mercoledì 29 luglio 2009

ventiduechilometrieduecentometri ad andare.

E' la distanza casastudio/studiocasa che percorro ogni mattina ed ogni sera, in un senso e nell'altro, e racchiudono quello spazio fatto di pensieri, riflessioni ed aria da respirare che, svolgendosi come un nastro tra l'asfalto e le ruote del Transalp, mi fanno da canovaccio in quello che butterò giù appena avrò un minuto libero. Tanto so che anche se non ce l'avrò, me lo troverò comunque.

Il mattino inizia con il rumore dell'apertura del basculante del garage. Vado via presto, per cui lascio la mia casa spesso ancora buia, col tepore ed il respiro profondo delle mie donne ancora magicamente sospese nei loro sogni, forse diversi, forse intrecciati. E forse ci sono anch'io. Una rapida carezza alla gatta che mi segue sulla porta di casa (non è affetto, è che spera le dia doppia razione di croccantini). Chiudo piano la porta per non fare rumore.

La prima occhiata è per quello sprazzo di cielo biancoazzurro tra le case e per le nuvole che intravedo e che cerco invariabilmente di considerare poco importanti, le previsioni danno sereno, anche se ogni tanto una slavandata me la prendo lo stesso.

Guardo fuori, guardo alternativamente la macchina e la moto, ma ho già scelto. Non è di troppo tempo fa quando mi rifugiavo nella comodità dell'auto, quando mettermi il casco voleva dire forzarmi e partire con la tensione addosso, dalla punta dei piedi a quella delle dita, che mi faceva appannare la visiera in continuazione. Adesso, grazie a Dio, la vedo diversa. Come direbbe Paco, "questo è il tempo delle rapine in banca. Ho smesso di stare buono ed in coda, di seguire regole imposte".

Da qualche mese ho deciso di crearmele, le regole. Ho scoperto l'importanza di fermarmi ad ascoltare la musica di un momento, di spogliarmi da inutili mascheramenti e camuffamenti, di essere io, solo io e le mie emozioni. Il tempo è mio e spetta a me e solo a me, decidere come viverlo, quando sbagliare, con l'onestà di non mentirsi comunque mai; cadere e rialzarsi. L'ho già fatto, lo posso fare ancora e ancora e ancora un'altra volta. E se gli altri non comprendono, giudichino pure, sulla base solo di ciò che pensano di sapere. Non m'importa: sono tutti cazzi loro.

La mia moto è targata VR, e, per me, la cosa ha del romantico, e mi permea quando ci salgo sopra, un pò come la polvere magica che Peter Pan scuoteva da Trilli. E' passato il tempo in cui non stavamo bene insieme. Ma molto probabilmente ero io a non stare bene con lei. Non stavo neanche bene con me stesso. Chissà quanti e quali posti ha visto, quante strade ha percorso in mia assenza. Sul telaio di acciaio satinato è rimasta una discreta botta, a testimonianza di un'altra caduta, oltre la mia. Chissà dove e com'è stato.


Inizio a vestirmi: occhiali, casco, giubbotto con tutte le tasche chiuse per non perdere telefono, chiavi di casa e di studio, ecc. ecc. In ultimo, infilo i guanti, quelli di allora, ancora con gli strappi aperti dove sono ancora andato a schiaffeggiare la strada, prendendone molte di più. D'inverno i buchi, con il guanto interno indossato, si notano di meno. Non ho mai voluto cambiarli, ed ogni mattina li guardo e ricordo. Poi tiro su la visiera, inspiro l'aria da dentro il casco; leva dell'aria, giro la chiavetta e ingrano la prima. La moto con il suo solido borbottio, fa quel leggero sussulto in avanti e parto.


La mia strada comincia con quattro rapide curve in discesa, destra sinistra destra sinistra, che percorro tranquillo mentre le gomme sono ancora fredde. Il sole è di fronte, basso all'orizzonte, tra la bruma lattiginosa ed appena tinta d'oro che delinea vicini filari di alberi e tralicci dell'alta tensione, con i cavi che li uniscono che tagliano il cielo in semplici mosaici. Sui campi tagliati di fresco i rotoli di paglia riposano, sbilenchi.


Qualcuno solitario, corre, suscitando una leggera invidia (ma ho comprato le Saucony nuove ed ho deciso che sono guarito. Oggi forse riprovo). Esco in fretta dal paese dove vivo, anzi dove dormo quasi esclusivamente, da dodici lunghi anni. Non mi appartiene, non lo sento mio, tant'è che se mi fermate per strada per un'indicazione (a meno che mi chiediate informazioni sulla via principale o su quella dove abitiamo), invariabilmente rispondo: "Mi spiace, non sono di qui", anche se mi viene spesso da pensare "ma che cacchio ci andate a fare, con tutti i posti belli neanche troppo lontano".


Mi infilo sulla statale e via. La strada scorre diritta e veloce tra i campi di fitto granturco che ondeggia come un mare verde, l'aria fresca, a volte anche di più, ed il motore caldo. Sorpasso la pigra fila di camion ed auto che lentamente si porta verso la tangenziale. Incrocio qualche motociclista e, anche se alle sette del mattino siamo tutti e due in giro per lavoro, un saluto ci scappa lo stesso. Le mia mente prende spunti da ciò che vedo e sento, gli spazi aperti con la neve delle alpi da una parte e la collina dall'altra, mi circondano e mi parlano, di storie vecchie e sconosciute, di nuvole che nel loro rapido mutare e rinforzarsi prendono nuove forme, dando spazio a vecchi ricordi e nuovi pensieri, distraendomi ma non troppo. La strada richiede sempre e comunque attenzione, e l'ho imparato a mie spese.

Supero la coda dell'ingresso in tangenziale, io proseguo diritto. Le macchine incolonnate dirette in città sono definitivamente una fila unica, lento milleruote che ogni tanto si spezzetta per colpa di un semaforo rosso. Procedo a zigzag: esco, sorpasso e rientro, più e più volte, fino ad arrivare alle porte della città.

Qui il traffico è già convulso, anche se è mattina presto e siamo a due passi dalle vacanze. C'è poco tempo per distrarsi, l'attenzione è quasi d'obbligo. Ogni tanto il profumo di pane caldo, di brioche e di caffè mi entra nel casco. Dopo poco, la sorpresa della "mia" strada, quella che mi permette di attraversare la città senza neanche un semaforo. Me la trovo subito dopo aver percorso il cavalcavia che passa sopra i disordinati ed intrecciati fasci di binari e tralicci che, dritto laggiù in fondo, portano alla stazione centrale. E' praticamente quasi senza curve tranne alla fine e c'è sempre pochissimo traffico, soprattutto adesso che siamo a un passo dalle vacanze. A sinistra la divertente confusione cromatica delle case degli atleti per le Olimpiadi invernali, adesso riconvertite in abitazioni: ce ne sono di gialle, di rosse e di blu, sono dei cubotti di quattro cinque piani, tutte diverse. A destra la ferrovia, con il luccichio di cento binari che corre sempre insieme a me, e il ponte pedonale che sovrasta, collegando le case al Lingotto.
L'enorme arco colorato, inclinato, sospende il ponte ed è sospeso a sua volta da decine e decine di stralli, alcuni lunghi centinaia di metri.
Alto sessantanove metri, sembra un mezzo cerchione della bicicletta di un gigante.
Quando ritorno la sera, illuminato dai proiettori che lo strappano fuori dal cielo scuro, con i vetri del Lingotto sullo sfondo che riflettono il tramonto, è veramente bello da vedere.
Proseguo nella lunga curva appoggiata sulla destra. La mia strada sta per finire. Alla mia sinistra un parco verde dove, leggermente sparsi, gruppi di panchine pigre sembrano un gregge di pecore intente a brucare l'erba. La sera poi sono messe in posizioni diverse, ma sempre a gruppetti. Mi sa che brucano sul serio.
La curva si inverte rapidamente a sinistra. E' la mia ultima staccata, poi una piega tagliente e decisa, rapida accellerata e sono di nuovo imbrigliato nel lento traffico mattutino, da cui ne esco con lente gimcane ai semafori. Da qui al mio studio le strade possibili sono diverse, e la distanza è comunque sempre quasi la stessa. Scelgo come viene, a seconda del traffico, della casualità dei semafori o dei ricordi che, dal mare profondo del mio passato ogni tanto riemergono e galleggiano su e giù come bottiglie, qualcuna vecchia e qualcun'altra appena tappata, ognuna con il proprio messaggio ancora scritto dentro, in attesa che le stappi ancora una volta. E allora passo da una parte piuttosto che da un'altra, cercando di dar vita a quei ricordi, a quel mio tempo di ieri, ritrovando posti che mi sono appartenuti anche solo per un attimo, ricordando chi non mi aveva mai capito e chi invece mi aveva capito troppo, quando magari non ero in grado di comprendere io, strano destino. Riassaporo gli stessi profumi, ricordo vecchie emozioni, spesso scopro che alcune ferite dimenticate sanguinano ancora. Il "se fosse successo adesso sarebbe stato diverso" ogni tanto viene fuori da solo, ma lo ricaccio subito indietro. Non serve, almeno non per me, non adesso. Sono così perchè così sono stato, perchè ho fatto, e, nel bene e nel male ho vissuto.
Respiro, ricordo e vado avanti. Pochi minuti ancora e mi trovo davanti al portone verde che nasconde alla via lo studio, col giardino e le mie rose. Apro ed entro, a quest'ora so che, con qualche eccezione, sarò da solo per quasi un'oretta da dedicarmi. Il portone ha due pomelli d'ottone, uguali nella forma. Uno, quello che tocchiamo sempre per aprire, è lucido mentre l'altro è verde scuro, opaco e ossidato dal tempo che si deposita senza che nessuno lo acarezzi. Ricordo che lui era già così, la prima volta che io sono entrato qui, scintillante di idee e di speranze, ben quindici anni fa. Allora lucidare anche l'altro pomello era stata la prima cosa che avevo fatto.
Chissà come sarà invece l'ultima volta che entrerò qui, se l'avvertirò in un brivido strano, mentre sarò magari anch'io opaco ed ossidato dalla vita.
Ad ogni buon conto adesso esco e vado a lucidarlo di nuovo. Almeno per i prossimi quindici anni sarò a posto.

