martedì 8 settembre 2009

L'angelo dei runners

Ancora una volta per favore.


Proprio non riesco a comprendere fino in fondo, tra il monocorde brusio preoccupato del crocicchio di gente che si è rapidamente formato, mentre l'uomo con la tuta arancione, inginocchiato davanti a quel povero cristo disteso per terra, continua ad insistere fissandomi severo negli occhi: "Guarda che tocca a te. Sveglia, datti una mossa: non ci rimane molto tempo". 
Eppure era cominciato tutto così bene, oggi. Un cielo azzurro come capita poche volte che ti caschi addosso a Torino, solitamente incupita tra il grigio dello smog che sa di ferro  sulla punta della lingua e quella nebbia fatta di minuscole ed implacabili goccioline, che dai primi di ottobre fino a metà marzo ti entrano fin dentro l'anima e che a me rendono insoddisfatto ed umorale come pochi, con la voglia di buttare tutto all'aria, tutto ma proprio tutto e.... Senza il coraggio di andare veramente fino in fondo, cosa che mi rende ancora più nervoso. E con la voglia di isolarmi dal mondo e di starmene da solo. Un orso.
Un orso nervoso. Un orso nervoso e bastardo, a volte perfidamente cattivo con se stesso e con gli altri, ma con gli occhi grandi e buffi, come dice mia figlia.
Lei però mi fa ritrovare sempre il sorriso. Con pazienza, stira le pieghe dell'anima.
Ma anche lei fa parte del gioco ed oggi è l'unico punto che mi tiene ancora qui, altrimenti...
Altrimenti niente, lo so. E rimarrei qui lo stesso, a girare la ruota del criceto, senza il coraggio di buttare tutto questo straccio di vita a gambe all'aria. Per quel poco che vale
Un criceto chiuso in gabbia che si sente un orso. E per giunta con gli occhi buffi.

Ancora una volta per favore.

Le nuvole soffici, incredibilmente bianche e rigonfie giocavano a rincorrersi, con quel sole che ci stava proprio bene, in questo cielo, che scaldava dentro il giusto, mentre il vento leggero e secco rendeva l'aria asciutta, raggruppando e sparpagliando sulla strada cicche smozzicate di sigarette insieme a foglie ingiallite strappate dagli alberi, mentre qualche sacchetto di plastica si gonfiava e volava in alto libero, come un palloncino perso da un bambino. In quel cielo azzurro che le scie lasciate dagli aerei ci si stagliavano nette, per poi gonfiarsi e disperdersi, con tutta la calma che potevano prendersi.

Che oggi sarebbe stata decisamente una bella giornata me l'aveva scritto anche l'oroscopo, messo sulla mia pagina personale di iGoogle, che di solito non guardavo mai e che invece, chissà perchè, stamattina avevo distrattamente letto. "Giornata importante. Entrerà nel vostro cuore una persona speciale, dando una scossa decisa alla vostra vita", c'era scritto. Dio, quanto bisogno avevo, di credere a quelle parole. Quanto bisogno avevo ancora di respirare, di sentire che in qualche modo ero ancora vivo.
Fesso, fesso fesso. Avessi continuato la mia vita da criceto invece.
Ero arrivato addirittura puntuale al mio appuntamento con me. L'avessi anche solo immaginato me ne sarei stato rintanato nella consunta abitudine delle cose da fare, dei miei disegni da finire, isolato nella mia coperta di Linus delle abitudini solo mie, chiuso e lontano da un mondo che non volevo più nè vedere nè sentire. E invece all'una ero già lì, pronto, con le scarpette allacciate e le cuffie nelle orecchie.
E via sul primo giro.
Attraverso veloce il parco avvertendo una strana euforia addosso. Sono chiuso nel mio bozzolo e i fili che lo intessono sono la musica che ascolto, che avvolge ed isola, mentre gli occhiali rendono impenetrabile al mondo il mio sguardo e la stessa mia anima. Non è passato troppo tempo da quando io ho deciso, e da solo, che avevo bisogno di questo per curarmi, altro che pastiglie, per combattere quello che mi stava mangiando dentro, che mi impediva di dormire e a volte di respirare. Da quando il castello di carte aveva cominciato a vacillare e poi definitivamente a crollare.

Ancora una volta per favore.

