stupirsi ogni volta e premurosamente metteva in un bicchiere pieno d’acqua.
La mia piccola si è accostata ad un muro e, in punta di piedi e con un pezzettino di lingua fuori per lo sforzo ne ha ladrescamente asportati un paio da un muretto vicino - Uno per te, papà - mi ha detto, sciogliendomi come fa sempre con il suo sorriso - ed uno per la mamma. Perchè noi siamo amici, vero?
L'ho guardata bene, lei, in equilibrio sulla sua bici comprata l'anno scorso e che già le calza stretta. Ho osservato ammirato quel suo sorriso radioso, quel naso da mordere e quegli occhi che sono gli stessi miei. Avrei voluto dirle cose, alcune serene altre meno. Avrei voluto raccontarle dei momenti in cui io, l'amicizia non so neanche dove stia di casa, dei miei tanti limiti personali, del mio bastare a me stesso e di tante altre cose. Le avrei voluto dire di tutte le cose che non so, di strade in salita, egoismo e di paure. Del tempo che cambia e delle parole, dell'indifferenza e del silenzio. Del sentire e del sapere.
Ma ho preso quel fiore, l'ho annusato ed ho ricambiato il sorriso.
Il più buon profumo del mondo - Le ho risposto - Certo che siamo amici, amica mia. I migliori amici del mondo. Anzi visto che siamo amici, non è che ti carichi in bici uno di questi sacchetti pieni di nespole?
Prima devi prendermi! -  Ha ribattuto facendomi la lingua, scappando via ridendo, tra due file di glicini profumati.

sabato 24 aprile 2010

On writing

Scrivo. Perchè, secondo me, in questo momento sento che ne hai bisogno. O forse no, magari non è vero, è immaginazione, speranza se vuoi, molto più probabilmente ne ho bisogno io.
Tempo fa ho dato una mano mia figlia a scrivere la sua prima lettera. Era un banale compito di scuola, ed ho tentato di spiegarle come, secondo me, la si deve impostare; che prima si fa un ordine di tutte le cose che si vogliono raccontare, ci si prepara un indice, in maniera da rendere più facile l'elaborazione della stessa. Che si usano periodi brevi (io!!!) che non si usano nè troppi "e poi" nè troppe virgole e che si cerca di evitare le ripetizioni. Lei mi guardava noiosa, voleva solo finire il compito più in fretta possibile e continuava a chiedermi "Così basta?"
Mi scontravo con la ritrosia che la prende ogni domenica quando i pomeriggi devono essere dedicati ai dannati compiti, in quanto preferirebbe sfidare (e battere regolarmente) suo padre alla Nintendo Wii, se fa troppo freddo per uscire.
Quello che però non sono riuscito a spiegarle, quello che volevo dirle è che quando scrivi, quando ti viene voglia, la necessità di scrivere, l'indice va a varsi benedire, scartato dalla pressione, dall'urgenza di metter giù le idee che si affastellano per uscire. Come adesso. Che non so neanche perchè, non so neanche cosa o come. Lo scoprirò alla fine. Forse lo so, già invece, ma fa lo stesso.
E quindi scrivo. E scrivo come stai. Non con il punto interrogativo, no; so come stai. Uguale io. L'amicizia, tutto quello che ci lega, che è molto di più, è una cosa rara, una strana alchimia, quando è limpida e trasparente come questa, quando non serve neanche che dica come ti senti perchè io lo so, lo so da quando mi dici pronto al telefono. L'amicizia non è nè dare nè ricevere. E' esserci. E' sapersi. E ti so.
E' farsi in un fiato cento chilometri solo per accogliere le lacrime che non vogliono uscire ed asciugarle mentre escono. E' una sorpresa improvvisa davanti al mio studio, un abbraccio, una carezza su un volto che si adatta perfettamente alla mano, è una mano da stringere e tener stretta e riceverne la stessa stretta. E' lo stesso passo, è un sorriso per una cretinata buttata a caso, è una risata improvvisa gettata in aria che proprio non credevi più di avere in tasca, che risuona e rimbalza come perle scivolate da un filo strappato. E' saper ascoltare. E tutte queste cose ed altre ancora le ho imparate da te, e dalla tua anima preziosa. 
Non ho poi così chiare le cose da dirti. Non è mai facile normalmente, figuriamoci adesso. Non ho ricette per dirti dove e come tu debba sentirti, quale strada percorrere, dove sia il giusto o lo sbagliato, non lo so per quanto riguarda me, figuriamoci.
Non posso e poi non credo tu ne abbia veramente bisogno. Tu sai bene il cosa ed il come. Il quando, forse, ci guarda già da lontano. La tua è una bella persona, te l'ho sempre detto. Ammiro il tuo essere così, di un cuore e di un'intelligenza rara che attrae ed affascina, che rende orgoglioso chi ti sta vicino. Me compreso.
E fai così tante cose, con quel cuore che hai; guarda quante ne fai, osservati studiati, riflesso negli occhi incantati di chi ti sta intorno. I miei compresi.
Incontrarti, frequentarti, conoscerti è un bene e, bada, non ho scritto è stato un bene. E' un bene e fa stare bene.
Le mille cose da fare le farò comunque. Andò in quella piazza sorprendente dove non sei mai stata. Percorrerò lo stesso quei carugi oscuri tra i muri sbilenchi, i colori scrostati ed il profumo di vendemmia e di mare.
E siamo arrivati qui. A questo punto, al bivio, al cambiamento di rotta, al rientrare questa volta definitivamente nei ranghi. E' l'ora. "Emmanuel" ha già battuto i suoi rintocchi, davvero, si è fatto tardi. E tu, da sotto li hai sentiti e contati. Uno ad uno, lenti, inesorabili, liquidi. Ancora uno, l'ultimo nel lontano galleggiare del suono sul selciato della piazza.
Ti chiederai infine perchè qui, che non è da me, magari. O forse no, forse lo sai che qui, mille anni fa, è iniziato tutto e che in fondo è giusto che proprio qui scriva un'altra volta il mio più sorridente  e sereno "Bonjour".
Con tutto il bene che sai.
S.