martedì 28 luglio 2009

Appeso con due dita alla vita - Ritorno alla base

Dopo avergli rapidamente ripulito la faccia dal sangue e dalle schegge steccato il polso, l’aspetto di Bruno era decisamente migliorato. Lei, quando non arrampicava, lavorava in ospedale come infermiera, e nella sicurezza dei gesti doveva anche essere brava. Mentre preparavano la manovra per calare Bruno, definitivamente svenuto, la ragazza piovuta dal niente e lui chiacchierarono un po’. Gli disse che si chiamava Cristina e che era da quelle parti per un rapido allenamento. Era sulla parte alta della stessa via con un compagno quando aveva visto staccarsi il fronte della scarica, aveva visto Bruno colpito e si era calata per dare una mano. Si fermava solo pochi giorni e poi partiva, verso montagne lontane. Era una che viaggiava con un alto numero di giri, con altri sogni, altre mete. Aveva già partecipato a spedizioni Himalayane ed era salita su tre 8.000, e ne aveva in programma altri. Paco ne rimase impressionato; a lui bastava trovarsi a trenta chilometri dalle sue montagne per trovarsi perso, Lei aveva altri e molto più lontani orizzonti, pur rimanendo di una semplicità disarmante. Avevano fatto su la corda di Renato e l’avevano preparata per una doppia, gettando quella di Bruno, inservibile. “Sicuro che ce la fai a portartelo giù in doppia? Gli chiese mentre lui sbuffava, cercando di buttarselo sulle spalle, legandolo come un salame ; “Tranquilla, è grosso ma non pesa poi tanto di più di quello che mi sta facendo sicurezza in questo momento e che ho portato giù più di una volta mentre mi cantava a squarciagola Tre Joli Tambour”. Poi aggiungendo in un bisbiglio, ma non troppo basso “Sai, ho il sospetto che beva!”
“Ti ho sentito, sai”, gli gridò da sotto Renato “E non erano poi tutte queste volte come dici tu: cioè una me la ricordo, le altre no..” Ciononostante sorrise, ripensando alle volte che si erano portati giù sostenendosi l’un l’altro, dopo avere festeggiato la riuscita di una via dando fondo a tutto quello che gli avanzava nello zaino.
Solo quando Paco si mise in piedi, con l’altro ben stretto, pronto per scendere in doppia, Cristina gli sorrise, preparandosi a tornare da dove era venuta: “Ci si vede, un giorno l’altro. Abbiamo fatto un buon lavoro insieme. A proposito: sai che non arrampichi affatto male? In quell’ultimo passaggio veloce col salto mi hai ricordato Dan Osman?”. Si girò e, nel giro di pochi rapidi movimenti, rapida come era arrivata, era già sparita.
Paco la guardò arrampicare per un lungo attimo: se ne incontrano poche di donne così. Poi si riscosse, provò a verificare che non fosse troppo squilibrato con quell’energumeno addosso e si preparò a scendere in rapidi balzi. Aveva preparato il Prusick in alto, nel timore che gli rimanesse incastrato nel discensore, ed aveva fatto bene. Riuscì a scendere in tre rapidi balzi, piegando bene con le gambe per ammortizzare al tremine di ogni salto, incurante del calore sprigionato dalla corda sul metallo. Portare giù un peso morto e riuscire a controllare equilibrio e la velocità della discesa non era facile. Cercò di fare più in fretta che potè, nel timore che quello gli scivolasse e che lui non avesse poi la forza di impedirlo. Non aveva neanche toccato terra che già qualcuno glielo levava di dosso e lo sistemava sulla sdraio che lui stesso si era portato, mentre nel frattempo giungeva l’ambulanza con il primo soccorso.
Per un attimo Paco si sentì sollevato: sollevato dal peso del bestione, sollevato dalla tensione di quel compito, sollevato dall’assenza delle sue nuvole nere, compagne inseparabili degli ultimi due anni. Nessuno lo stava considerando, gli amici di Bruno ci si accalcavano dando fastidio ai paramedici: l’uomo con la telecamera la teneva in alto tentando di superare il muro di gente. Renato gli comparve vicino, e con la mano gli strinse forte il bicipite. La frase “hai fatto un gran lavoro”, Renè non la pronunciò mai, ma Paco la sentì lo stesso. Si stirò la schiena dolorante, cercando di impedire a tutti i dolori che aveva accumulato in quella magnifica e pazza giornata di reclamare finalmente il loro tributo. Renato Tirò fuori dallo zaino un tubetto di antinfiammatorio e fece per passarlo all’amico. Il tubetto fu prelevato dalle lunghe dita sottili di Patti, che era ancora lì dietro di lui. Non si era avvicinata all’altro. Rapidamente svitò il tappo e gli disse “Siediti, ci penso io. E’ il minimo che posso fare, per avere fatto ciò che hai fatto”. Poi sorrise, finalmente non più femmina fatale, ma disarmata e disarmante, solo Patti e la sua fila di denti bianchi. Allungò la mano“Penso che nessuno ci abbia ancora presentati. Piacere, Patti”. E quello là steso è mio fratello”. Paco porse la sua e ricevette una mano fresca, con una stretta decisa, segno di un carattere forte. Poi gli fece il gesto come per dire “siediti” e Paco si girò e si appoggiò sul suo zaino, mentre le mani di Patti incominciarono lentamente a massaggiargli i muscoli della schiena.
Paco riusciva a sentire le dita di lei percorrergli la schiena; unte dalla crema, affondavano, accarezzavano vecchie nuove cicatrici, risalivano e lo manipolavano come si fa con la pasta del pane. Gli dava i brividi. “Questa è una che almeno le mani le sa usare. Mi sa anche tutto il resto”, pensò maliziosamente, cominciando a fantasticare, su di lei, sulle sue mani, su loro due, con il “Clic” che fermava nuovamente il tempo. Fu riportato alla realtà da Renato, che stava facendo su la corda, controllandone con eccessiva cura ogni centimetro e scuotendo la testa. “Sentimi bene:”, gli disse: “a parte il fatto che a farti sicurezza ho anch’io un fastidioso dolorino dietro il collo, ma se lo chiedo io viene a massaggiarmi quello della telecamera, che Dio lo benedica, ma mi puoi spiegare come fai a correre dietro alle donne anche quando sei in parete? Chi era quella? Ti ha almeno lasciato il numero di telefono? Avrà almeno un’amica: l’importante non è che sia carina, basta che sia compiacente." Guardò il gruupo di gente dinanzi a lui.
"Dì un po’: ma lo sanno questi qui che ti danno le spalle che sei l’eroe del giorno?. ‘Spetta me che glielo ricordo io”. Detto fatto, salì agile sul cofano del SUV, tanto Bruno non vedeva, mise le mani a cono davanti alla bocca e disse:“……….
[Domani mattina continuo, giuro, (se mi sveglio presto..). Adesso mi aspettano un paio di rotonde, per vedere quanta pedalina ci lascio.]

Con le mani in tasca


Mi piacerebbe tenere in tasca qualche spicciolo da giocarci con le dita e due pezzetti di sole,

Il primo per aiutare le rose a sbocciare,
nel giardino ventoso della mia vita,
che lento digrada al mare.

Il secondo da prestarti, per illuminare il tuo sorriso.

Nel taschino della giacca mi piacerebbe trovarci un'altra curva da percorrere.
E poi un'altra ed un'altra ancora, nell'incertezza di un nuovo tramonto,
al di là della collina.

In quella interna, che ascolta il sussulto del petto, mi piacerebbe sentire, sfregandole tra le dita, una briciola del tuo coraggio ed una della tua determinazione, unite insieme da una tua lacrima, sapida di dolcezza.

E, frugando tra vecchie cuciture sdrucite, mi piacerebbe saper dosare ogni istante e assaporare il succo fresco della tua voce.

Ma, scostando mazzi di chiavi e vecchi ricordi sbiaditi, non mi sono più trovato.
Non so se sono vivo. No, forse non ancora.


[Jorges Amiöde]

venerdì 24 luglio 2009

Piccole donne crescono... piano piano

Ieri sera ero a Carmagnola, a veder entrare ed uscire da negozi di scarpe ed abbigliamento mia moglie ed una sua amica, mentre il marito di lei, mia figlia ed io rimanevamo al fresco ad osservare la fiumana di gente passeggiare pigramente sotto e fuori dai portici di una pseudo notte bianca.
Per uscire la mia Ciccia è andata a cambiarsi. Ne è ritornata cinque minuti dopo, e l'osservarla scendere dalle scale che portano alla zona notte, mi ha causato la seconda stilettata al cuore della sua vita. La prima è stata a Capodanno di un anno e mezzo fa, una pugnalata rabbiosa con una lama che mi ha aperto in due, quando in quell'attimo spaventoso ho temuto di averla persa per sempre. Quella di ieri è stata roba da poco, un graffio leggero; era solo il coltello piccolo dell’apprensione, che lascia tagli sottili sottili.
E’ che sta crescendo. E senza chiedermi il permesso.
E’ scesa lenta e misurata, elegante, con una maglietta nera ed un gonnellino anch’esso nero e corto. Piccoli seni incominciano a farsi intravedere, e sotto la gonna corta, le gambe erano lunghe ed abbronzate. Il suo sguardo, un pò da donnino ed un pò da pulcino, cercava in me l’approvazione. “Come sto?” mi ha chiesto, con il suo dolce sorriso, mettendosi in posa.
“Sei bella” le ho risposto “e stai diventando lunga; come papà”. Avevo un leggero groppo in gola ma non se ne è accorta. Mi ha preso la mano e mi ha dato un educato bacino “Ho il burrocacao” mi ha detto sottovoce, per giustificarsi.
Tra un po’ e questa mi si trucca anche.
Mentre mia moglie entrava e usciva dai negozi (non comprando nulla e lasciando povere commesse in un bailamme di scatole aperte e scarpe spaiate) noi due passeggiavamo, ma io vedevo solo ragazze, in gruppetti, ad atteggiarsi truccate da dive con movenze misurate, i tacchi altissimi; camminavano esponendosi. Sembravano quasi tutte donne fatali e vissute, anche se molte non avevano che quattordici o quindici anni; io in loro vedevo la mia e mi veniva da pensare che di lì a poco sarebbe diventata così. Non potevo farci niente. E mi ricordo ancora la prima volta che l’ho tenuta tra le mie mani, fragile animaletto piangente in un mondo tutto nuovo. Era solo ieri.
Ciccia mi stringeva la mano.
Si è messa a guardare la vetrina di un negozio di abbigliamento, di fianco a due ragazze con il piercing sull’ombelico ostentato ed un tatuaggio alla caviglia. Erano alte uguali. Mi ha fissato seria, con i suoi grandi occhioni: “Papà” mi ha detto ad un certo punto ("No, il tatuaggio no!"):
“Mi compri un palloncino?”
Per fortuna è ancora così piccola.
Se non mi fermava mia moglie, per la contentezza gliene compravo ottantaquattro di palloncini, a fiori, con la faccia di Titti, fatti a delfino e a cavallo, fino a vederla sollevarsi felice da terra. Poi le ho comprato un gelato a tre gusti, con la Stranutella che le ha fatto la faccia da pagliaccio, mentre ogni tanto mi dava il permesso di dare una leccatina (“piccola, papà”). Infine è andata sullo scivolo gonfiabile messo nella strada che porta alla stazione “quello dei grandi però”, anche se, rispetto agli altri "grandi", lei li superava di tutta la testa. Quando scendeva, teneva la gonna dignitosamente con le mani, poi l’euforia della discesa superava il pudore ed era tutto un turbine di braccia, gambe e sorrisi, con i denti che brillavano nel fondotinta alla stranutella.
Alla fine era così stanca che mi ha chiesto di prenderla in braccio. Avrei voluto, ma quaranta chili sono veramente troppi, piccola mia. Mi ha camminato a fianco, abbracciandomi stretto, impedendo a sua madre di prendere le mie mani che voleva tutte per se.
C’è ancora tempo, per fortuna.
Cresci piano, bimba mia. Non so per quanto ancora, il “tuo” Totson

Piazza Vittorio, ore 15.30

Ieri, in un pomeriggio di un giorno di sole, ero fermo al semaforo, in moto. Cosa strana per Torino, ero insieme ad altri sette, tra moto e scooter, tutti davanti.
Gli altri alle nostre spalle, chiusi nelle loro scatole di latta a respirare l’aria condizionata, a seguire le regole di una coda ordinata. Alla nostra destra il ponte, con sotto il Po che scorre, di un lento color fango; subito dietro Piazza Vittorio. Alla sinistra l’inquietante tristezza della gran Madre, con la statua a cui manca la mano, e su la collina verde. Fa caldo. Sotto il giubbotto Dainese sicuramente di più.
Sul largo marciapiede che svolta dal ponte infiorato una bimba bionda corre gioiosa a spaventare in brevi rincorse malandati piccioni, sotto gli occhi protettivi del nonno. Dall’altro lato del ponte arriva un barbone, sotto una blusa malandata e gli occhi fissi sulla ruota davanti, con tutte le tracce della sua vita buttate alla rinfusa dentro sacchi cenciosi, ammassati su una sgangherata bicicletta che tintinna, ad ogni stanco giro di ruota. I fiori ordinati sul ponte non gli danno allegria. Prosegue a raccogliere ricordi.
Lo sfondo della piazza dalle mille finestre in file ordinate su muri color pastello, ha uno stile da vecchia signora. I binari luccicano sulla strada di larghi lastroni di pietra. Un uomo cammina veloce, parlando concitato al telefono. Una coppia di anziani indica il Valentino: il vecchio tiene il braccio galantemente piegato e lei ci tiene il suo sopra, vezzosa, con le mani che ancora si cercano e si stringono. Chissà di cosa parlano. Si guardano, sorridono e si scambiano un bacio, testimone di un amore che chissà da quanto dura. Ed io mi sento un intruso.
Poi non c’è più tempo. Verde. Metto la prima e parto.


