E' la distanza casastudio/studiocasa che percorro ogni mattina ed ogni sera, in un senso e nell'altro, e racchiudono quello spazio fatto di pensieri, riflessioni ed aria da respirare che, svolgendosi come un nastro tra l'asfalto e le ruote del Transalp, mi fanno da canovaccio in quello che butterò giù appena avrò un minuto libero. Tanto so che anche se non ce l'avrò, me lo troverò comunque.
Il mattino inizia con il rumore dell'apertura del basculante del garage. Vado via presto, per cui lascio la mia casa spesso ancora buia, col tepore ed il respiro profondo delle mie donne ancora magicamente sospese nei loro sogni, forse diversi, forse intrecciati. E forse ci sono anch'io. Una rapida carezza alla gatta che mi segue sulla porta di casa (non è affetto, è che spera le dia doppia razione di croccantini). Chiudo piano la porta per non fare rumore.
La prima occhiata è per quello sprazzo di cielo biancoazzurro tra le case e per le nuvole che intravedo e che cerco invariabilmente di considerare poco importanti, le previsioni danno sereno, anche se ogni tanto una slavandata me la prendo lo stesso.
Guardo fuori, guardo alternativamente la macchina e la moto, ma ho già scelto. Non è di troppo tempo fa quando mi rifugiavo nella comodità dell'auto, quando mettermi il casco voleva dire forzarmi e partire con la tensione addosso, dalla punta dei piedi a quella delle dita, che mi faceva appannare la visiera in continuazione. Adesso, grazie a Dio, la vedo diversa. Come direbbe Paco, "questo è il tempo delle rapine in banca. Ho smesso di stare buono ed in coda, di seguire regole imposte".
Da qualche mese ho deciso di crearmele, le regole. Ho scoperto l'importanza di fermarmi ad ascoltare la musica di un momento, di spogliarmi da inutili mascheramenti e camuffamenti, di essere io, solo io e le mie emozioni. Il tempo è mio e spetta a me e solo a me, decidere come viverlo, quando sbagliare, con l'onestà di non mentirsi comunque mai; cadere e rialzarsi. L'ho già fatto, lo posso fare ancora e ancora e ancora un'altra volta. E se gli altri non comprendono, giudichino pure, sulla base solo di ciò che pensano di sapere. Non m'importa: sono tutti cazzi loro.
La mia moto è targata VR, e, per me, la cosa ha del romantico, e mi permea quando ci salgo sopra, un pò come la polvere magica che Peter Pan scuoteva da Trilli. E' passato il tempo in cui non stavamo bene insieme. Ma molto probabilmente ero io a non stare bene con lei. Non stavo neanche bene con me stesso. Chissà quanti e quali posti ha visto, quante strade ha percorso in mia assenza. Sul telaio di acciaio satinato è rimasta una discreta botta, a testimonianza di un'altra caduta, oltre la mia. Chissà dove e com'è stato.
Inizio a vestirmi: occhiali, casco, giubbotto con tutte le tasche chiuse per non perdere telefono, chiavi di casa e di studio, ecc. ecc. In ultimo, infilo i guanti, quelli di allora, ancora con gli strappi aperti dove sono ancora andato a schiaffeggiare la strada, prendendone molte di più. D'inverno i buchi, con il guanto interno indossato, si notano di meno. Non ho mai voluto cambiarli, ed ogni mattina li guardo e ricordo. Poi tiro su la visiera, inspiro l'aria da dentro il casco; leva dell'aria, giro la chiavetta e ingrano la prima. La moto con il suo solido borbottio, fa quel leggero sussulto in avanti e parto.
La mia strada comincia con quattro rapide curve in discesa, destra sinistra destra sinistra, che percorro tranquillo mentre le gomme sono ancora fredde. Il sole è di fronte, basso all'orizzonte, tra la bruma lattiginosa ed appena tinta d'oro che delinea vicini filari di alberi e tralicci dell'alta tensione, con i cavi che li uniscono che tagliano il cielo in semplici mosaici. Sui campi tagliati di fresco i rotoli di paglia riposano, sbilenchi.
Qualcuno solitario, corre, suscitando una leggera invidia (ma ho comprato le Saucony nuove ed ho deciso che sono guarito. Oggi forse riprovo). Esco in fretta dal paese dove vivo, anzi dove dormo quasi esclusivamente, da dodici lunghi anni. Non mi appartiene, non lo sento mio, tant'è che se mi fermate per strada per un'indicazione (a meno che mi chiediate informazioni sulla via principale o su quella dove abitiamo), invariabilmente rispondo: "Mi spiace, non sono di qui", anche se mi viene spesso da pensare "ma che cacchio ci andate a fare, con tutti i posti belli neanche troppo lontano".
Mi infilo sulla statale e via. La strada scorre diritta e veloce tra i campi di fitto granturco che ondeggia come un mare verde, l'aria fresca, a volte anche di più, ed il motore caldo. Sorpasso la pigra fila di camion ed auto che lentamente si porta verso la tangenziale. Incrocio qualche motociclista e, anche se alle sette del mattino siamo tutti e due in giro per lavoro, un saluto ci scappa lo stesso. Le mia mente prende spunti da ciò che vedo e sento, gli spazi aperti con la neve delle alpi da una parte e la collina dall'altra, mi circondano e mi parlano, di storie vecchie e sconosciute, di nuvole che nel loro rapido mutare e rinforzarsi prendono nuove forme, dando spazio a vecchi ricordi e nuovi pensieri, distraendomi ma non troppo. La strada richiede sempre e comunque attenzione, e l'ho imparato a mie spese.