venerdì 23 aprile 2010

Capita così

Che mi sorprenda. Ed ogni anno è uguale.
Non mi ci abituerò, non ce la farò a ricordarmelo ed a prepararmici per tempo, del tipo oggi non ancora ma vedrai domani..
A Torino la primavera esplode tutta in un momento. Roba che il giorno prima non te ne accorgi ancora, a parte qualche timido fiorellino violabiancoblù nel pallido praticello dello studio e quello dopo è cambiato tutto, di colpo. Gli alberi carichi di foglie fino a ieri non c'erano, giuro. Come un trucco da prestigiatore ben riuscito.
E ti stupisci, mentre percorri i lunghi viali alberati di questa città, che per incanto sembra meno grigia, meno fredda, meno sordomuta.
E ti sorprendono queste successioni di continue esplosioni fiorite  ai margini delle  strade ed i colori, quanti, e sempre troppi, per me.
E sorprende il tiepido sul viso, questo sole sfacciato che ha ripreso a scaldare.
Ed è quasi una pacchia, in moto; senti profumi che sovrastano i consunti miasmi, ne aspiri la fresca fragranza, li assapori, ti inebriano, quasi. La strada per casa è nuovamente da fare in moto, ed alle otto, la sera, è ancora abbastanza chiaro e la visiera può stare già tranquillamente aperta.
Gli starnuti e gli occhi che lacrimano sono arrivati puntuali ma son sopportabili, fan parte del gioco.
E questo lembo spettinato e malaticcio di erba e rose sbilenche d'un soffio diventa un gradito e costante impegno, alla mattina presto o all'ora di pranzo, un produttore di sfalci organici di prima qualità, solo a potare il biancospino quasi moribondo ieri mi sono andati via un paio di sacchi belli pieni, mentre per i lunghissimi rami rampicanti della vite decisamente di più, sembravo il Laocoonte. Ed ogni sera la consorte, contemplando le camicie sporche di verde e le unghie con la riga nera di terra, si domanda se veramente ha sposato un ingegnere, domanda alla quale non riesco, francamente, a dare una risposta certa.
E qui ci son tornati i merli, becchettando allegramente e condividendo lo spazio con i passeri che si puliscono il becco sui rami rugosi e contorti della verbena, con i colorati ed impettiti ciuffolotti, casinisti e rumorosi nelle loro frequentissime liti ed con qualche raro ed incantevole pettirosso che si defila elegante tra i rami della siepe.
Ci si sente lieti, quasi, guardando fuori, da queste grandi vetrate.
Si tiene la porta aperta sul fuori e si sopportano con maggior leggerezza le telefonate, le grane ed i lavori da fare.  Ci si perde, un poco, ma per finta, perchè poi si recupera comunque. Ci si scialla, quasi. Il gelato del primo pomeriggio non è tornato ad essere una consuetudine ma quasi. Ed il cono cocco e yogurt è ancora una volta da brivido.
Ho abbandonato la macchina subito, dimenticandomela in una stradina privata a due passi dallo studio riesumandola proprio quando non posso farne a meno.
Il Transalp non aspettava altro, anche se non ha da lamentarsi, in quest'inverno a parte la sosta "forzata" non si è riposata praticamente mai.
La mattina è fresca il giusto ed il mio neckwarmer ha ancora il suo bel perchè, l'aria è carica e saporosa della neve delle mie montagne, di un sole giallo e basso e dell'andata ne ho già parlato qui.
Il ritorno è quasi meglio.
Parte con la temperatura ideale ed un paio di rotonde belle, pulite pulite, da girare rabbiose e piegatissimi, giusto per scaldare le gomme. Il percorso è veloce, ci si destreggia bene nel traffico, si passano agili le lente code di chi rientra. Si costeggia un parco, dove i runners, a quell'ora sono tutti lì, ed io, fermo al mio solito semaforo rosso li guardo, critico e con una punta d'invidia. Poi, poco dopo imbocco la mia strada segreta, quella che non c'è nessuno mai o quasi. Una lunga, piacevole curva a destra ed un curvone verso sinistra, da pecorrere in piena, per quanto può il transalp che sbuffa e scalcia, reclamando un tagliando di cui ha bisogno da troppo. Alla destra torreggiano le prue delle case ormeggiate al vento su un mare di erba verde dove, placide, brucano piccoli greggi di poltrone di plastica.
Una staccata secca e via, butti giù la moto di braccia, prima a destra e poi a sinistra e, piegatissssimo, acceleri e vai, dritto nella lunga strada che passa sotto l'arco, illuminato nell'inizio di un tramonto.
La città si allontana in fretta, poi. La collina, a sinistra, comincia a scintillare di piccole schegge, il Monviso intanto, solitario nella quiete di un cielo che si carica di rosa, si fa avanti maestoso ed imponente.
Il resto poi son strade veloci, qualche curva ancora ed infine, laggiù sul fondo, le sagome familiari dei campanili di bucodiculoplace dove, di lì a poco, riceverò il mio respiro nel cuore quotidiano, gli abbracci della mia piccola, sempre meno piccola purtroppo, ogni volta che la guardo.
Oggi piove ed il caldo sembra svanito, ma il verde, le foglie ed i profumi son tutti lì, intatti.
L'incanto è solo messo tra due parentesi leggere.