Torino mi sta a pennello indosso, in queste piccole cose….

mercoledì 22 luglio 2009

Appeso con due dita alla vita - Tomahwak 3

Il volo questa volta se lo era preparato. Non l'aveva subito, non gli era stato imposto e rubato, quel pezzo veloce di vita: l'aveva vissuto, con la consapevolezza folle che ne valeva la pena. Ed era vero. L'urlo strozzato del gruppetto l'aveva sentito, prima ancora che uscisse involontario dalle loro bocche, quando aveva pensato: "Ecco. Adesso lo fanno".
Si era lasciato andare con una leggera spinta in fuori. Ed era andato giù, diritto come la goccia d'acqua della sua doccia che perdeva da sempre. Quella cadeva sempre lì, mai un centimetro più avanti. Aveva visto rapido il punto di mezzo passare, il rinvio con la fettuccia verde a cui si era assicurato. Ed il colpo nelle reni dato dall'imbrago non l'aveva sorpreso. Era stato solo di un poco più soffocante di quando qualcuno ti cala velocemente per farti il solito vecchio scherzo e poi ti ferma con uno strattone. Aveva visto il colore della fettuccia e gli era venuto in mente il colore verde della coppa di gelato che prendeva ultimamente, "una da due euro, cocco e yogurt, grazie!"; sempre gli stessi gusti da almeno sei mesi. Ed ancora non si era stufato. "Dovrei avere una ragazza gelato, cocco e yogurt, magari non mi stufo".
"Mi andrebbe un gelato", disse calmo. Si trovava un pò più in basso di prima, fermo, calmo e serio con lo sguardo puntato in basso, diretto verso Renato, come se quel momento fosse la cosa più naturale del mondo. L'amico era stato veloce, ma aveva capito quello che voleva fare quel matto. Non l'aveva fermato recuperando tutto quello che aveva potuto, ma gli aveva concesso il tempo per un rapido battito d'ali. Ciononostante le braccia gli facevano un male della madonna, ed aveva il fiatone. Paco non era certo un peso piuma.
"Scusa?? Non è che ho capito male? Voli due volte in meno di cinque minuti e la prima cosa che ti viene in mente è che vuoi un gelato? Sai ho visto balconi molto meno fuori di te! Sicuro che prima non hai battuto anche la testa, per caso?"
Si guardò intorno e vide la gente: tutti a naso in su. Alcuni erano ancora in apnea, ma tutti, nessuno escluso, avevano la bocca aperta. Istintivamente pensò al gioco del buttare la pallina nei vasi dei pesci rossi, quando ci sono le giostre. "Oggi sarebbe il giorno giusto per vincere la bambolina" gli venne in mente, immaginandosi la scena. Ritrovò il suo spirito goliardico e, rivolto all'amico, aggiunse: "Allora, dato che adesso ti sei sfogato, vuoi darti una mossa o mi fai fare la bella statuina fino a questo pomeriggio? O devo venire su a portarti davvero il gelato? Che gusto vuoi?" Paco, sempre girato, sempre appeso, sorrise, in una fila di denti candidi nel volto abbronzato: si stava ancora immaginando la ragazza gelato, dolce e cremosa. "Che stupido, immagino saranno sempre i soliti cazzo di yogurt e cocco!" Paco gli fece il gesto di colpirlo in silenzio con una pistola fatta con le dita, che rimise nel fodero immaginario. Poi si girò e ripercorse rapido i movimenti che aveva già eseguito poco prima, ritornando in un lampo subito sotto lo spit a cui non si era volutamente assicurato.
Renato trattenne nuovamente il fiato: "Dio no; ti prego, non un'altra volta, non ti sei sfogato abbastanza? Guarda che la corda l'ho comprata usata alla Lidl, non è proprio sicuro che tenga, e poi te l'ho già detto che ti trovo ingrassato?" Per tutta risposta Paco alzò la mano destra mostrandogli il dito medio, poi spostò il braccio indietro e prese un rinvio dall'imbrago per assicurarsi. Al "clic" prodotto quando ci fece passare la corda dentro, molti di quelli lì sotto emisero un sospiro di sollievo, Renato incluso. Ora di gente a guardarlo ce n'era un discreto gruppetto, anche uno con la telecamera, che stava riprendendo chissà da quando.
"A Dottò, scusiii, guardi che io sono il suo agente, il manager" lo interpellò Renè: "Lei sa cosa sono le royalties? Qui da noi si fa così: dunque, lei può riprendere il mio protetto, se ci paga in generi voluttuari, principalmente alcolici e devono essere tanti, ma non solo, perché a noi bere a stomaco vuoto fa male; in alternativa va bene lo stesso se ha una figlia carina, ma sarebbe meglio due".
L'uomo con la telecamera rise, e gli disse che era pronto a rifocillarli con quanto aveva nel camper lì vicino, che di roba ce n'era abbastanza. Renè aggiunse, con ka voce alla Totò: "Lo dico per lei, si lasci servire da me che sono un uomo di mondo: ci ripensi, se ha due figlie; non so se le conviene darci libero accesso alla dispensa: quello lassù", indicando Paco", è peggio di un'idrovora".
Aveva ritrovato rapidamente la battuta, di fronte ad un discreto pubblico e stava avendo il suo consueto successo. Poi d'impulso si girò per guardarsi dietro ed aggiunse, senza aspettarsi risposta, rivolto a Patti che lo guardava e non rideva: "Ma cosa ci fai tu agli uomini? Oh cazzo, adesso devo recuperare tutta questa corda, che se quello mi cade un'altra volta stavolta fa un buco per terra profondo mezzo metro!".
Paco nel frattempo aveva ripreso ed aveva ripreso rapido, agile, deciso. Ascoltava le battute scherzose dell'amico là sotto e ne sorrideva. Si sentiva bene, bene, bene. Non gli dispiaceva quello che gli era appena capitato, la rapida scarica di adrenalina l’aveva reso più forte e si sentiva pronto. Adesso era pronto. Signori in scena. Finalmente.
Incominciò ad aggredire la via con una decisione che sapeva di non avere mai avuto. Si inventava passaggi di forza e di equilibrio, sostenendosi con due dita e movendosi preciso. Arrampicava come un grande. Aveva una sensazione di se stesso sulla parete che non aveva mai provato e che gli permetteva di andare oltre. Era quasi contento. Pensava a quello che avrebbe raccontato a Mondo, quando si sarebbero incontrati nuovamente, accucciati di fianco alla stufa che scoppiettava, con le scintille che morivano uscendo e le tazze fumanti in mano, complici di un segreto tutto loro.
Ogni tanto sentiva partire qualche applauso proveniente dal basso nei momenti che quelli di sotto giudicavano più critici, mentre a lui apparivano impegnativi sì, ma di una semplicità disarmante. Incominciò a fischiettare, come gli capitava quando gli girava nel modo giusto, e sapeva farlo bene. Gli venne naturale mettersi a fischiare “Blowing in the Wind” di Bob Dylan; era un brano che adorava da molto tempo prima di One ed a cui non pensava più da mille anni. E adesso era lì, in testa tutta per lui, fresca come allora, pronta nel Juke Box della sua memoria. Lui mise giù la monetina e questa sali, dai polmoni alla lingua, transitando stretta attraverso le labbra socchiuse, uscendo libera mentre lui continuava a salire a tempo quasi non facesse sforzo, modulandola e usando tutto il fiato che aveva dentro. E il suo fischiare si propagava, rimbalzava in parete, e chissà dove andava finire. Forse non finiva.
Sotto erano tutti a guardarlo con il naso in su. Renato si era impossessato del berretto dell’uomo con la telecamera, se lo era messo per terra davanti ai piedi esclamando: “Musica & spettacolo, eccezionalmente solo oggi signori: fatevi avanti gente, per una generosa offerta”. Non era possibile: era il Renato di sempre.
Paco aveva ormai raggiunto l’altezza dove stava Bruno, che aveva assistito a tutto e lo stava fissando. Era stanco e si vedeva. Era sudato e un poco della spavalderia l’aveva persa, strappata pezzo per pezzo dalle difficoltà incontrate lungo la sua via. E quella comunque era una via tosta, non dimentichiamolo. Paco lo guardò bene arrivando su; lo vide stanco ma comunque non vinto, sudato e muscoloso, col minuscolo moschettone alla cintola dell’imbrago che gli faceva dondolare il cellulare e, nonostante quel particolare assurdo, involontariamente lo ammirò. Ci voleva grinta e quello ne aveva a pacchi. Istintivamente, sempre fischiando, gli sorrise.
“Hai finito di fare il buffone?” Gli tirò addosso invece l’altro. Era seccato e la frase gli uscì sibilando, stretta tra i denti. Paco si ricordò la sua prima impressione nei confronti di Bruno e quasi si pentì di avergli sorriso, ma rimase sereno: “Veramente avrei appena cominciato: sai, oggi mi va così, che vuoi farci, sono un pò "descentrà"; noi gente di montagna siamo come il cattivo tempo: imprevedibili, non sai mai quando ti arrivano addosso.” Gli disse, saltando noncurante uno spit con uno slancio che fece partire un altro applauso ed afferrando rapido appigli inesistenti, leggero come un gatto. Gli sembrava di arrampicare sulla luna. Lo guardò fisso e poi, stavolta senza sorridere, aggiunse: “Sai, dovresti provare a prenderti un po’ meno sul serio, rilassa sai? Goditela la parete, non cercare di vincere, perché non è con me che stai facendo una gara ma con lei. E lei non la vincerai mai”.
Bruno stava cercando qualcosa di tagliente da rispondergli, a quel bastardo saputo, una secchiata d’acqua gelata per levare il sorriso beffardo che gli faceva montare mille cristi, ma non ne ebbe più il tempo.
Incominciò tutto con un suono sottile, uno scalpiccio di passi di piccoli folletti maligni che correvano giù dalla parete. Poi tutti insieme vennero giù quelli grossi, e la scarica di sassi li investì. In pieno.
“Pietree!!!” gridarono quasi all’unisono da sotto sia Tony sia Renato. La gente si disperse in un lampo, come quando la goccia d’acqua dell’acquaio impatta contro il ripiano di marmo, mentre i due si allontanarono quel minimo necessario per continuare a far loro sicurezza. Il signore con la telecamera non si era invece mosso, continuando a riprendere in su. Era brutta, brutta davvero. Istintivamente i due si acquattarono contro la parete, abbracciandola, bimbi attaccati alle gambe della madre, cercando di offrire il minor numero possibile di parti esposte alla furia del momento. Nessuno dei due aveva il casco. Bruno era assicurato, mentre a Paco per assicurarsi mancava ancora più della lunghezza del suo braccio. E l’altro rinvio sotto non l’aveva volutamente messo. Non riuscì a fare a meno di pensare: “Cazzo, devo far regolare l’orologio dei desideri: va indietro di una mezz’oretta abbondante”, e poi più niente. La scarica era decisa: i sassi venivano giù fischiando anche loro, ma la canzone non gli piaceva affatto. Quelli piccoli erano un morso feroce, che lacerava piccoli lembi di pelle e scappavano via, ma quelli più grossi invece facevano male, e parecchio.
Era durato il tutto meno di cinque secondi e come era arrivato tutto era finito, con gli ultimi ritardatari che, rimbalzando, si perdevano nel vuoto. Poi silenzio.
Paco si staccò dalla parete, tossì, sputando saliva, sangue e polvere e si guardò: la testa gli girava appena, un fastidioso moscone ci sbatteva rabbiosamente dentro. Cominciò a muovere le dita delle mani. Dai capelli ai piedi era bianco di polvere, gli sembrava di essere stato pestato per bene ed un rivoletto di sangue gli partiva da un ampio taglio sul dorso della mano e proseguiva giù giù in tutto l’avambraccio, terminando in piccole goccioline scure che si smarrivano sulla roccia, mischiate alla polvere. I suoi pantaloni avevano subito l'ultimo e definitivo assalto. Guardò di riflesso Bruno ma per un secondo non comprese: tra la polvere e le botte ricevute aveva la vista annebbiata ma c’era qualcosa che non tornava. Scosse la testa come per metterlo meglio a fuoco.
Bruno era una maschera di sangue ed aveva una mano piegata sinistramente all’indietro, segno di un polso chiaramente fratturato che lui si guardava instupidito. Sembrava ubriaco. Un masso aveva colpito la roccia proprio sopra di lui sull’occhiello dello spit ed era esplosa in mille schegge appuntite. Si era istintivamente messo il braccio davanti agli occhi per proteggerli, e quel gesto glieli aveva salvati, ma il resto era un casino e grosso. I pezzettini micidiali l’avevano colpito dappertutto: la canotta era a brandelli e del cellulare non c’era più traccia. Un pezzo di pietra grosso come un pugno gli aveva girato il polso e gli aveva mancato di un soffio la tempia.
Paco si riscosse. L’attenzione si concentrò come uno zoom della sua Nikon sul punto d’impatto del masso. Il moschettone del rinvio si era crepato, della leva di chiusura non c'era più traccia e la corda, mezza colpita anche lei e mezza sfilacciata, stava cominciando a sfilare fuori dall'asola.
“Molla, molla mollaaa!!!” Gridò di colpo Paco, rivolto a Renato, mentre inconsciamente, si era già preparato a spostarsi, abbandonando la sua posizione. Aveva bisogno di corda e subito. Quello non sarebbe rimasto su ancora per molto e se fosse caduto una corda in quello stato non avrebbe retto allo strappo. L'altro di tempo non ne avrebbe avrebbe avuto più.
Paco non guardava sotto, non vedeva e non sentiva, non gliene fregava un cazzo del mondo. Doveva arrivare lì ed arrivarci subito. Fissava duro quel lembo di corda obbligandola con quello sguardo a fermarsi. Avrebbe voluto fermarlo, 'sto cazzo di tempo. Schioccava le dita: "CLIC", e lo fermava.
Tutto fermo: il sole, le nuvole, un merlo che passava veloce a meno di tre metri da lui e che invece rimaneva sospeso nell'aria, immobile.
Tutto fermo: i gitanti là in fondo sul sentiero, il suono dei campanacci delle mucche della margaria, il vento e le voci della gente improvvisamente in silenzio ed immobili. Tranne lui che, con tutta la calma e l'attenzione che serviva, si spostava, arrivava dall'altra parte, metteva quello al sicuro e poi: "CLIC!" e la giostra della vita riprendeva a girare, prima piano piano e poi regolare. I rumori interrotti a metà si riattivavano, ed i movimenti sospesi continuavano. Avesse avuto quella possibilità stamattina... "CLIC!" e forse non sarebbe neanche venuto su, impiegando quell'assenza di sè per passare del tempo, anzi del non tempo solo con Patti. Ed invece era lì. Il merlo era passato in un frullo d’ali e lo scampanio non si era fermato.
Aveva raggiunto la sosta in un secondo e si era assicurato, aveva cominciato a parlare e non aveva più smesso. Parlava con voce monocorde, bassa e profonda, per tranquillizzare Bruno e non trasmettergli l'angoscia delle cose che non era in grado di cambiare che lo stava attraversando, mentre dava ordini rapidi e secchi ai due di sotto.
"Renato, sei vivo? Tanto anche se hai preso un sasso in testa si è sicuramente rotto lui e quindi fai quello che dico. Ho intenzione di andare a prenderlo al volo quindi mollami corda come se non ne avessi affatto. Non ho tempo per scendere e salire, quindi attraverso, si dovrebbe poter fare. Se non ce la faccio e cado tienimi, proverò poi da sotto a risalire sulla sua via rimanendo assicurato dall'alto, e Bruno, ascoltami, TU NON TI MUOVERE, non hai niente, stai tranquillo, tienti bene che arrivo subito. Tony, tu non fare niente, tienilo così com'è, non mollare e non metterlo in tiro, che la corda non è messa bene". Era un eufemismo.
Erano a metà parete. Le due vie non erano poi distantissime. C’era solo da fare in fretta. Se solo Bruno avesse potuto mettersi in sicurezza. Bastava un cordino, ed una mano che funzionasse. Sembrava un cameriere che porta un vassoio senza il vassoio, e stava a guardarsela messa in quella strana posizione, come ipnotizzato.
Il più rapido traverso della sua vita. Arrampicare in orizzontale era sempre stato strano, per lui che cercava sempre la via della “goccia d’acqua”, come gli dicevano i libri dei vecchi, dei Comici e dei Bonatti che aveva divorato da piccolo. Andare di lato era strano, quasi innaturale. Belli invece i traversi delle dolomiti, dove aveva anche fatto dei pendoli da paura, quasi correndo orizzontale alla parete, come se la forza di gravità fosse nel fianco della montagna e non sotto di lui. La corda lo richiamò indietro. Renato non era stato abbastanza veloce: “Scusa”, gli disse da sotto, dandogliene: “E’ che sto contando i centimetri, non è che ce ne rimanga poi tanta”.
“E’ che sei uno spilorcio, ecco quello che sei, dovevamo usare la mia. Ti avevo detto di comprartela da sessanta metri e non da cinquanta” - “Primo, tanto me la porto sempre io nello zaino, tu trovi sempre mille scuse tra cui il fatto che hai la moto per lasciarla a casa, e secondo te l’ho già detto che facevano i saldi, c’era solo più questa ed un’altra fatta per il campeggio, non sono neanche sicuro di aver preso quella giusta; beh, pensando ai voli che mi ci hai fatto sopra, devo aver scelto quella buona. Comunque dopo di oggi non ci appendo più neanche i salami. Mi sa che me ne devi una nuova”. Continuando a danzare, Paco guardò il nodo davanti all’imbrago sorridendo. Edelrid 10.2mm, c’era scritto. Avrebbe retto a ben altre cadute.
Bruno era nel limbo. Sentiva i rumori, sentiva voci ovattate e non riusciva a vedersi altro che quella mano tirata all’indietro davanti ai suoi occhi che non si levava da lì, chissà perché. Non aveva dolore, solo un “uuuuuuuuuuu” sommesso che suonava incessante. Per il resto la visione lattea delle cose che lo circondava lo faceva sentire in un bozzolo. Non aveva capito ancora cosa era successo. Si sentiva acquoso, e qualcosa di dolciastro e appiccicoso gli impiastricciava la faccia.
Poi lo vide.
Vide che stava venendo verso di lui, quel bastardo. Sì, era proprio un bastardo: non gli bastava farsi bello facendo a momenti anche le capriole su quella via, non gli bastava salire come se camminasse invece che arrampicare; non gli bastava averlo sputtanato e metterlo in ridicolo davanti ai suoi amici, raggiungendolo in due minuti mentre lui ci aveva sputato l’anima a salire: adesso voleva anche rubargli la via! Ma gliel’avrebbe fatta vedere lui, a quel fesso. Non l’avrebbe raggiunto mai, avrebbe vinto lui. Era solo a due metri; era ora di muoversi. Se non fosse stato per quella sensazione che aveva. Si sentiva drogato. Paco stava cercando di muoversi più in fretta che poteva, e mentre si avvicinava a Bruno, che continuava ad assomigliare ad uno zombie, continuava a parlargli piano per farlo stare tranquillo.
Era stato quando era su un passaggio delicato, a meno di due metri da lui che vide l’altro muoversi: sembrava che avesse deciso di riprendere a salire. Per un secondo pensò solo che stesse cambiando posizione, poi di colpo lo vide: quello stava veramente per ricominciare a salire.
“Bruno, ascoltami. Fermati. Con quella mano non puoi muoverti. Bruno, aspetta, non muoverti, Bruno, mi senti? Bruno, ti ho detto di non muoverti. Dammi un minuto ed arrivo. Ascolta! Cazzo, Renè, questo è andato, non mi sente! Tony, dirgli di fermarsi!” Finì la frase quasi urlando.
Bruno avvertiva che quello stava veramente arrivando. “Non ce la fai, bastardo che non sei altro, non arrivi a prendermi, ti faccio vedere io come si arrampica, altro che montanaro”. Pensava ma non riusciva a parlare. Si sentiva in un sogno, forse stava sognando veramente. Se solo qualcuno avesse levato quella mano storta da davanti ad i suoi occhi. Decise di mettere la sua mano destra (ma dov’era?) sulla roccia per riprendersi la via che era sua, solo sua e fece per andare su.
La scarica di dolore quando appoggiò le dita sulla roccia e ci si appese fu devastante. Come se gliel’avessero attraversata con un ferro rovente. L’urlo gli uscì da dentro, così profondo e rabbioso che per un attimo pensò di non essere stato lui. Poi il velo nero dell'incoscienza gli calò definitivamente sugli occhi.
E per la seconda volta in quella giornata, qualcuno in parete si lasciò andare…