Stress, aveva sentenziato la dottoressa dopo la visita. Ma quella non aveva mai sapito neanche distinguere un raffreddore da una distorsione. E io la distorsione l'avevo avuta forte, solo che dove l'avevo avuta io lei, con le sue arie da saputa ed il suo stetoscopio non ci poteva certo arrivare. E allora ci avevo pensato da solo, a curarmi. E avevo ripreso a correre. D'altronde uno stupido criceto in gabbia cosa è capace a fare? Corre, su quella cazzo di ruotina senza vederne la fine. E basta. Poi muore.
Gli inizi erano stati a dir poco disastrosi. Tempo ne era passato, da quando la leggerezza nel passo era dovuta principalmente all'età, indipendentemente da quanto mangiavi, bevevi, fumavi o folleggiavi. Allora era facile, adesso molto più grigia. E pertanto via le sigarette, via l'alcol, via i chili di troppo. La vita dissoluta se ne era già andata via da sola troppo tempo fa, lasciando il posto a grigie regole del tipo "vai tu a buttare la spazzatura?" o "è tuo compito pulire la lettiera del gatto!", senza capire come tutto abbia finito per trasformarsi, imbruttirsi, ingrigirsi.
E allora si ricomincia, e si aggiungono nuove regole fatte di attenzione esagerata al cibo, di abitudini nuove, di bilancia e ginnastica e di sudore mischiato alla polvere ed alle lacrime di rabbia, quando, nel fiato che usciva stanco dai polmoni, si accompagnava la frase "Non ce la posso fare". Ed invece piano piano, un buco nella cinghia dopo l'altro, la strada ha cominciato a diventare meno ripida ed il fiato ha cominciato a non essere più un rantolo che brucia dentro. E la vita ha ripreso piano piano a sorridere, da quando ho cominciato a pensare "Ce la posso fare, invece", con la dura ostinazione di chi non ha più niente da perdere. O tutto, è lo stesso.
E adesso sono qui, a misurarmi ancora una volta con me stesso, con quel percorso che è stato per troppo tempo il mio incubo, fatto di gambe a pezzi e di gente che mi sorpassava troppo velocemente. La mia vita con tutti gli sbagli commessi, la mia croce, irta di chiodi aguzzi che mi ferivano sempre più profondamente l'ho portata solo sulle mie spalle. Quanto l'ho odiata ed adesso, quasi quasi non me la sento neanche più addosso. Mi ha dato forza e sostegno. Mi ha dato grinta. Ed adesso sono qui. Forse non ne sono uscito, ma ho una forza nuova e non è solo nelle gambe. Tocca a me sorpassare.
Ogni volta è sempre lo stesso. Corro e penso, penso e sogno, sogno e mi trasferisco in altre realtà, altri mondi, e altre strade che chissà dove mi avrebbero portato. Solo che adesso ho una meta, almeno per oggi. Domani si vedrà. Ho deciso che questo sarà un giorno speciale, me lo dice il tempo, il sole che mi dà forza, il vento che mi spinge delicatamente e gli alberi che mi accolgono e mi fanno ombra. Me lo ha detto l'oroscopo. Ed oggi, al di là di tutto il raziocinio di cui sono capace e che ho deciso per una volta di gettare alle ortiche, sono deciso ad ascoltarlo, a credere in un'altra opportunità, un'altra strada che si apra e che mi permetta di vivere Ancora.
Ancora una volta per favore.
Arrivo al primo dei miei 7 appuntamenti con il destino. Ho deciso che abbandonerò definitvamente la soglia dei 5 minuti al chilometro. Ho gambe forti e  fiato per farlo. Ho di nuovo quella sconosciuta sensazione di disagio nel petto e la testa, con quella sua vocina acida da grillo parlante mi dice calma, ma di lei non ho bisogno di correre. Almeno non per oggi.
4.32"! Il mio primo chilometro è un tuffo nel mare dell'entusiasmo. Entusiasmo che mi porta a spingere. Il grillo parlante mi dice calmati, ragiona, modera, ma le gambe non l'ascoltano. Hanno voglia di correre e mi limito ad assecondarle, cercando di dosare il giusto passo ed il giusto fiato. Il vento mi accarezza le gambe. La musica nelle orecchie è alta, fresca e anche lei è lì per dirmi "corri." 
E poi l'oroscopo ha parlato chiaro "Entrerà nel vostro cuore una persona speciale" e adesso sono pronto a correre il rischio, non come l'ultima volta che ho buttato tutto all'aria solo per la mia maledettissima paura. Un criceto che si crede un orso, e per giunta anche vigliacco.
Spunterà all'improvviso, lo sento. Magari sarà la ragazza carina con gli occhiali che legge assorta seduta sulla terza panchina, che ogni volta che passo fa finta di interrompersi  e mi guarda, e me ne accorgo. O magari sarà quell'altra che invece corre e lo fa ancora troppo forte per me, ma che sono sicuro ha notato i miei miglioramenti, da quando sono riuscito a tenerle testa nel mille dell'altro ieri. O magari la cameriera del chioschetto che ha preso l'abitudine di salutarmi sorridendo quando passo, da quando sono andato per comprare una bottiglia d'acqua ed avevo dimenticato i soldi e me l'ha regalata lei, chissà. Aspetto e nel frattempo spingo. Il fiato si è fatto più pesante, sento i battiti del cuore nella gola. Si avvicina il secondo riferimento.
4.09". Mi sembra di volare, di essere vento, libero finalmente di poter dire "Io sto correndo". Ma posso ancora fare di meglio. Posso tirare almeno un chilometro sotto i 4 minuti, me lo sento. Nelle gambe ne ho. Basta usare la testa. La testa che invece mi dice rallenta, senti il fiato, dosa le forze, controlla i battiti. Ma non posso usare la testa, almeno adesso. Vado per il terzo.
Ancora una volta per favore.