lunedì 19 aprile 2010

Io sono, (comunque) un runner

Letta oggi, presa su Runner's World e condivisa in pieno. Non avrei potuto scriverla diversamente.
L'articolo da cui è tratto è "Il passo del Pinguino - Io sono un runner", di John Bingham

IO SONO UN RUNNER perché le mie corse hanno un nome. Io faccio dei fondi medi, dei veloci, il fartlek; ma anche il lungo, il fondo lento e i lavori in pista. Le mie corse sono ben definite, purtroppo molto più dei miei addominali...


IO SONO UN RUNNER perché le mie scarpe non sono modaiole ma da corsa. Per me la scarpa migliore è quella che consente di correre bene, non di fare il figo. La scelgo in base alle caratteristiche della mia corsa e del mio peso e non per come si abbina a quello che indosso.

IO SONO UN RUNNER perché non ho un completo da corsa. Io ho magliette, pantaloncini e calzini tecnici. Ho tutti accessori che migliorano il mio rapporto col running, consentendomi di correre col massimo della comodità. So cosa sono il Coolmax e il Gore-Tex e a cosa servono.

IO SONO UN RUNNER perché so che cosa vuol dire far fatica e mi ci tuffo dentro. So quando sto forzando e perché lo sto facendo. So perfettamente che l’affanno e i battiti accelerati - che una volta fuggivo come la peste - mi fanno migliorare.

IO SONO UN RUNNER perché conosco molto bene il mio corpo e lo rispetto. Mi sussurra quando ho esagerato e, se ascolto in tempo il suo lamento, dopo non urlerà di dolore.

IO SONO UN RUNNER perché mi piace allinearmi sulla linea di partenza. Ogni gara che porto a termine mi spinge verso altre mete e, anche se ogni volta mi distrugge, mi spinge a schierarmi sulla linea di partenza successiva.

IO SONO UN RUNNER perché nonostante ce la metta tutta, voglio sempre più da me stesso, voglio conoscere i miei effettivi limiti e superarli.