Paco capì che non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungerlo. Era in bilico, aveva bisogno di uno slancio per arrivare alla catena ma la sua posizione era troppo precaria. Avesse mancato la presa avrebbe cominciato un pendolo che l’avrebbe sbattuto dietro lo spigolo Fornelli. Ma non c’era più tempo. Decise di provare. O la va o la spacca.
Fissò dove doveva arrivare. Era lungo, forse troppo, ma poi l’altro appoggiò la mano sulla parete, urlò e si sbilanciò all’indietro. Paco saltò.
Una massa di riccioli biondi, con una maglia rossa con le sigle di alcuni sponsor era lì. Sopra Bruno. Con una mano si teneva alla roccia. Con l’altra aveva afferrato Bruno al braccio muscoloso in una morsa ferrea, proprio mentre stava perdendo l’equilibrio. Lo teneva inchiodato alla parete, e sembrava non facesse alcuno sforzo. Era lì e lo vide arrivare alla fine del salto, con le dita che mordevano la catena. Paco era senza parole.
“E… e tu da dove spunti?” Le chiese alla fine. L’aveva guardata negli occhi ed era stato ricambiato da uno sguardo sincero che gli aveva scavato nell’animo. Lei alzò lo sguardo verso l’alto, l’alto della roccia magari più su, in silenzio, con i riccioli che giocavano impertinenti con il vento. Poi gli disse “Vedi di assicurarlo alla sosta con un cordino, che questo pesa”.

…… Ciao Cristina!!! .


[Note per quelli del mio studio a cui, non ho ancora capito ancora perché, piace cosa scrivo (sospetto che sia perché è mia la firma sui loro assegni): 1) Visto che pensate che a scrivere faccia meno danni che a lavorare sul serio, perché non vi prendete quella cinquantina di grane che affollano la mia scrivania così posso soddisfare la vostra curiosità e dirvi cosa succede? Noo? Allora pazientate. Scrivo solo quando posso, e solo se mi scappa proprio.2) Ho comunque imparato, riscrivendo per metà (grazie alla rompi.. Giorgia che proprio non poteva aspettare che finissi e così un pezzettino gliel’ho stampato e l’ho potuto recuperare..)Tomahwak3, che sarà pure piacevole scrivere di getto, buttare giù tutto come ti viene, dal cuore alla tastiera, anche se fai un mare di errori, ma è meglio mettersi su word e POI, solo una volta finito, riportarlo sul post, visto che, non so perché, nel momento in cui ieri, avevo proprio ma proprio finito di scriverla…. Ho perso tutto!!! Qualcuno sa se c’è un backup dei post?]

martedì 21 luglio 2009

"El Grio"

Non so se l'avete letto in questi giorni o l'avete saputo dalla televisione. L'altro ieri, una giovane alpinista vicentina. Cristina Castagna di 32 anni, ha perso la vita sulla catena del Karakorum, mentre scendeva dalla sommità del Broad Peak, la dodicesima vetta più alta del mondo. Ha colpito sicuramente tutti il bigliettino che ha lasciato "Se mi succederà qualcosa lasciatemi dove la montagna mi ha chiamato a sè".

Se volete, rendetele omaggio e andate a dare un'occhiata al suo sito, http://www.elgrio.net/ Dentro ci troverete tutta la freschezza, la voglia di vivere pienamente ogni minuto e la passione per la montagna che sicuramente facevano parte di lei. Lo dico con l'assoluta consapevolezza di aver ragione, anche senza averla conosciuta. Ho letto le frasi di cordoglio sul Guestbook ed ho riflettuto a lungo su questa nostra passione comune che è la montagna, rischi compresi.

E' inutile, chi non ce l'ha non la potrà mai capire. Nasce quando guardi in alto da bambino e ti chiedi semplicemente cosa si vedrà oltre. Quando ti portano a passeggio per mano e vedi le persone che ritornano, abbronzate, con gli zaini tintinnanti e l'espressione felice.

Beh, io la prima volta da bambino me la ricordo ancora adesso, anche se, probabilmente la mia prima montagna in realtà era poco più di una collinetta. Ma ricorderò per sempre quella visione diversa del mondo a 360°, senza ostacoli, con il sole che tramonta talmente lontano che è da un'altra parte del mondo. I colori caldi delle cime delle montagne vicine, i ghiacciai imponenti sullo sfondo e le grandi montagne, quelle che chi le conosce le pronuncia con rispetto, sempre presenti. Bellissimo da levare il fiato.

Non sono stato e ovviamente non sarò mai un valente alpinista, ma chi ama la montagna ama di un amore totale ed assoluto. Ed io amo sicuramente la montagna.

Le lunghe escursioni da bambino sono un elemento fondamentale, per farsi il fiato ed imparare che cosa sono la bellezza ed il rispetto. Ed io ho imparato, e devo ancora una volta ringraziare i miei, che sono stati maestri di vita in questa come in tante altre cose.

E sono fiero nel dire che se, oggi, camminando su un sentiero, mia figlia vede che qualcuno butta una cartaccia, lei la raccoglie, in silenzio, e me la mette nello zaino. Gliel'ho insegnato io.

Crescendo poi, cambia il modo di affrontarla, la montagna. Scopri possibilità ed esperienze nuove, le prime arrampicate con gli amici più incoscienti di te, i "descentrà", come li chiama ancora oggi mia madre. Frequentandoli ti senti simpaticamente un pò descentrà anche tu; gli alpinisti sono una razza tutta particolare, con una spiccata propensione verso i "generi di conforto"(alcoolici soprattutto ma non solo) ed il gentil sesso. Cresci e, comunque cresci sano, in un ambiente magari rude ma che, a suo modo ti forgia e ti protegge.

