lunedì 18 novembre 2013

La luna ha vent'anni

A guardarci bene, quei noi di adesso, probabilmente non sembrerebbe possibile che siamo stati gli stessi noi di quel giorno là. 
Nel curriculum professionale dello studio la data di fondazione recita 10 novembre 1993.
Me lo ricordo bene, noi leggermente in imbarazzo di fronte al notaio, con l'attesa di grandi cose a venire e la sensazione di esser vagamente fuori posto, lì in quella stanza sontuosa di quell'incredibile ufficio del centro, con le impiegate silenziosissime ed efficientissime, pronti a firmare un impegno per il nostro futuro. Nonostante tutte le mie insistenze Marco si era rifiutato categoricamente di mettersi la cravatta, l'ultima volta era stato al funerale di suo padre - solo per le cose serie - aveva troncato sul nascere ogni mia rimostranza. Allora eravamo in cinque. Molto più giovani, così spudoratamente giovani, quando la gioventù è bellezza, carichi di sogni e promesse ed entusiasmo alla vita, sorrisi subito pronti a sbocciare per un nulla e pazzia a secchi. Sbarazzini ed inesperti, molto più sorridenti al mondo, sicuramente incoscienti, questo sì, va detto, incredibilmente incoscienti, spaventosamente, vergognosamente. Ci bastava un niente, principalmente quello che importava era stare insieme e provarci, anche se non era ancora così chiaro a far cosa, e forse completamente non lo è ancora neppure adesso. Dovessi associare una parola a quel periodo mi viene in mente "leggerezza". Poche ancora le ferite, di quelle che bruciano secco, che nel corso del tempo ognuno avrebbe imparato a portare le proprie e che poi inevitabilmente, taglio dopo taglio ci avrebbero cambiato, rendendo dura e rugosa la scorza. 
Era più facile scegliere, vivere, lavorare, inventarsi, scherzare comunque, e soprattutto non prendersi mai sul serio. Era che quando chiamavano "ingegnere", avevi sempre l'aria del "chi, io?" Era tutto più nuovo, i cantieri, la gente che a volte ti stava ad ascoltare e molto più spesso no, l'inconsapevolezza di inventarsi il padrone del proprio destino, una scoperta in ogni cosa, l'essere quelli che reggono il timone senza mai aver osato affrontare il mare e senza neppure immaginare quanto sarà vasto e quante rotte riuscirai a navigare. 
Due di noi, quelli che insieme a me ci avevano messo l'anima per partire, che forse sono stati i miei amici più vicini di allora hanno smesso di crederci dopo poco. Ricordo la mia rabbia proprio con Marco, che mi aveva spiegato che quella non era "la sua società", ma semplicemente "una società" e che non valeva la pena affannarsi così tanto. 
Fulvio invece l'ho rincontrato quest'estate. E tutto questo tempo che ci ha visti lontani ha perso in un nulla forma e sostanza, lasciando solo un minimo spazio al pensiero inconcludente di come sarebbe andata se. A lui che oggi è chiamato ad affrontare prove così terribili che non so dove troverà il coraggio va il mio pensiero, forse sarebbe meno complicato se silenziosamente ci allontanassimo nuovamente, ma troppo del nostro tempo è già stato stupidamente sprecato, non sono disposto a buttarne via ancora.
  
Vent'anni di parole, quante parole sono rimbalzate fuori da quelle pareti, con differenti toni di voce, me ne ricordo molte. Vent'anni di persone, mi ricordo i volti, quanti ne sono passati, nessuno invano. In uno dei miei sogni ad occhi aperti ho organizzato fin nei minimi dettagli una cena con i miei soci e consorti al seguito, che in realtà nascondeva una rentrée con tutti, ma proprio tutti, una di quelle cose che entri in un locale silenzioso ed un po' fuori mano con due candele fioche a conferire un'aspetto desolante alla stanza e "Sorpresaaa!!!" si accendono le luci ed eccoli lì, uguali e cambiati anche loro, e poi risate ed abbracci e parole fino a tarda notte e brindisi, con gli occhi da bracco del mio socio lustri per la commozione, mentre sa che in fondo l'ho fatto per lui, perché sì è vero che faccio una gran fatica a sopportarlo, ma neanche lui, con me, cammina su un tappeto di petali di rosa. E' rimasto solo un sogno, altre priorità non l'hanno reso possibile e rimarrà intatto nei miei sogni per riproporsi tra altri cinque anni.