IO SONO UN RUNNER perché corro. Non perché corro forte o a lungo.

IO SONO UN RUNNER perché dico che lo sono. E guai a chi mi contraddice.

Buone corse, amici!

domenica 18 aprile 2010

Come due formiche. [Sottovoce]


Si racconta che il Mahatma Gandhi spiegasse ad un suo discepolo che le persone gridano quando i loro cuori si sono allontanati, e son così distanti da non riuscire più a sentirsi parlando normalmente.

Se ci pensate, se vi ci immedesimate, scoprirete che è proprio così: quando alzi troppe volte la voce, è perchè il tuo cuore è distante da quello della persona con la quale stai litigando.

Beh, anch'io qualche volta urlo, capita. Raramente, ma succede. Ho un discreto margine di sopportazione, ma quando supero la soglia, allora son cavoli. E sbaglio, certo che lo so, me ne accorgo anche nel preciso momento in cui, ma che volete farci, non riesco ad evitarlo, anzi, forse non ci provo neanche. E pochissime volte nella mia vita, ho urlato così forte da star male.
Ma, per fortuna, conosco persone con le quali mi viene normale parlare solo con un tono di voce bassissimo. Così basso, sussurrato, che a momenti la voce non serve neanche, per comprendersi.

Ieri sera, ad esempio: ero comodamente avviluppato nell’abbraccio della mia piccola, nel suo letto con scaletta, torre del castello e scivolo per scendere, tra peluches di ogni specie, colore e dimensione che, non dimentichiamolo, han quasi tutti un nome. In questo periodo, per non far torto a nessuno, dorme con una serie di tre che alterna con regolarità. Ieri sera toccava ad un pinguino alto mezzo metro, una papera ed un asino.

Le stavo raccontando la consueta favola della buonanotte, dieci minuti inventati ogni volta che, in un modo o nell’altro, prendono spunto da quanto ci è capitato nella giornata appena trascorsa. E stavo inserendo, nella storia di due formiche che ne combinano di ogni sorta, proprio la massima di Gandhi.
Mi stupisco ancora, ogni volta che me la guardo e la tengo così vicina, stretta strettissima, che sia così vera e mia. Ad un certo punto, piano, mentre i suoi occhi cominciavano ad aprirsi ai sogni, le ho mormorato: ”ma tu, sei vera? Sai che il tuo papà ti vuole davvero bene?”

Lo so - mi ha risposto lei. E poi, tenendo i suoi bellissimi occhi serenamente chiusi, con un sorriso, ha aggiunto. “Sai papà, io e te siamo proprio come le due formiche della favola, che ci parliamo piano perché i nostri cuori sono vicini davvero.” Mi ha dato un bacino sulla punta del naso e di lì a poco dormiva, mentre io non mi stancavo ancora di guardarmela, stupito.

Ed in questa mattina, di nebbia che teneva in ostaggio un sole a sorpresa, questo piccolo pensiero, in punta di respiro, sussurrato piano, è per tutti quelli che non hanno bisogno di alzare la voce mai, per capire se stessi. Farsi capire dagli altri, a volte, è addirittura più semplice.
Provate a sussurrare.

[Dedicato, oggi, alla mia ex-autista...^_^]