In quanti rifugi sono stato non me lo ricordo più, ma me li ricordo tutti, nessuno escluso. Ricordo la gentilezza di quei due gestori che avevano tenuto aperto il loro un giorno in più apposta per noi, dopo che avevano saputo che avremmo pernottato nella parte invernale. Ricordo anche le volte in cui si sono incazzati per benino, quando nella numerosa e chiassosa gita di fine stagione avevamo piantato un pò tropo casino. Ricordo i rifugi "importanti", quelli dove si sono riposati alcuni tra i più grandi nomi dell'arrampicata ed anche i rifugi meno blasonati, a pochi passi dalla città. In un rifugio ho fatto il mio addio al celibato, nel periodo in cui il sabato era sinonimo di "arrampicare".
Dopo l'incoscienza dei primi giorni è venuta poi la conoscenza, che per me è stata rappresentata dal corso di alpinismo Gervasutti; ai maestri della "Gerva" devo l'automaticità nella preparazione dei nodi, la tranquillità per portare a termine una via, oltre a mille altre cose.
Gli amici in parete sono quelli nelle cui mani affidi la corda a cui sei appeso e quindi la tua stessa vita; e durano tanto. Non ho tantissimi amici "veri", ma se ne devo lasciarne cinque in cima alla torre... beh, almeno quattro hanno lo zaino sulle spalle.
Le donne in palestra, per me, sono sempre state di due tipi: quelle che guardano e quelle che arrampicano. Le prime fanno un pò parte del gioco che ci piace tanto giocare, ma le seconde sono toste. Quasi tutte più toste di noi maschietti. Ne ho conosciute diverse, ne ho amata qualcuna, mi sono piaciute tutte, sempre.
Che Cristina sia (e non fosse) una tosta si vede leggendo di lei nel suo sito e nelle parole di chi la conosce. E una così non può non piacere.
La scelta di scrivere il biglietto è un altro atto di coraggio e di amore. Nel mio passato ci sono state un paio occasioni in cui, con l'attrezzatura messa in bell'ordine nella stanza, pronta da stipare nello zaino, mi sono fermato a pensare "E se capita qualcosa...".
Non ho mai scritto nessun biglietto, nel timore che mia madre, mettendo ordine nella stanza, avesse potuto trovarlo, leggerlo e soffrirne. Certo è che quando mi capita di pensare che, magari, la mia vita potesse aver fine, non mi dispiacerebbe ritrovarmi da qualche parte, in cima, a vedere lo stesso tramonto di quarant'anni fa.
Arrivederci Cristina, come si sente dire qualche volta nell'ambiente "Sei solo andata avanti". Spero ti potrà far piacere se ti inserirò nei miei racconti, incontrando e dando una mano a Paco, in qualcuna delle sue complicate salite. E se mai ci rincontreremo noi due, se ti farà piacere, sarà un onore farti sicurezza. Promesso.
Non so cosa ma qualcosa devo scrivere. Scrivere di quei due motociclisti. Padre e figlia che domenica hanno improvvisamente terminato la loro corsa nell'urto contro un'auto, su, a una trentina di chilometri da dove ero io.
Non sto qui a dire chi ha torto e chi ha ragione, non me ne frega un cazzo delle frasi che sento spesso, che chi va in moto va sempre troppo forte, che con due ruote è sempre più facile farsi del male. Non qui.
Erano padre e figlia.
Ieri sera tornavo a casa, con la mia piccola aggrappata alle spalle, che rideva felice quando piegavo un poco di più, percorrendo le ampie rotonde che circondano il nostro paese, nel breve tratto di strada che conduce verso casa.
Avvertivo la sua paura quando buttavo giù la moto, ma lei affidava completamente la sua vita a me, stringendomi forte nelle curve più strette. Rideva forte e poi mi chiedeva "ancora una".
Io le stringevo una mano ma non riuscivo a ritrovare serenità dalle sue risate.
Pensavo a lui, e a quell'ultimo sbagliato e definitivo pezzo di vita, con la sua ragione di vita per quell'ultima maledetta volta aggrappata alle spalle.

Erano padre e figlia

lunedì 20 luglio 2009

Appeso con due dita alla vita - Tomahwak 2

Adesso anche il tempo sembrava stare dalla sua parte. Il vento, che spesso in parete può essere un fastidio in più, adesso era una carezza fresca e leggera, che correva sui margini delle sue vecchie cicatrici e sui graffi arrossati che si era appena procurato; il sole caldo aveva asciugato in sottili crosticine le goccioline di sangue che ne erano uscite. La gamba sinistra gli doleva e guardando in basso vide nei suoi pantaloni neri, una sorta di fuseau con ideogrammi cinesi bianchi, un certo numero di buchi nuovi. "Mi sa che è proprio arrivata l'ora di buttarli", pensò.
Il tempo aveva ripreso a muoversi e lui anche. Sgranchendosi avvertiva male un pò dappertutto, ma era un male da lividi la sera, niente che un pò di sano Fastum Gel non avrebebbe potuto far passare in tre o quattro giorni. Magari domani mattina sarà sicuramente dura anche alzarsi dal letto, ma al limite basterà una telefonata in falegnameria. Tanto il "Mondo", (diminutivo di Edmondo), il padrone, una persona d'altri tempi come d'altronde era il suo stesso nome, che da tempo l'aveva quasi adottato e che lo trattava ormai come un figlio, avrebbe sicuramente capito e non avrebbe fatto storie. L'aveva già fatto altre volte, tutte le volte che gli capitava di salire qualche via impegnativa che magari richiedeva più giorni di quelli che aveva programmato, o quando era costretto a bivaccare in parete per il maltempo. Quando poi tornava si trovavano la mattina presto in falegnameria, si accucciavano di fianco alla stufa riempita di trucioli e, mentre Mondo preparava il caffè per tutti e due, lui gli raccontava tutto, tutto nei più piccoli particolari, in racconti che riportavano spensieratezza negli occhi azzurri circondati di rughe di un vecchio. Mondo in montagna c'era andato anche lui, ancora con le corde di canapa ed il berretto di feltro ed in falegnameria c'erano ancora impolverate dal tempo e dalla polvere di legno, vecchie foto in bianco e nero delle sue salite. Erano state quelle foto ed il libro di Emilio Comici "Tutte le mie cime" ad avvicinarlo alla roccia, e nello zaino di Paco c'era sempre la sua vecchia spilla in metallo del CAI, che Mondo gli aveva regalato per festeggiare la sua prima normale al Cervino.
Renato lo teneva ancora in tiro ed attendeva che ripartisse. Era in silenzio. Il comportamento del suo amico era strano, non era il tipo da fare l'istrione, non in prima persona, normalmente. Era disponibile a seguire le sue di mattane, ma di norma era molto più chiuso in quello che era il suo mondo. Intuì che c'entrava la persona alle sue spalle, ma c'era qualcosa di diverso che non riusciva ad agguantare. Paco puntò i piedi e si distese quasi perpendicolare alla roccia, come per stirarsi, poi si voltò verso il basso e con un sorriso gli fece in silenzio un gesto per dire quelcosa che non riuscì ad intendere. Poi piegò le gambe e gli disse semplicemente "vado su". E lui gli diede corda.
Paco aveva una visione molto più chiara adesso. Bruno era ormai quasi imprendibile, ma non gliene fregava assolutamente niente. I passaggi sembravano segnati con l'evidenziatore, la via era diventata un problema già risolto ancora prima di salire. Il piccolo gruppetto fermo a guardare voleva uno spettacolo che lui adesso era assolutamente in grado di dare. Invece aveva scoperto che quella là sotto non c'entrava niente. Non si trovava a quel punto per lei. Mentre volava i suoi pensieri si erano chiusi a riccio intorno all'immagine di una persona sola, quella che si era affilata le unghie nella sua anima. Le sue nuvole nere, che erano state un regalo d'addio, inspiegabilmente ora si stavano allargano, lasciando spazio ad un cielo nuovamente sereno.
In un paio di movimenti Paco si ritrovò a un metro scarso dal punto di prima, quando era volato. Una volta lì fece per prepararsi a mettere finalmente il rinvio quando ebbe un'idea. "Renè, te lo ricordi l'articolo su Alp della prima libera di Salathe?" Eccome se l'altro se lo ricordava. Era stata una salita magica in cui Alex Huber e socio, in sei giorni di arrampicata assoluta, avevano liberato una tra le vie più grandiose al mondo a El Capitan, nella Yosemite Valley; quello spettacolare servizio li aveva folgorati e loro due si erano trastullati a lungo con l'idea di una vacanza da quelle parti, cosa che economicamente non erano mai stati in grado neanche di ipotizzare. "Ti ricordi dell'espediente che aveva avuto per passare un punto cruciale la mattina presto?" Anche quel punto, Renato lo ricordava bene, e nel sorriso del ricordo un dubbio cominciò lentamente ad stringergli lo stomaco. "Non è quello che penso, vero? Non è che ci stai pensando davvero a quello che penso?" Gli chiese, con una nota di preoccupazione. Paco proseguì a ricordargli l'articolo: "Quella mattina, dopo una notte trascorsa sul portaledge a strapiobo sulla parete, Alex non riusciva a sentirsi in sintonia con la roccia ed allora ti ricordi come fece a ritrovarlo? Semplicemente è andato, con qualche centinaio di metri sotto, su di un paio di movimenti oltre il rinvio e poi si è lasciato cadere nel vuoto, sostenuto dall'amico, per due o tre volte se ben ricordo, fino a ritrovare il giusto feeling e superare poi, agevolmente il passaggio cruciale." Poi abbassò la voce, parlando quasi a se stesso, anche se Renato lo sentiva fin troppo bene: "Un grande, ecco cos'è quello. Veramente un grande. Mi domando cosa ha provato".
Inspirò e gli disse solo: "Vado", senza preoccuparsi di controllare se Renato era pronto.
E si lasciò cadere.

sabato 18 luglio 2009

un passeggero scomodo...

Ieri sera non è che piovesse, diluviava proprio. L'acqua veniva giù massiccia e ti investiva in scrosci pesanti portati giù da raffiche di vento, che ti spostavanto letteralmente.
Già, ti spostavano perchè, come ultimamente mi accade, ieri sera ero in moto, nonostante tutte le previsioni che garantivano pioggia e grandine sull'intero nord-ovest, e mia moglie con tutti i suoi "te l'avevo detto". Mi serve abbandonare l'auto e la sua noiosa tranquillità per percorrere quelle due mezz'ore la mattino e la sera, per pensare, inventare nuove storie da scrivere e nuove favole da regalare alla mia bimba, inseguendo treni e sogni che corrono su binari paralleli. Osservo l'arco alpino la mattina presto e le nuvole che giocano intorno al Monviso la sera, indorate dal sole. Passo vicino a vite conosciute e a perfetti estranei. Non sono chiuso in una scatola e respiro quella che il mio buon vecchio amico Slaymer definisce "Pura vida".
Ieri sera, per circa dieci minuti, mi sono portato sulla parte posteriore del sellino quella signora che alcuni immaginano vestita di nero, altri di bianco, e che di solito si porta dietro la falce. Mi ha scherzosamente punzecchiato per due volte, e mi ha ricordato che non è che io sia proprio immortale e che mi conviene fare più attenzione. Sempre.
In due occasioni, complice l'acqua che veniva giù ed il fatto che quando piove la gente non guarda affatto negli specchietti, ho rischiato di volare per terra. Nel primo caso un pirla ha deciso di sorpassare mentre già stavo sorpassando io, spostandomi nell'altra corsia mentre, ovviamente di fronte a me stava sopraggiungendo qualcuno, ma il secondo caso è stato peggio.
Ero ormai verso casa e probabilmente il fatto che mi sentissi arrivato, mi ha fatto abbassare leggermente l'attenzione. Nonostante l'asfalto viscido non andavo pianissimo: avevo appena sorpassato una piccola fila di auto e stavo accelerando per distanziarle; mi stavo avvicinando all'ultima delle mie curve preferite e volevo affrontarla con la sicurezza di non avere nessuno attaccato al didietro. Davanti a me, ad una cinquantina di metri un'altra auto, proprio all'inizio della larga curva verso sinistra, procedeva normalmente.
E' stato in quell'attimo, chiamala sfiga, chiamalo destino, chiamalo disattenzione o come cacchio ti pare che è successo tutto. Nell'attimo in cui abbandoni lo sguardo dalla strada di fronte a te per controllare le altre auto nello specchietto. L'attimo in cui magari pensi che, anche se bagnato, tra poco riceverai in regalo l'abbraccio ed i baci di tua figlia, e non conosco regali migliori.
L'auto davanti, non sono riuscito a capire perchè, si è praticamente fermata, ed a 110/120 km/h si fanno dai 30 ai 33.333 periodico (calcolatrice!) metri al secondo. Quando ho guardato davanti i fari degli stop accesi erano diventati improvvisamente vicini, forse troppo. Pioveva. Mi ci sono visto addosso, ho rivisto e ricordato l'ìncidente avuto anni fa e qui ho subito capito che mi sarei fatto male parecchio. Ed i baci sicuri di mia figlia sono diventati improvvisamente fragili, come la mia stessa vita in quel dannato istante.
Ho immediatamente mollato la manopola dell'acceleratore e frenato con il freno posteriore, facendo intraversare leggermente la moto, quando ormai ero distante solo piu qualche metro. Sono riuscito, e giuro non so come, a passare a non più di dieci centimetri dal fianco dell'auto e a percorrere la curva sull'esterno (un pò come nel duello Rossi e Stoner di Launa Seca... eh... ti piacerebbe!!) e, dopo pochi minuti, stavo mettendo la moto in garage, mentre un sms di Slaymer mi comunicava di essersi lavato bene anche lui (P.S. Grazie, andrò a leggermi "Turista della neve").
Ieri sera mia figlia mi ha detto che la stavo baciando troppo e che la pungevo con la barba.... Ho continuato a torturarla lo stesso.