Poi il dolore.
Incomincia come un piccolo serpente che mi si muove dentro, si avvolge sinuoso in perfide spire ed è pronto a colpire, lo sento che è pronto. E senza preavviso, maligno, scatta e  mi morde.
Un morso di vipera, una puntura nel mezzo del petto, dentro, che brucia come il taglio di una lama rovente. Non capisco, il grillo urla rallenta, controllati, fermati, ma non riesco ad capacitarmi e non mi fermo. Non rallento, non posso ancora, non adesso. Devo finire almeno un chilometro sotto i 4', poi potrò riportarmi su ritmi più blandi.
Ancora una volta per favore.
Il veleno arriva all'improvviso, come una lingua di benzina che prende rapidamente fuoco. Parte dai buchi lasciati dai denti della vipera e si allarga in un battito d'ali del cuore. Mi prende tutto, si propaga dal centro fino alla punta delle dita. E' pesante come un maglio che si abbatte su di me, in mezzo al petto, un urto che, improvviso, mi leva il fiato. E mi butta per terra. Cado al rallentatore, come nei film di Rocky, all'indietro, facendo volare spaventati quei tre colombi mezzo spiumati che non volano mai, neanche se li pesti.
E poi il silenzio. Buio e freddo.
Riapro gli occhi; il male non c'è. Non so cosa sia stato quello che mi ha colpito, ma come è arrivato è passato. Strano. Non ho più niente. Sto bene. Sto incredibilmente bene, ho una totale assenza dal dolore, spariti anche tutti i fastidi che da un pò di tempo sono diventati parte di me, nulla di nulla. Neanche ho capito cosa è capitato, ma è durato un fiato. Sto correndo di nuovo e stavolta  vado veloce, ma sul serio e non ho neanche il fiatone. Mi pervade una strana euforia, mi sento forte, pronto, inarrestabile. Ho l'assoluta padronanza di me, sento piena la capacità di fare cosa e come voglio. Non sento più il vento sulle gambe, si deve essere fermato. Corro leggero ed i miei passi non fanno neanche rumore. Vedo là sulla terza panchina, assorta, la ragazza che legge. Mi sorprendo a chiedermi cosa stia leggendo. Neanche il tempo di pensare e sono dietro di lei, appoggiato allo schienale. La guardo da vicino e la trovo incredibilmente carina, mentre legge tutta concentrata con l'indice della mano destra accompagna le righe, proprio come fanno i bambini. Sta leggendo "l'arte di correre sotto la pioggia" di Garth Stein, che, combinazione, ho appena finito di leggere. E' talmente assorta nella lettura che non si è neanche accorta che sono dietro di lei, e che le sorrido. O forse mi ignora deliberatamente. Ad un certo punto alza lo sguardo e guarda prima l'orologio e poi il viale alberato da cui sono appena arrivato. Mi vien da pensare che con tutta probabilità starà aspettando qualcuno, che ho preso l'ennesimo abbaglio e che quindi non è lei, la persona dell'oroscopo. Comunque provo un approccio: "Ciao!", le dico cordiale.
Poi lo stupore e la sorpresa. Ed mi si diffonde un vago senso di freddo dietro la schiena.
Lei ha riabbassato lo sguardo e si è rimessa a leggere, come niente fosse, come se non fossi di fianco a lei. Non mi ha proprio sentito. Cioè, io sono sicuro di averla salutata, ma non ho emesso alcun suono. Come se mi avessero tolto l'audio. In lontananza, acuto, il suono di una sirena si fa largo tra code di lente macchine pigre incolonnate e si avvicina sinistra. Entra all'interno del parco e lì si ferma, con le luci bluastre intermittenti che ticchettano. Decido di andare a vedere. La ragazza ripone il libro nello zainetto che porta a tracolla e si alza anche lei.
L'ambulanza ha i portelloni posteriori aperti ed è ferma di traverso sulla strada, a motore spento. Sotto gli alberi, circondato da qualche passante, c'è un uomo a terra, con qualcuno che gli tiene i piedi in alto. E' sicuramente un runner, uno che magari ho incrociato due minuti fa, lo vedo chiaramente dalle Saucony da corsa che calza. Un paio di Saucony nuove, uguali alle mie. La sensazione di disagio aumenta, provo a chiedere cosa sia successo, ma di nuovo non esce un fiato. Nessuno mi nota. Il disagio si sta velocemente trasformando in panico. C''è qualcosa in quella scena che mi attira in modo irresistibile, come se fossi in discesa su una lastra scivolosa. Mi avvicino a guardare meglio.