sabato 17 aprile 2010

Arriva la nuvola

Tenetevi pronti, sta arrivando.
E' grigia e silenziosa e scura. E' fatta di cenere vulcanica, impalpabile, che sa che era fuoco vivo fino a poco fa, li contiene ancora tutti i ricordi di che cos'era, giù nelle viscere più profonde.
Ferma possenti aerei con misuscoli micidiali granelli e porta freddo al sole, ridona un soffio gelato d'inverno, la pioggia sicuro, la neve addirittura, forse.
Ma la sentivo anch'io già da giorni, circondarmi e pervadermi. Li sentivo, piccoli e pungenti, schiaffeggiarmi la faccia. Sarà che, umorale come sono, io che il mio vulcano personale prêt-à-porter me lo porto sempre dentro, mai spento,  gli basta poco a lui, per risvegliarsi e oscurare il tutto. Ed è fin troppo facile allora, veder tutto nero anzi, inutile che indossi i tuoi occhiali con le lenti gialle, vedi nero comunque ed ovunque.
Ed è un periodo no, di ruggine e salita. Di cose ruvide e dure, del dover sopportare. La più brutta parola del mondo, sopportare. Io non voglio sopportare niente. Voglio fare e disfare, cambiare, dire fare baciare lettera e testamento. Beh, per quell'ultimo no, c'è ancora tempo, please.
Vorrei grattare dal muro della vita questa pagina grigia, fatta di cartone pressato e fradicio. Vorrei levarla tutta, liberandola dai rimasugli di colla appicicaticcia, riportando fuori una parete lucida e trasparentissima, cristallina.
Voglio prendere un barattolo di scolorina da spennellare nel cielo e ritrovarmi il sole caldo che mi abbronza il viso. Voglio quello che non posso o posso quello che non voglio, è uguale e diverso allo stesso tempo.
Fatica, sì. Ogni tanto viene a galla. Tranquilli, poi passa. Ma pesa finchè c'è.
E le piccole magagne diventano pesanti, opprimenti ed inamovibili macigni.
Mi son messo pure d'impegno, nel cercare di farmela passare. Per quello che posso, che riesco, per il tempo che ho, che è sempre meno di quello che vorrei, anche solo per sfogarmi a scrivere, come adesso.
Per fortuna, almeno nuoto. Vasche su vasche, in attesa della prima nuova sgambata al parco. Sono entrato in acqua con attenzione sul mio tendine da tagliandare, inforcato i miei occhialini incredibili, ci ho fissato su il mio stellare walkman subacqueo e via. Beh, quella del walkman è stata da delirio, da consigliare assolutamente. Nuotare con la musica di Enja nelle orecchie è stata un'esperienza ai limiti della fantascienza. Mi sembrava di essere un delfino, tant'è che a momenti mi dimenticavo di respirare. Sessanta vasche immersi nella musica liquida che ti avvolge completamente, fermandosi solo per rimettere gli auricolari quando sfuggono dalle orecchie. Peccato che, non avendo serrato stretto il jack delle cuffie, il mio mitico lettore, il giorno dopo, pieno di goccioline, non funzionasse più.... Beh, rimesso in sesto per fortuna. E che dire poi dell'altro giorno, dopo la mia salutare seduta sfinente di nuototerapy, mentre apparentemente rilassato mi asciugavo i capelli, i miei capelli che sono andato a farmeli tagliare e non se n'è accorto nessuno, ma proprio nessuno, neanche mia figlia, ad un certo punto mi sono accorto che, subdolamente, una massa molliccia si era impadronita della mia cute, imprigionandomeli in una morsa appiccicosa perchè un emerito stronzissimo IDIOTA aveva pensato bene di nascondere un chewingum dentro quel phon, uno su cinquanta, proprio quello che avevo scelto per asciugarmi. Sono uscito da lì con una massa irsuta sulla testa che neanche lo scienziato di Ritorno al futuro, e per fortuna che le mie amiche "prùchere", con olio e pazienza, ne hanno avuto ragione, restituendomi intatti i miei ricci, senza regalarmi una chierica da francescano.
E non mi stupisce pertanto il fatto che, complice una serata a mangiare schifezze in un locale western ed il lavoro, che quando c'è è sempre troppo e tutto per ieri, e pagasse anche qualcuno male non farebbe, l'altro giorno alla fine mi son ribeccato pure un male come quello di quel giorno là, uno di quelli totali e devastanti. Uno che mentre stai male ti dici solo non ci pensare, poi passa, ti passa. Dai, passa, sta quasi passando, adesso passa.
"Guarda se poi stai male non che non ti senta lamentarti", aveva gufato acida la consorte, vedendo che per una volta, mi stavo anche divertendo insieme ad altri esseri umani. E così, per evitare di essere buttato nel cassnetto dell'indifferenziata, alle cinque del mattino ero già in studio, libero di lamentarmi e di dire oddiomioquantostommale fino alle undici, quando, esattamente come le altre volte, il dolore assoluto pian piano è svanito, assottigliandosi lentamente e lasciandomi bello che nuovo, anche se debole e tremante come un neonato.

Così come adesso.
Non ci pensare, poi passa, ti passa. Dai, passa, sta quasi passando, adesso passa.

Tranquilli, poi passa.
Già basta scrivere un post....

sabato 3 aprile 2010

Maleducato, a momenti

E invece no. All'ultimo, di corsissima e mille cose da fare. Con la famiglia tutta già schierata in attesa davanti alla porta di casa con le valige pronte ed il piede che batte nervosamente sull'asfalto del marciapiede di bucodiculoplace, ed io qua. Ma non potevo certo esimermi, eccheddiamine.

Buona Pasqua a tutti. Col cuore.

D&R