venerdì 17 luglio 2009

Appeso con due dita alla vita - Tomahwak 1

L'altro era partito forte. Era uno stronzo, sì, ma indubbiamente sapeva il fatto suo. Quei muscoli volevano pur dir qualcosa. E lui cominciava a sentire quella voce irritante, dentro di , che da qualche tempo, nei momenti in cui doveva confrontarsi a muso duro con il mondo, gli diceva solamente "sei un pirla". E adesso era lì, a tre metri da terra, già pronto a far vedere a tutti che non valeva un cazzo.
Dopo lo scambio di battute tra Renato e la fatalona, loro due si erano infine diretti verso l'attacco della via. Poco distante anche il bestione muscoloso ed il suo compagno avevano finito i preparativi e si stavano incamminando, con lo sguardo di Bruno che era rimasto torvo e fisso su di lui da prima. Cominciava sgradevolmente a sembrare una gara, e il fastidio allo stomaco gli faceva pensare che non era stata poi una grande idea. Paco non calzava ancora le sue scarpette, che metteva rigorosamente solo prima di salire. Renato si era allontanato un momento, era andato ad armeggiare nel baule della sua macchina, che lasciava sempre aperta ("così se da fastidio a qualcuno la sposta") e stava tornando indietro con un pacchetto scuro tra le mani.

", buon compleanno, vecchio. Contavo di dartela stasera in maniera da costringerti ad offrirmi almeno una pizza, pezzo di spilorcio che non sei altro; ma adesso ti serve di più, almeno non fai la figura del barbone, anche se dubito che serva a mascherare, perché tu sei davvero un barbone!!".

Paco, chinato ad annodare le stringhe guardò dal basso verso l'alto l'amico e prese il pacco con una smorfia in viso che doveva assomigliare ad un sorriso, prendendogli nel contempo la mano a srtingerla a ringraziarlo e non sicuramente solo per il regalo: non gli piaceva festeggiare il suo compleanno, quella scadenza con il suono di una campana da morto che da piccolo segnava quanti anni aveva finalmente raggiunto, e che adesso avvertiva in maniera sinistra che un altro anno gli era stato sottratto e che sempre meno gliene restava ancora. Mal sopportava che gli ricordassero che il tempo stava passando, lento e inarrestabile, non era giusto. Ogni anno che doveva festeggiare gli ricordava un gradino che scendeva con passo pesante, verso qualcosa che sembrava peggio di quello che si era lasciato alle spalle. Odiava le feste a sorpresa, non gli piacevano i regali fatti per forza, che dimostravano solamente quanto uno era disposto a spendere. Per lui un regalo era dimostrare all'altro o all'altra di turno cosa significava la loro presenza nella sua vita e quali orizzonti nuovi quest'amicizia o questo amore avevano aperto.

Quand'era molto più giovane, "nell'età stupida", come aveva letto in un libro (in cui peraltro non si sentiva di essere ancora uscito) si era perdutamente innamorato nei confronti di una ragazza che era venuta a passare l'estate in montagna e che ricambiava timida i suoi sguardi, quando lui riusciva a malapena a parlarle. Mamma mia quanto era bella, e dolce, e giovane. Lei l'aveva infine invitato alla sua festa e lui era diventato matto, in cerca di qualcosa di unico e speciale che raggruppasse e manifestasse tutte le sue emozioni. Era poi partito alle quattro del mattino, zaino in spalla con dentro la sua reflex ed un tele a specchio da 500 mm che gli erano costati mesi di niente pizze con gli amici e niente benzina nella moto. Era andato su, in alto nelle valli sopra lo Scarfiotti. Ne era tornato solo a tarda sera con alcuni tra i suoi scatti più belli di allora, impressi dentro al rullino: aveva infine scelto quello di una volpe con i suoi due cuccioli affacciati alla tana, con l'alba che ingialliva le montagne leggermente sfuocate sullo sfondo, che gli era costata un'appostamento di quasi due ore. Era forse leggermente sovraesposta ma poco importava. L'aveva fatta lui; aveva dedicato un giorno della sua vita, unico ed irripetibile per donarle una cosa unica, che fosse esclusivamente per lei: nessun altro avrebbe potuto eguagliarlo.
Difatti. Lei aveva guardato con aria leggermente annoiata la foto e lo aveva ringraziato con un sorriso di circostanza ed una frase banale del tipo "non dovevi". Non dovevi?? Ma che cazzo di risposta!!!. Non aveva capito, non aveva letto niente di quello che a lui pareva fosse lampante. Poi invece aveva sgranato gli occhi ed aperto la bocca in un sorriso dai denti candidi quando un altro, un biondino tutto leccato e fighetto, gli aveva regalato una maglietta di "Guru", che probabilmente si era fatto comprare dalla mamma. Con una scusa dopo una mezz'ora era poi scappato dalla pizzeria e se ne era andato. Subito dietro l'angolo aveva trovato i due, stretti in un bacio appassionato che avrebbe potuto essere il suo, se solo avesse scelto il regalo giusto. Non l'aveva più cercata rivista.

Era stato in quegli anni che il mondo aveva pian piano cominciato a parlare una lingua diversa dalla sua. Lui si era semplicemente adattato, spostandosi dove potevano ancora capirsi a vicenda.

Guardò il pacchetto che aveva tra le mani. La carta era quella da pacco, ed era legata con uno spago spesso. Renato non badava molto alle apparenze. Strappando la carta tirò fuori una maglia nera: la riconobbe subito, era quella maglia nera: l'aveva vista una volta in un negozio e quando si era decisa di andare a comprarla non l'aveva più trovata. Una maglietta della Light Hunter. L'aveva poi cercata a lungo in giro ma senza fortuna. Ne aveva parlato una volta sola a Renato, settimane fa. E lui se ne era ricordato, e chissà a chi aveva ritto le balle per riuscire a procurarsela. Era una maglia con le foto in sequenza di uno sciatore mentre esegue un salto compiendo un trick da brivido, una rotazione completa sull'asse verticale. Sotto una frase che riassumeva quella che era diventata praticamente la sua filosofia: "Non d'è niente di male a cadere. E' sbagliato rimanere per terra". Quello era un regalo, per come la pensava lui. E per fortuna non era il solo a pensarla così.

"Grazie. Non ti dico altro. E pizza pagata, se prendi solo la margherita, anzi mi voglio rovinare e ci aggiungo anche una piccola bionda", gli disse tendendogli la mano.

Renato gliela prese e lo aiutò ad alzarsi. "Io stasera prenderò una otto stagioni con supplemento di mozzarella di bufala e di birre ne berrò almeno due, medie, e, per non indurti in tentazione spenderò quei tre o quattro Euro che ho ancora in tasca per offrirti l'aperitivo, crepi l'avarizia, così o paghi tu o ci tocca di nuovo scappare dalla finestra del bagno... Ma ci hai pensato che regalare una maglia con tutte queste balle sul cadere ad uno che arrampica è tirarti un po' di sfiga?" Dai che ti assicuro: Madonna come sei figo con questa maglia!"

E adesso era già svanito tutto: l'allegria e la sicurezza. Quando sei sotto e guardi la parete ti senti pronto a tutto, ti senti grande ed invincibile. Poi bastano un paio di movimenti e la spia della riserva è già lì pronta ad accendersi. Ma adesso c'era qualcos'altro: quella situazione non gli piaceva e non gli girava affatto bene. E poi c'era che stava andando da primo e su una via tosta. E con quell'altro che era di fianco al lui, anzi era già sopra di lui, che grugniva rumorosamente mentre cercava di arrivare a mettere il rinvio. E poi c'era quell'altra sotto, che, distesa languidamente sullo sdraio poteva anche dormire, nascosta sotto gli occhialoni, ma che lui sapeva che lo stava guardando. Se lo sentiva nella schiena quello sguardo, quegli occhi che aveva solo intravisto erano lì, due punture di spillo, che gli bruciavano dentro.

Renato immobile sotto di lui lo guardava e gli faceva sicurezza, e tra i denti gli uscivano piccoli incitamenti e smorzate bestemmie. A qualche metro da lui Tony faceva sicurezza all'altro che stava andando come un treno.

E quella vocina, subdola, che gli ronzava intorno come un insetto fastidioso, che andava e veniva, e che sgretolava a mano a mano tutte le sue certezze. E cominciava ad avere paura: paura di cadere e di farsi male, di farsi vedere un perdente. Cominciava a tenere troppo sugli appigli, a stringere troppo con le dita, ad usare troppo le braccia, invece di cercare l'equilibrio e la musica di una via fatta bene. E aveva le palme delle mani sudate. Troppo.

Era solo un paio di metri sopra un rinvio quando accadde. Aveva la mano destra nel sacchetto della magnesite quando improvvisamente l'appiglio del piede destro cedette. Il piede sinistro stava spingendo per cui andò subito in rotazione. Poi tutto durò meno di un secondo, ma in quel secondo buona parte della sua vita aveva veramente cominciato a scorrere. Ed era quella parte in cui lui ed "One" erano stati veramente una coppia. Non aveva neanche provato ad urlare "Tienimi!!!". Non ne aveva proprio avuto il tempo.

Aveva cercato maldestramente di tirare fuori la mano dal sacchetto ma non aveva fatto in tempo. L'altra mano aveva mollato la presa ed era andato giù.

Volare due metri sopra un rinvio vuol dire fare un volo di almeno quattro metri ma Renato era stato veloce come non mai. Aveva capito più che vedere che stava perdendo la presa e, nel momento esatto in cui era venuto giù aveva recuperato almeno un metro e mezzo di corda, spostandosi all'indietro per ridurre il volo. E quando aveva ricevuto il contraccolpo non si era mosso di un millimetro.

Paco si era visto scendere dritto come al rallentatore, mentre aveva sentito l'Ooohhh! della gente ferma sotto di lui ad osservarlo. Poi aveva sentito la botta al fianco, che gli aveva fatto uscire l'aria dai polmoni tutta d'un fiato, accompagnata da un lamento sordo che gli era uscito involontario, quando l'imbrago l'aveva improvvisamente trattenuto. Nella sua mente non aveva per un attimo smesso di analizzare lucidamente cosa stava succedendo ed era riuscito anche ad impedire di spaccarsi il gomito su uno spuntone che gli era venuto incontro per fargli male.

Poi silenzio. Silenzio sotto di lui, silenzio in parete. E silenzio dentro di lui.

Era praticamente attaccato trenta centimetri sotto al rinvio, Renato aveva fatto un buon lavoro.

"Tutto bene? Come stai? Ti calo? Mi senti? Parlami, cazzo!" aveva gridato Renato.

Lui provò a muoversi, ancora appeso. A parte la botta non gli sembrava di essersi fatto granché, ma a caldo è difficile sentire il male. Certo che dove aveva sbattuto gli sarebbe venuto un bel livido. Alzò un braccio in direzione dell'amico: "Grazie Renè, sei stato troppo veloce... proprio come mi dice sempre tua moglie... Mi sa che è la maglia che porta sfiga!" Gli disse finalmente ridendo, levandosela e lanciandogliela, rimanendo a torso nudo.

Renato l'aveva presa al volo con la mano sinistra, sempre tenendolo in sicurezza, ridendo alla battuta. Era più rilassato, adesso."Che fai? Ti calo? Dai, riposati un attimo che vado su io".