Un paramedico con lo zaino e la tuta arancione, di fianco al corridore disteso, sta prestando le prime cure. Ha i capelli bianchi, i baffi, anch'essi bianchi, ed un paio di limpidi occhi cerulei. Avrà almeno una cinquantina d'anni e l'aria decisa, di chi sa fare il proprio mestiere. Lo stemma sullo zaino che porta sulle spalle è diverso dal solito: sul fondo arancione entro un cerchio, risalta la croce bianca con ai fianchi un paio d'ali distese. Lui si volta e mi fissa, serio. "Allora, sei arrivato" mi dice, con una voce profonda che mi sembra di conoscere da tempo. Mi giro, pensando che si stia rivolgendo a qualcuno dietro di me, ma alle mie spalle non c'è nessuno. Mi rigiro e lo fisso. "Non capisco" gli dico; incredibilmente la voce mi ritorna, perchè lui mi sente, e sorride. Poi si rigira a curarsi dell'uomo disteso. Gli mette un laccio emostatico intorno al braccio, e continua a parlarmi. "E' normale che non capisci. Non capite mai sulle prime. Aprimi la zip dello zaino, quella laterale, per favore". Mi avvicino e obbedisco. Mi muovo leggero, passo tra le persone che mi ignorano, sembra che nessuno veda cosa sto facendo io. Fissano tutti l'uomo disteso. La cerniera scorre lentamente e apro completamente lo zaino, da sinistra a destra, in senso antiorario e poi arretro, confuso. Dentro c'è una cosa viva, una massa indistinta di lunghe e soffici piume bianche.
Un paio d'ali escono dallo zaino, si svolgono lentamente e si distendono, enormi, leggere e maestose. Non riesco a resistere alla tentazione di sfiorarle con la punta delle dita e le accarezzo, sentendole morbide e calde al tatto. Lui si alza un attimo in piedi e le agita come per sgranchirsele, e poi si stira lento, alzando tutte e due le braccia. Sorride e subito dopo si china nuovamente sul suo paziente. Le ali gli fanno ombra. Da sotto sento la sua voce, mentre si occupa dell'altro. "Ti ringrazio. tu non sai quanto ne avevo bisogno. Certo, lo zaino che abbiamo in dotazione è una bella comodità, ma ogni tanto bisogna fargli prendere aria, se no mi si rovinano tutte le piume". Rivedo il suo sorriso tra le piume ed il suo sguardo, che mi passa da parte a parte. "Comprendi?" aggiunge.
Veramente invece non capisco. Cioè ho il terrore di dare un senso logico a quello che mi sta accadendo. Ho voglia di andar via da questa scena assurda, di ritrovare solo la soddisfazione di un paio di scarpe che si muovono veloci sull'asfalto, di sentire la fatica ed il sudore. Scappo.
Corro e ritrovo serenità. Forse ho sognato tutto, forse sto sognando adesso. Niente ha un senso, o forse sono io che non lo voglio vedere. Voglio solo finire il mio allenamento, non chiedo altro.
Ancora una volta per favore.
"Dove vai? Non ti rendi conto di quanto sia inutile?" La voce proviene da vicino, ma so che a pronunciarla è lui, ancora laggiù, chino per terra, con la sua divisa arancione e quelle ali che lentamente vanno avanti ed indietro, come un respiro. E non si è neanche voltato.
"Perchè non pensi alla ragazza del bar? Così magari capisci e perdiamo meno tempo". E ancora una volta obbedisco, rassegnato incapace di adarmene da lì, di dimenticare tutto ed incominciare.
Penso alla ragazza ed istantaneamente sono lì, seduto al bancone del bar. Lei sta preparando un caffè e distrattamente guarda fuori, con l'aria contrariata, cercando di captare cosa sia capitato laggiù, visto che in lontananza vede i lampi blu accendersi e spegnersi. Sento i suoi pensieri, come se le leggessi dentro. Si sta preoccupando perchè mi ha visto passare una volta sola. E il suo sguardo mi passa attraverso, come se non fossi lì. 