Vent'anni di lune, me ne ricordo a pacchi di lune, quelle dei lavori fino a tarda notte, quelle d'estate, rosse e piene  in un cielo immobile e noi sui gradini della villetta a ridere sommessamente e quelle delle albe, pallide come i nostri volti tirati, delicate e composte mentre ci osservavano malinconiche, al di là dei vetri che si affacciano su un francobollo di giardino. Mi ricordo lune sottili come una ciglia, composte e rapite, ad ascoltare parole che brillavano come rugiada. Mi ricordo  una luna accesa come un faro ed io e la mia Ciccia per la prima volta disperati e lontani, che la toccavamo con un dito per sentirci di nuovo insieme.
E guardaci adesso. A vent'anni di distanza. Vent'anni. 
Se escludiamo i tappi delle bottiglie, che allora mettevamo in fila bella ordinata sul davanzale delle finestre in alto, non è cambiato poi tanto. Sì, siamo cambiati noi, per forza, il grigio nei capelli, le rughe, l'atteggiamento man mano meno famelico, combattivo. 
Ma io no. Io che ogni botta che ti fa cadere mi fermo stordito, magari tentenno controllando i danni ma che poi mi rialzo perché non ha senso voltarsi indietro e dargliela vinta e che ostinatamente, ancora una volta, mi levo la polvere di dosso e  ricomincio a correreIo che se ci penso, che non mi sembra di aver neppure cominciato, che di cose da imparare so che ce ne sono ancora troppe, che se metto in fila i lavori da inventare, le idee più bizzarre e le rivoluzioni non la finisco più, che nonostante tutti i macigni sul cammino che sono stati questi ultimi anni ci credo, senza mezzi termini o retropensieri, mi affido alla passione ed alla volontà, credo nelle persone pulite e nell'onestà, credo in quello che siamo, in quanto è rimasto immutato e limpido ed allora non mi vien altro da dire che grazie studio delle rose, grazie mille a chi è stato parte di tutto questo ed a chi lo è adesso, grazie luna per questi magnifici vent'anni così brevi che mi sono stati regalati, solo per ciò che è troppo bello il tempo scorre così velocemente. 
Auguri luna, per questi vent'anni e auguri, studio delle rose, per ogni singolo, incredibile minuto passato qui e per quanti altri ne potranno venire. So per certo che finirà prima o poi, dovrà cambiare il vento che fa infuriare il mare di tempesta di questi ultimi tempi e le correnti impazzite. Passerà e ritornerà il sorriso, finalmente con un buon vento di bolina ad accompagnarci verso un orizzonte sereno. 

E non la smetterò molto facilmente, di guardare la luna. 


martedì 12 novembre 2013

Torino negli occhi.

Questo mio strambo mestiere ogni tanto mi riserva regali inaspettati, come nei giorni in cui mi porta ad annusare il mare, quel mio mare che il primo respiro lento e gonfio di attesa fino a farmi dolere i polmoni non è mai abbastanza, o quando mi porta a conoscere città nuove, scorci, marciapiedi, volti riflessi sulle vetrine e percorsi da assimilare. 
A volte invece, come oggi,  mi regala Torino.
La osservavo ieri sera al rientro autostradale serale, la sua singolare bellezza esaltata da un vento tagliente che aveva nascosto le nuvole lontano, con l'anfiteatro di montagne luccicanti della prima neve, la collina spazzata dalle folate rabbiose, un blu del tramonto così limpido e pulito e le mille luci fitte e tremolanti che sembravano brace scintillante. 
Torino ha pezzi di Parigi e d'Africa, ha le maestosità reali e sontuose dei Savoia ed angoli degradati. Luce e buio a portata d'occhi.
Ma prevalgono parti di questa città che mi fermano ancora il cuore, un sorriso sospeso che si appaga rapito lasciando scorrere lo sguardo. Angoli, incroci, mura antiche lì da millenni, un monumento assediato dai piccioni ai cui piedi sedersi, la calma placida del fiume ed il finto medioevo a specchiarcisi dentro. Spazi in qualche misura miei, che riconoscono i miei passi, stendendo con cura le pieghe che a volte ho dentro. 
Ho imparato a conoscerla da ragazzo percorrendola con i piedi e con gli occhi, fino a perdermi e meravigliarmi, più e più volte. E meravigliarmi e perdermi con i piedi e con gli occhi  quando posso, quando riesco a ritagliarmi una parentesi tra le telefonate e le grane e le mille cose da fare, è un lusso a cui difficilmente riesco a rinunciare.
Ci sono i lunghi viali allineati che si intrecciano a perpendicolo. Ci sono le piazze aristocratiche, severe ed ordinate di colonne, e quelle più piccole, raccolte, composte e silenziose che se ci capiti una sera d'inverno ti sembra di aver attraversato indenne un paio di secoli. C'è una piazza che, dopo, la mia vita non è più stata uguale. Ci sono i bar storici, eleganti di cristalli e salotti,  e ce n'è uno piccolo e quasi sempre gremito, con la boiserie in legno e gli specchi lavorati, i tavolini con il ripiano in marmo ed i centrini fatti all'uncinetto che se intingi il cucchiaino nel "bicerin" e lo mescoli ti guardano male. Ci sono cortili dei palazzi storici, che ognuno è storia, i mille ex voto della Consolata che da piccolo ne leggevo rapito le vicende, l'insuperabile eleganza di San Lorenzo, c'è il retro della collina di Superga con i nomi della squadra del Grande Torino. C'è una galleria che proprio non riesco ad attraversare guardando in su. C'è la Fetta di polenta fatta per ripicca, le luci sul monte dei Cappuccini e le bancarelle di libri da annusare, lungo via Garibaldi. C'è l'interno di Palazzo Carignano e le sue stelle, c'è la panchina di quella piazza che il mondo era una cornice immobile, ci sono i mille posti dove ho portato la mia moto, c'è quando ero disperato senza radici e quando invece mi sentivo al centro dell'Universo, c'è la statua della Dora che è stato il mio personalissimo escamotage per poter inserire la foto di una donna nuda all'interno della mia tesi di laurea, c'è il parco dove vado a correre, c'è il mio negozio di stilografiche, il posto del mio primo cantiere importante e quell'altro, molto più prezioso per me, che era stato un cantiere di mio padre trent'anni fa, prima di diventare mio. 
Ed i miei passi ed i miei occhi, anche oggi non hanno sbagliato.