Paco era lì, ancora in parete. Fermo. Silenzio, intorno e dentro di lui. Il fiato ancora grosso che gli faceva alzare ed abbassare rapidamente il petto. Sentiva di nuovo l'aria, il vento che giocava impertinente con i suoi riccioli. Riassaporava improvvisamente la parete che non era più così estranea come gli era apparsa fino a quel momento. La vocina stridula era improvvisamente scomparsa, forse era caduta nel volo, insieme alla paura di poco prima. Le palme delle mani erano nuovamente fresche ed asciutte. Sul petto e sulle braccia qualche graffio neanche poi troppo leggero aveva lasciato sottili righine rosse, segno che proprio tanto distante dalla roccia non era passato. Il dolore cominciava ad insinuarsi lento nel suo sistema nervoso.

"Tutto bene, montanaro?" La voce sprezzante veniva alla sua sinista, più in alto. Bruno era un paio di rinvii più su, e si sporgeva in fuori osservando.

"Non potrebbe andare meglio" rispose. "Beh mi ci voleva proprio, una bella scarica di adrenalina funziona come un tonico, dovresti provare ogni tanto. Sai, adesso mi sento proprio pronto a prendere a calci quel tuo culo da cittadino". Poi si girò verso il basso, verso Renato, che lo teneva ancora in tiro. Dietro di lui Patti era in piedi, e non sorrideva più. "Tranquillo socio, son come nuovo. Dovevo solo sgranchirmi le gambe; sai alla mia età ci metto sempre un di tempo". Poi alzò leggermente la voce, rivolto al pubblico non pagante che era ancora ammutolito, lì in piedi e, disse, alzando le braccia in un gesto da teatrante, con una voce da imbonitore: "E adesso che ho catturato la vostra attenzione, ssiore e ssiori, attenzione che lo spettacolo va ad incominciare!"


E mi devo di nuovo fermare......................

mercoledì 15 luglio 2009

Con quella faccia un pò così, quell'espressione un pò così che abbiamo noi quando vediamo....



Genova, ovviamente...
Ieri è stata decisamente una bella giornata. Premetto che continuo ad essere fermo, ed a tutte le magagne che mi affliggono (caviglia, ginocchio) si è aggiunto anche il classico colpo della strega, che mi ha colpito mentre, alle sette di un mattino di qualche giorno fa, stavo decidendo come potare una rosa. Tre giorni con un male d'inferno che mi impediva anche di dormire. Quando uno non ha più l'età... Niente di più sbagliato: io l'età non ce l'ho ancora. E dato che ne ho sicuramente passate di molto ma molto peggio, mi sono armato di antidolorifici, antinfiammatori e fasce che quando camminavo ero rigido come un corazziere alla parata.


L'altra sera dopo aver scritto "le donne di Paco", ho incontrato il Renè di Paco, proprio quello vero. Abbiamo fatto un'uscita per soli uomini (eravamo in sei) in una birreria western dove una manica di esagitati in jeans, stivali e Stetson calcato in testa ballavano, ed abbiamo passato una bella serata come non eravamo più riusciti ad organizzarne da tempo (colpa mia.. sempre il lavoro), bevendo birra (un unico boccale: 3.5 litri!), parlando delle nostre montagne e del nostro buon vento trascorso insieme. E' stato così insolito scrivere il racconto basandomi su di lui e incontrarlo che stavo quasi per chiedergli cosa ne pensava di Patti.... Magari glielo farò leggere.
E' stato piacevole riscoprire che l'affinità è rimasta, che non siamo cresciuti, che siamo sempre pronti a combinarne una e che le nostre zingarate sono sempre in grado di far scappare un sorriso alla cameriera di turno. In fondo non siamo cresciuti poi tanto.

Ed oggi la schiena sembra quasi tornata a posto. Il male c'è ancora, ma è una voce lontana che senti indistinta. Sono di nuovo qui, pronto per rimettermi in pista, in tutti i sensi e ancora una volta. E ieri ho rirespirato il mare, ed è stato meglio di mille creme, un'iniezione di antidolorifico dal sapore di salmastro direttamente nell'anima. E mi sono subito sentito bene.

Adoro Genova. Quando mi chiamano per un lavoro lì mi sembra di aver pescato il jolly. Genova è bella anche nelle zone più degradate, è il sole che scalda sulla pelle già a febbraio, non quella cosa liquida e nacosta dalla nebbia che si vede da noi. E' il mare che senti sempre, è il dialetto strascicato che riempie i miei ricordi di quando ero ragazzino, è la focaccia che profuma, avvolta nella carta oleosa, le case eleganti, le chiese a strisce, i saliscendi e le innumerevoli scalinate. E' elegante, continuamente nuova ad ogni svolta, distesa, languidamente appoggiata sulle colline, che coccola il suo mare in mille anse, dove le vele, dondolano pigramente, beato chi ce le ha. Ah, dimenticavo: ci abita, a parer mio uno tra gli ultimi geni italiani dei giorni nostri: Renzo Piano, che per me vuol dire il Beaubourg, e quindi Parigi, e qui divagherei per ore. Torniamo a Genova.

Ieri siamo partiti presto, affrontando l'autostrada con minore entusiasmo delo solito, complici sti cazzi di Tutor che mi impediscono di esprimermi al meglio. Non ci posso far niente, ma a 130 km/h mi abbiocco. Mi piace guidare, da sempre, ed anche se non ho più a disposizione i 130 Cavalli della mia vecchia Delta Martini, il mio piede è sempre abbastanza pesante. Devo anche dire che ho avuto un buon maestro, mio padre, detentore ancor oggi, sullle strade della Valsusa, di una multa da record..

Complice un incidente in corrsispondenza di lavori in corso che ci ha ritardato l'appuntamento di circa un'ora ed il condizionatore della mia auto che funziona solo a cazzotti (è una lunga storia) sono arrivato stressato al mio appuntamento con il mare, quello sprazzo di azzurro che si confonde con il cielo e che si intravede dopo l'ultima galleria dell'autostrada: ricordo che da bambini facevamo a gara per chi riusciva a vederlo per primo, il mare, laggiù, con il lontano scintillio, preludio delle vacanze a cui anelavamo come l'aria. Erano tempi diversi: mio padre guidava una Lancia Fulvia berlina, tutte le macchine andavano a benzina, solo i camion a gasolio; l'aria condizionata esisteva solo sulle macchine dei ricchi, noi invece aprivamo il deflettore, e non si stava poi tanto male. Non c'erano telefonini di sorta, l'autoradio non aveva rds, frontalini intelligenti o altro: aveva i pulsanti di sei stazioni, il lettore a cassette e l'antenna estraibile. Le cinture se le mettevano solo gli svedesi, che guardavamo straniti. Il viaggio era lungo, molto più lungo e faticoso di oggi, ma per noi voleva dire che andavamo a casa, l'altra casa che ancor oggi considero "nostra", dove ho passato più di metà delle estati della mia vita.

Eravamo bambini allora, ed avevamo tutta una vita davanti. Eravamo felici.

Ieri notte ho sognato casa nostra al mare. Ma adesso.... mi aspetta una pizza! Scappo.

lunedì 13 luglio 2009

Fatto apposta per Sveva

Vorrei accogliere le tue mani tra le mie, occhi persi negli occhi, per presentarti orgoglioso al mondo.

Vorrei donarti unicamente la mia anima, e ricevere solo la tua, sfrontata, cocciuta e pura.

Vorrei librarmi alto nei tuoi pensieri e volare, riscaldandomi nel caldo e lento sole di un tuo sorriso, perchè so che stai pensando a me.

Vorrei non ci fosse bisogno di spiegare, ma una magica intesa, al di sopra di ogni inutile e complicata parola. Sempre.

Vorrei avere le chiavi del cassetto in cui custodisci sogni e sorrisi per liberarne a milioni, come variopinte farfalle d'estate .

Vorrei esserti vento e canto di rugiada. Essere il primo a respirare il tuo risveglio e l'unico, a vegliare il tuo sonno.

E vorrei non esistessero ostacoli, rami di rovi spinosi, a trattenerci, strappandoci brandelli di vita, ed impedire che questo accada...


Interpretato da Paco, per [Amedeo J. Rogis]

Curva e controcurva....


Se Dio esiste...... decisamente non può non essere un motociclista..

mercoledì 8 luglio 2009

Appeso con due dita alla vita - Le donne di Paco

Paco si innamorava sempre per colpa degli occhi. Erano gli occhi che lo intrigavano, che lo coinvolgevano, che trasmettevano una sensazione su una frequenza che gli pareva di essere il solo a sentire. Il resto era secondario. Non si metteva alla ricerca di un bel mammifero per del sano sesso senza remore, ma era in cerca sempre e comunque di coinvolgimenti emotivi assoluti, ma senza il coraggio di andarli a cercare veramente. Per questo le donne di Paco erano sempre state tutte abbastanza simili: non particolarmente alte, graziose si ma certamente mai quei gran pezzi di gnocca con i taccazzi, l'abito striminzito con le tette strizzate e la minigonna giropassera che ogni tanto gli capitava di incrociare nei centri commerciali, aggrappate anzi esibite dal tamarro di turno, che trasudavano sensualità pesante e che suscitavano in lui invidia e fantasie che poi, con la ragazza di turno, non riusciva certo a realizzare.

Ce ne erano state diverse, non tantissime, ma quasi nessuna che fosse esistita veramente, per la sua anima. "One" sì che era esistita, e che gli aveva lasciato graffi profondi che, a ripensarci adesso, bruciavano ancora. L'aveva ribattezzata così perchè One era stata la colonna sonora della loro tormentata storia e lei era ruvida e selvaggia come la voce di Bono. Era arrivata improvvisa come un temporale d'estate, l'aveva investito in pieno ed aveva spazzato via tutto, fuori e dentro di lui, andandosene e lasciandogli il posto vuoto nel letto, quelle nuvole nere che ancora gli correvano dietro e una una lettera di scuse dentro al pacchetto di Lucky Strike, mezzo pieno, sul comodino. Lui il pacchetto se l'era portato in tasca per mesi, senza più riuscire a fumarne neanche una, leggendo e rileggendo quel foglio fino a consumarne con le dita l'inchiostro. Beh, almeno la cosa positiva era che aveva smesso di fumare. E di fidarsi.

Le donne di Paco non duravano tanto, prima o poi inesorabilmente si stufavano tutte e lo mandavano quasi sempre al diavolo; si stancavano in fretta dei suoi silenzi, degli sbalzi d'umore e della sua necessità fisica di stare da solo. E a lui andava bene così, un fastidio in meno, regole in meno, qualcuno in mano a cui rendere conto. Anche a lui era capitato qualche volta di mollare, ma di solito preferiva stancare che essere stancato. Però ricordava ancora quella volta che era letteralmente sparito al primo appuntamento con una che aveva inseguito per mesi e che dopo avergliela fatta sudare per bene alla fine si era presentata con i collant a gambaletto. L'intravedere, sotto una gonna scozzese, quell'abominio quando si erano seduti al bar gli aveva levato ogni velleità ed era fuggito con la più classica delle frasi "Esco a comprare un pacchetto di sigarette". Ed erano già più di sei mesi che aveva smesso.

Delle supergnocche da Grande Fratello ne aveva anche incrociate, languidamente distese alla base della falesia che lui frequentava, supergriffate intente a fare da supporter al superpalestrato di turno, bello abbronzato e con il rolex al polso anche in parete, da vero picio. Il suo abbigliamento invece non poteva essere più trasandato. Le maglie erano le stesse che usava in falegnamenria, a volte ancora piene di schegge di legno; i pantaloncini, l'unico capo di marca che si era mai permesso, li aveva da almeno 5 anni ed erano ormai consumati e bucati tra le gambe e nei punti dove la roccia non era stata tanto gentile con lui. Le scarpe sì, quelle le cambiava spesso, ma solo perchè quando non sentiva più il giusto feeling non riusciva a salire concentrato. Non possedeva un fisico con muscoli scolpiti, ma era magro e nervoso e riusciva a dosare le forze e rimanere in equilibrio su appigli microscopici, o appeso aggrappato nel vuoto con due dita della mano destra, rilassando tutto il resto. Arrampicava abbastanza agevolmente su buoni livelli e la sua punta l'aveva toccata su "Il soffio del serpente", una via valutata 7C e " I Ragazzi della Tao ", un 7A+, nel settore gare. In pubblico comunque arrampicava lento, misurato e non si inventava passaggi acrobatici solo per il gusto di farsi vedere. Quelli se li riservava quasi esclusivamente per lui solo, con l'unica eccezione di uno dei suoi pochi compagni di cordata che gli faceva sicurezza, quando danzava su appigli inesistenti, qundo la gravità sembrava non comprenderlo nel suo gioco a tirare tutto verso il basso; in quei monti si misurava solo con se stesso, cercando di capire e subito dopo sbriciolare quali fossero i suoi limiti, quasi tutti mentali. Ed in quei pochi inenarrabili momenti, ne era quasi sicuro, sentiva la parete viva, cuore pulsante che batteva lento, come un maglio enorme nelle viscere della terra.