E si sta preoccupando per me?
"Allora, ti facevo molto più brillante", ritorna la voce al mio fianco. "Naturale che si sta preoccupando per te, non sei più passato. E tu sei là, fattene una ragione. Sei tu quello, e lo sai da subito. Puoi anche andare anche al Polo Sud, e basta che ci pensi per farlo, ma ovunque ti sposterai mi sentirai sempre di fianco a te. E' perfettamente inutile e hai passato già troppo tempo a scappare, anche "in vita", hai capito o devo essere ancora più esplicito? E adesso basta con le cazzate, muoviti".
Ed in un lampo sono di nuovo lì. In piedi, in silenzio di fianco al gruppetto che è aumentato. Non ho il coraggio di guardare, di guardarmi. Ho paura e vorrei urlare, ma so che non succederebbe niente. Lui sente la mia paura, sento che lo sa, e mi parla con voce pacata, sempre chinato, sempre dandomi le spalle. "Parla con lui e soprattutto ascoltalo con attenzione, almeno questa volta". Non si è girato, ma so che sta indicando quell'uomo seduto tranquillo sulla panchina in ombra sotto i platani, mentre sfoglia con noncuranza un giornale.
Mio padre.
Bello, forte come quando era giovane e pieno di speranze. L'ultimo ricordo che avevo prima di adesso era del suo corpo disteso sul lettino dell'ospedale, quando la sua anima era già sgusciata via per sempre. Sono contento di avere questa nuova immagine da sovrapporre, alla voce "ultima immagine di mio padre".
Mi saluta sorridendo senza alzarsi e batte il palmo della mano sulla panchina perchè vada a sedermi accanto a lui. E di fianco a lui la mia età improvvisamente si trasforma e mi sembra di aver perso quarant'anni, dieci per volta, in quei quattro passi che non esistono e che mi hanno portato diritto da lui. L'emozione è troppo forte, non so cosa dire, me ne erano rimaste troppe di parole inespresse in un angolo del cuore che adesso, risvegliate, non riescono uscire tutte insieme e si bloccano. Piango.
Mi mette una mano sulla spalla, la sua mano, così calda, conosciuta e familiare, nonostante il tempo passato in sua assenza e mi calmo, incredibilmente sereno. Sa di buono, respiro il suo odore. E sto di nuovo bene, sto veramente bene, ho di nuovo quella sensazione di euforia, di abbandono da ogni forma di dolore ed è incredibile. Ho smesso di cercare di comprendere, prendo il momento come viene. "Ascolta" mi dice "non abbiamo molto tempo, per cui tutto quello che hai da dirmi dovrà aspettare altre occasioni, e stai tranquillo, verranno, non ti preoccupare. La faccio breve: non è ancora questo il tuo momento. Hai ancora da affrontare troppe cose e non puoi fuggire via così, sarebbe ancora una volta troppo comodo. Devi darti da fare, crescere ma sul serio, occuparti di chi ha ancora bisogno di te; basta che pensi a tua figlia. Devi assolvere a pieno il tuo compito, sempre che tu abbia capito quale sia. E se non l'hai ancora capito è il caso che ti sbrighi. Non hai poi così tempo. E ricorda che comunque vada, ho fiducia in te. So che ci avrai provato. E che adesso farai la cosa giusta. E adesso devi andare".
Dalla tasca estrae un mazzetto di fotografie. Le apre a ventaglio, come un giocatore di carte, le osserva sorridendo e ne estrae una che mi porge. Ci sono mia figlia quand'era piccola, seduta sull'altalena e lui, con gli abiti da giardino, su una panca vicina, che parlano in uno dei tanti momenti solo loro. Scherzosamente mi dà un buffetto sul mento e sorride "il mio ingegnere", pronuncia orgoglioso. Poi tranquillo, riprende la lettura del suo giornale.
E sono di nuovo in piedi di fianco a quella divisa arancione, con le ali che spazzano pigramente per terra.
"Forza, deciditi", dice l'uomo con le ali. Mi chino sul corpo ma inciampo, non ho corpo, il mio è li. Non riesco a guardarlo. Ho paura a vedermi senz'anima.