Supero la coda dell'ingresso in tangenziale, io proseguo diritto. Le macchine incolonnate dirette in città sono definitivamente una fila unica, lento milleruote che ogni tanto si spezzetta per colpa di un semaforo rosso. Procedo a zigzag: esco, sorpasso e rientro, più e più volte, fino ad arrivare alle porte della città.
Qui il traffico è già convulso, anche se è mattina presto e siamo a due passi dalle vacanze. C'è poco tempo per distrarsi, l'attenzione è quasi d'obbligo. Ogni tanto il profumo di pane caldo, di brioche e di caffè mi entra nel casco. Dopo poco, la sorpresa della "mia" strada, quella che mi permette di attraversare la città senza neanche un semaforo. Me la trovo subito dopo aver percorso il cavalcavia che passa sopra i disordinati ed intrecciati fasci di binari e tralicci che, dritto laggiù in fondo, portano alla stazione centrale. E' praticamente quasi senza curve tranne alla fine e c'è sempre pochissimo traffico, soprattutto adesso che siamo a un passo dalle vacanze. A sinistra la divertente confusione cromatica delle case degli atleti per le Olimpiadi invernali, adesso riconvertite in abitazioni: ce ne sono di gialle, di rosse e di blu, sono dei cubotti di quattro cinque piani, tutte diverse. A destra la ferrovia, con il luccichio di cento binari che corre sempre insieme a me, e il ponte pedonale che sovrasta, collegando le case al Lingotto.
L'enorme arco colorato, inclinato, sospende il ponte ed è sospeso a sua volta da decine e decine di stralli, alcuni lunghi centinaia di metri.
Alto sessantanove metri, sembra un mezzo cerchione della bicicletta di un gigante.
Quando ritorno la sera, illuminato dai proiettori che lo strappano fuori dal cielo scuro, con i vetri del Lingotto sullo sfondo che riflettono il tramonto, è veramente bello da vedere.
Proseguo nella lunga curva appoggiata sulla destra. La mia strada sta per finire. Alla mia sinistra un parco verde dove, leggermente sparsi, gruppi di panchine pigre sembrano un gregge di pecore intente a brucare l'erba. La sera poi sono messe in posizioni diverse, ma sempre a gruppetti. Mi sa che brucano sul serio.
La curva si inverte rapidamente a sinistra. E' la mia ultima staccata, poi una piega tagliente e decisa, rapida accellerata e sono di nuovo imbrigliato nel lento traffico mattutino, da cui ne esco con lente gimcane ai semafori. Da qui al mio studio le strade possibili sono diverse, e la distanza è comunque sempre quasi la stessa. Scelgo come viene, a seconda del traffico, della casualità dei semafori o dei ricordi che, dal mare profondo del mio passato ogni tanto riemergono e galleggiano su e giù come bottiglie, qualcuna vecchia e qualcun'altra appena tappata, ognuna con il proprio messaggio ancora scritto dentro, in attesa che le stappi ancora una volta. E allora passo da una parte piuttosto che da un'altra, cercando di dar vita a quei ricordi, a quel mio tempo di ieri, ritrovando posti che mi sono appartenuti anche solo per un attimo, ricordando chi non mi aveva mai capito e chi invece mi aveva capito troppo, quando magari non ero in grado di comprendere io, strano destino. Riassaporo gli stessi profumi, ricordo vecchie emozioni, spesso scopro che alcune ferite dimenticate sanguinano ancora. Il "se fosse successo adesso sarebbe stato diverso" ogni tanto viene fuori da solo, ma lo ricaccio subito indietro. Non serve, almeno non per me, non adesso. Sono così perchè così sono stato, perchè ho fatto, e, nel bene e nel male ho vissuto.
Respiro, ricordo e vado avanti. Pochi minuti ancora e mi trovo davanti al portone verde che nasconde alla via lo studio, col giardino e le mie rose. Apro ed entro, a quest'ora so che, con qualche eccezione, sarò da solo per quasi un'oretta da dedicarmi. Il portone ha due pomelli d'ottone, uguali nella forma. Uno, quello che tocchiamo sempre per aprire, è lucido mentre l'altro è verde scuro, opaco e ossidato dal tempo che si deposita senza che nessuno lo acarezzi. Ricordo che lui era già così, la prima volta che io sono entrato qui, scintillante di idee e di speranze, ben quindici anni fa. Allora lucidare anche l'altro pomello era stata la prima cosa che avevo fatto.
Chissà come sarà invece l'ultima volta che entrerò qui, se l'avvertirò in un brivido strano, mentre sarò magari anch'io opaco ed ossidato dalla vita.
Ad ogni buon conto adesso esco e vado a lucidarlo di nuovo. Almeno per i prossimi quindici anni sarò a posto.
,,,Guardo fuori, guardo alternativamente la macchina e la moto, ma ho già scelto. Non è di troppo tempo fa quando mi rifugiavo nella comodità dell'auto, quando mettermi il casco voleva dire forzarmi e partire con la tensione addosso, dalla punta dei piedi a quella delle dita, che mi faceva appannare la visiera in continuazione. Adesso, grazie a Dio, la vedo diversa. Come direbbe Paco, "questo è il tempo delle rapine in banca. Ho smesso di stare buono ed in coda, di seguire regole imposte".
RispondiEliminaOttimo :D ... d'altronde la normalità resta (per me!) pur sempre una percentuale!!!
E non dimentikarti il pranzo prox settimana ...