Una volta sola aveva ceduto alla vanità e si era prodotto in un paio di prese che gli avevano fatto tributare un piccolo applauso da parte dello sparuto gruppo di turisti intenti a spiarlo, armati di binocoli, segretamente speranzosi di veder qualche caduta. Quelle evoluzioni, quel comportamento da gallo nel pollaio erano venuti fuori per due motivi: il primo era quel deficente borioso che aveva arrampicato di fianco a lui e la seconda era stata Patti.

Era una domenica di metà agosto di un anno fa. Il borioso era impegnato su "Albatros" e lui su "Tomahwak"; due vie lunghe di quelle già belle toste, con passaggi sul 6A-6C e punte sul 7A e che correvano parallele. Gli era risultato antipatico già a pelle da subito, quando era arrivato, grosso e con l'abbronzatura da lampada, chiassoso come tutto quel mezzo di circo ambulante che si portava dietro. Lo stronzo era sceso da un SUV che ancora un pò e parcheggiava direttamente in parete, mai che dall'alto venga giù una bella scarica quando serve.. Ne era sceso ed aveva lasciato portiera aperta e radio a tutto volume e si era fatto dare una mano a scaricare attrezzatura per 10 persone da quello che era probabilmente il suo schiavo personale, un ragazzino minuto e taciturno con due braccia da rocciatore di classe, nel cui sguardo rispettoso ed indagatore verso la via lui si era immediatamente ritrovato. Loro avevano deciso di tentare "Albatros". Il ragazzo, l'avrebbe saputo più tardi, si faceva chiamare Tony, e solo in seguito sarebbe diventato uno tra i suoi più fidati secondi di cordata, ma quello, e tutto quanto gli sarebbe capitato di lì a poco, Paco non se lo poteva immaginare neanche lontanamente.

Mentre Tony rifaceva su la corda, preparava l'imbrago suo e quello dello stronzo, metteva in bella fila rinvii, cordini e qualche nut, non aveva mai smesso, neanche per un attimo di studiare la via. Lo stronzo (si chiamava Bruno), invece era dietro il SUV ed armeggiava con qualcosa che non riusciva a tirare fuori. E nel frattempo, con una voce baritonale e sgradevole, diceva a tutti quanto era bravo, quanto era capace e su quali livelli di difficoltà era in grado di arrampicare, con una mano legata dietro la schiena. Che lui arrampicava sempre in palestra, che era molto meglio che in parete, e che nessuno degli sfigati che arrampicavano in parete avrebbero mai potuto stargli dietro. Dio, quanto gli stava sui coglioni!

Paco invece era arrivato presto, aveva lasciato il Transalp appoggiato al solito albero (il cavalletto non teneva), dall'altro lato della tortuosa strada sterrata e si era avviato, occhi alla parete, verso l'attacco delle vie, con il suo vecchio e sdrucito Invicta, che l'aveva seguito dappertutto, dal Bianco alle Tre Cime di Lavaredo, poggiato a tracolla su una spalla. Poi aveva buttato lo zaino a terra e si era seduto sulla corda, per studiare con attenzione le diverse salite indeciso tra quali scegliere, con il busto appoggiato ad un tronco di un larice che aveva passato gli ultimi trent'anni a crescere per adattarsi perfettamente alla sua schiena. E lì era rimasto, ad aspettare "il socio"di cordata di turno, Renato, e nel frattempo era rimasto immobile, fantasticando ed osservando il rapido mutare dei riflessi in parete, con le nuvole che corevano in cielo.

Renato, Renè per gli amici, "un cittadino con l'anima da montanaro", come lui lo definiva scherzosamente, era arrivato di lì a poco, su una vecchia Ford scassatissima di un colore che Renato stesso definiva "blu ruggine" e che avrebbe dovuto essere rottamata da almeno dieci anni e che invece, non si sa come, lui continuava ad usare, in barba a tutti gli Euro di questo mondo. Con Renato c'era un'intesa che andava oltre le parole ed un'amicizia che aveva superato il tempo ed ogni avversità. Simpatico e sempre pronto alla battuta, con lui aveva passato del buon tempo; sapevano capirsi con una semplice occhiata e riusciva sempre a strappargli una risata. Alle ragazze che conoscevano nei rifugli si dichiaravano gay e fidanzati, e successivamente, complici la notto di stelle e la grappa ai mirtilli chiedevano di provare ad essere "convertiti". E qualche volta ci riuscivano pure.

Era stato mentre chiacchieravano che era arrivato il circo; il fuorstrada il casino, lo stronzo in un battere di ciglia gli avevano mandato a puttane la serenità e l'aspettativa di una giornata di relax che l'aveva pervaso fino a poco prima. Lui si era immediatamente chiuso a riccio, in un silenzio immusonito e gli occhi scuri. Renato lo aveva subito capito e gli aveva detto: "Dai, lasciali perdere quelli, pensiamo alla via, che oggi ne abbiamo di lavoro da fare". Dallo zaino estrasse una bottiglia di vino rosso, con un 'etichetta strana: "Tò, valla a mettere al fresco nel ruscello ben nascosta, che ce la meriteremo, quando torneremo giù e farà il paio sicuramente con quei salamini che hai portato tu". Paco osservava l'etichetta, una lettera D maiuscola, una lettera u minuscola ed un 7 scritto a numero. Notando il suo sguardo interrogativo, Renè gli disse solo "leggi"; Paco pronunciò e sorrise: Du..set, dolcetto in piemontese. "Già", sorrise di rimando l'altro. "Dolcetto, appena imbottigliato: è un pò giovane, ma tanto tu berresti anche l'antigelo. Dai, prepariamoci". Era stato in grado di ridargli un poco di allegria anche quella volta.

Da dietro il suo SUV Bruno era ricomparso, vestito come un ballerino, con un paio di fuseau ed una canotta dai colori sgargianti che ne esaltavano il fisico muscoloso. Attaccato all'imbrago, con un moschettone minuscolo, aveva agganciato il cellulare. Paco era rimasto incredulo, a bocca aperta, che si era allargata in una risata quando Renato aveva esclamato "quello serve se qualcuno ti telefona per dirti quant'ses piciu, utilissimo in parete", a voce abbastanza alta da far ridere anche altri climber che avevano assistito a quella mascherata. Tony li aveva guardati con un sorriso di simpatia, si vedeva che li invidiava un poco. Il "picio" pareva invece non aver sentito. Aveva tirato finalmente tirato fuori dalla macchina l'oggetto misterioso: una sedia a sdraio di design, bellissima e sicuramente carissima, di un legno chiaro che dava la sensazione di essere liscio come seta. L'aveva posata delicatamente all'ombra del grosso fuoristrada ed aveva aperto la portiera lato passeggero, in attesa. Lei era scesa, flessuosa ed agile.

Ed il tempo si era fermato.

Era scivolata pigra giù dal sedile in pelle, che le aveva trattenuto il vestito in lino bianco, già corto, rivelando gambe lunghissime e abbronzate. Non era di lì, quella era una di un altro pianeta, una sicuramente con un sacco di grana. Paco non l'aveva mai vista, se lo sarebbe ricordato anche dopo una lobotomia: non c'entrava niente con il mondo delle arrampicate, sembrava uscita pari pari da una di quelle riviste di moda che vedeva dalle due parrucchiere dove ogni sei-sette mesi, andava a farsi regolare i capelli. Lui era rimasto fermo in piedi, con metà della corda in mano, impossibilitato a girare lo sguardo da un'altra parte, fissando quel volto perfetto, i capelli biondi tirati all'indietro e gli occhi nascosti dietro enormi occhiali neri. Lei era scesa dalla macchina con movenze misurate e sinuose, cosciente del fascino che sapeva di avere e che non dosava, spremendolo tutto fino all'ultima goccia. Con due dita aveva abbassato gli occhiali sul naso, quel poco che bastava per mostrare due occhi nocciola che lo guardavano, leggermente canzonatori. Quello sguardo lo aveva attraversato dentro, disarmandolo, mettendo a nudo tutte le sue paure ed i pensieri più nascosti e si era fermato dritto dritto poco sotto la cintura dei suoi pantaloni. Le sue labbra si erano aperte appena in un sorriso a matà tra il malizioso ed il divertito, e lui si era subito sentito un idiota.

"E' la seconda volta in meno di cinque minuti che ti vedo a bocca spalancata! Se ti è appena venuta una paresi muovi leggermente un piede. Altrimenti chiudila, prima che ti ci entri detto una mosca", aveva mormorato Renato, che gli era arrivato vicino. Poi si era girato verso la ragazza: "Bella manza.. Adesso vado ad informarmi dal picio su quanto costa e per il tuo compleanno te ne regalo un paio, non sei contento?", aveva aggiunto. Anche lui non aveva potuto fare a meno di notarla mentre usciva l'auto, ma Renè era diverso. Gli erano sempre piaciute le donne ma ormai era accasato e felice, con una moglie graziosa e decisamente più giovane di lui e due marmocchi impestati che adorava e che lo adoravano, anche se riusciva a ritagliarsi sempre del tempo per sè. "Dai, muoviamoci, che tra un pò ci sarà più gente in parete che pulci in testa a un cane", Aveva aggiunto Renato. Era decisamente ora di andare. "Faccoamo "Tomahwak", aveva detto distrattamente e sottovove Paco, mentre si legava per andare su da primo. Renato lo aveva guardato dubbioso: primo, il giorno prima avevano pensato di fare di monotiri e secondo Paco era sempre stato un "diesel", ci metteva più tempo a scaldarsi e di solito lasciava all'amico l'apertura delle prime vie. Si girò verso il SUV e comprese subito. "Guarda che non devi mica fare il fantastico per forza. E poi quella neanche ti si fila. Ma l'hai vista bene? Già, che scemo, certo che l'hai visto bene, non hai fatto altro che radiografarla da quando è arrivata. Ma hai visto come si è conciata? Sembra pronta per il Derby di trotto! Adesso vado a dirle che l'ippodromo l'hanno spostato a Vinovo".

Così facendo si voltò e si diresse verso la ragazza, lasciandolo di stucco. "Oddio, chissà cosa mi combina" pensava Paco, in un misto tra l'apprensione ed il divertito. Già, il suo amico era capace di tutto. Renato era continuamente una sorpresa, un vulcano di idee quando era ora di divertirsi. Ricordava mille zingarate combinate insieme, come quella volta che, di ritorno da un allenamento di corsa, sudati e in pantaloncini e maglietta erano capitati davanti alla casa di una ragazza che stava per sposarsi; loro erano entrati, spacciandosi per amici dello sposo e suoi complici di uno scherzo; avevano mangiato e bevuto, si erano fatti ritrarre dal fotografo baciando la sposa e poi erano spariti, immaginando la sorpresa di chi, successivamente avrebbe visto l'album di nozze. Lui era fatto così, ed in quel momento la cosa non lo faceva stare affatto tranquillo"

Dopo un breve conciliabolo che aveva sicuramente dato fastidio all'energumeno, che adesso non li stava guardando bene, Renato stava tornando da lui, facendo finta di sistemare il sacchettino della magnesite e nascondendo un ghigno che riusciva a stento a trattenere. Alle sue spalle la ragazza lo guardava attenta, ed quel sorriso speciale era diretto a lui. "Allora cosa le hai detto? E cosa ti ha risposto? Ma perchè ci sei andato? E hai visto come ci guarda male quell'altro?" buttò fuori in un fiato Paco. "Calma, calma" lo rassicurò Renato. "Gli ho detto solo che visto che eri rimasto folgorato da lei, se arrampicando cadevi ed io non ti facevo scurezza bene aresti voluto sapere il suo nome, prima di morire. A proposito, si chiama Patti e mi ha detto che sarebbe decisamente un peccato; a propostito, stai diventando rosso come un peperone di Carmagnola; a proposito," concluse strizzandogli un occhio ridendo, dirigendosi verso l'attacco; "hai visto che porta il perizoma? Dai che ti faccio sicurezza così ti puoi fare bello. Cerca di non inciamparti mentre cammini"


W.I.P......................... See you tomorrow!