Qui si sta bene, mi viene da pensare. Ho ancora tante domande. Dammi tempo
"Egoista". tuona lui, guardandomi severo.
Voglio fare un altro giro, l'ultimo penso, sentendo che lui mi ascolta contrariato, anche se nuovamente è chino sul mio corpo.
"Non c'è tempo. Forza, deciditi". Poi aggiunge: "Te lo ricordi l'oroscopo? Entrerà nel vostro cuore una persona speciale, dando una scossa decisa alla vostra vita. Dai, persona speciale, è ora che entri. Ed attenzione alla scossa decisa". Sorride.

E rientro.

"Ancora una volta per favore!" Ma la voce non è la mia. Poi: "Libera!" e la scarica elettrica del defibrillatore mi colpisce in pieno. E lento, il mio cuore, pigramente riprende la sua corsa. 

Mi risveglio con un dolore pazzesco al braccio ed al petto. Sbatto gli occhi per capire: sono disteso e c'è un gruppeto di gente che mi circonda. C'è anche la ragazza con gli occhiali ed appena i miei occhi spaventati incrociano i suoi, le si riempiono di lacrime.
Il paramedico è lo stesso, Con i capelli bianchi ed i baffi, mi guarda e sorride ma non ha più...
"Le ali... Scusi, dove ha messo le ali?"
"Ali?" Ma quali ali? Stia tranquillo, che adesso la portiamo in ospedale, è stato fortunato sa?. Per un attimo pensavo che non ce l'avrebbe fatta".
In un attimo mi caricano sulla barella, e da lì dentro l'ambulanza. Prima che l'autista chiuda la portiera compare la ragazza, ancora con gli occhi lucidi. "Ti è caduta questa, prima la tenevi così stretta" mormora confusa. e me la porge, sfiorando con le sue lunghe dita le mie. Le sorrido da dietro il finestrino, mentre l'ambulanza parte a sirene spiegate.

Ho in mano una foto, tutta spiegazzata. Di mia figlia quand'era piccola sull'altalena e mio padre su di una panca vicina, che parlano in uno dei tanti momenti solo loro.
Dietro una dedica.

E voi non saprete mai cosa c'è scritto.

8 commenti:

  1. Peeeeerò!!!!!, e mi hai fatto di nuovo venire gli occhi lucidi.

    RispondiElimina
  2. troppo bello, mi hai emozionato con questo racconto sei davvero bravo!.... Hai tramesso la voglia di cambiare di sentirsi vivi e di rinascere in un'altra dimensione, con l'aiuto di chi anche se non c'è più è sempre lì a fianco a noi per colmarci di bene e darci la forza di rimprendere in mano la nostra vita mettendo al primo posto i veri valori della vita.

    RispondiElimina
  3. @ giò: Lo dici solo perchè si avvicina la data della mia firma sul tuo assegno!!! E leva quelle cipolle dalla scrivania!
    @ mati: Grazie per le belle parole, ho in serbo una piccola sorpresina apposta per te, che pubblicherò appena posso. Ultimamente devo anche lavorare!
    diamanterosa: Grazie infinite, proprio come le tue fragole
    D&R

    RispondiElimina
  4. Che meraviglia! Ho letto tutto d'un fiato, ma le parole che porterò nel cuore di quanto hai scritto sono queste:

    "Te lo ricordi l'oroscopo? Entrerà nel vostro cuore una persona speciale [...] Dai, persona speciale, è ora che entri.".

    Ti abbraccio.

    RispondiElimina
  5. @Ify: me la sono riletta ancora una volta, stasera, grazie a te. E mi fa sempre lo stesso effetto.

    RispondiElimina
  6. mi ricordo di averlo letto in quel 2009... e non aver avuto il coraggio di commentare.
    sonia

    RispondiElimina
  7. @Sonia: beh? cosa fai ancora lì con la Gina (o la Pina?) ancora nei paraggi?, Sù che non siamo mica qui a dar da mangiare agli ornitorinchi!!
    Alè, che la data per tornare in corsa si avvicina!!

    RispondiElimina