lunedì 3 settembre 2018

Mille splendidi sogni (quasi) infranti - Parte II

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Passo a casa da Renè. Sono sfatto, deluso, incazzato e amareggiato. Una birra insieme per smaltire la ferale notizia e decidere sul da farsi. Per me è un disastro, ho il morale sotto le suole, oltretutto sto benissimo, mi sento in perfetta forma.... fintanto che non penso anche solo a provare un passo di corsa. Lui cerca di farmela prendere con filosofia. "Intanto fino a qui sei arrivato - mi dice - hai già fatto tantissimo, ti sei allenato per correre una mezza, e quello difficilmente lo perdi. E' vero, abbiamo fatto pochi lunghi né preparato i lunghissimi, ma per il momento pensa a guarire, poi quando ti daranno il via ci penseremo. Stai tranquillo, a Parigi ci andiamo comunque, mal che vada ci consoliamo con lo champagne e dimentichiamo mogli e guai con le belle donne del Crazy Horse!!". Nonostante la delusione bruci, sorrido.

Dopo qualche giorno inizio con la fisio. Lo strano è che, disteso sul lettino, mi si chiede di fare degli esercizi dolci, lenti, senza sforzo, apparentemente inutili, a mio modo di vedere. "Appena senti fastidio o fai fatica smetti, qui non devi fare il maggior numero di volte una cosa, ti si chiede di farla bene ma soprattutto lentamente, accompagnandola con il respiro". Sali il gradino e scendi il gradino, ruota la gamba e riportala al centro. Gli esercizi da pensionato, li chiamo io (astenersi ogni commento). Niente corsa, vietatissima. Niente esercizi di forza, niente di nulla. Massaggi rilassanti, un po' di sedute di laser e qualche antinfiammatorio. E poi esercizi, esercizi e ancora esercizi, la mattina prima di andare a lavorare, la sera prima di coricarmi e ogni due giorni al centro. Una volta ogni tre, quattro sedute, Dante (il responsabile del centro) mi vuol vedere, tasta l'infiammazione, ne segue i punti maggiormente dolenti ma vede progressi "stai recuperando bene", mi dice. 
Trattengo il fiato, mentre porto avanti i miei esercizi con un muro di ostinazione da montanaro quale sono. Non penso più a Parigi, non spero nulla. Lavoro e terapia, terapia e lavoro. 
Dopo due settimane inizio con una lenta cyclette. Dopo tre, Erika mi fa un cenno verso il tapis roulant. "Due minuti a passo veloce, niente corsa". Il passo veloce forse è troppo veloce, ma non dice niente, un po' sorride. I due minuti finiscono subito. Non ho male. Lei è soddisfatta "ma la strada è ancora lunga", mi dice. E così recupero, lentamente ma accade, il male è solo un sospiro lontano, ma non è mai completamente svanito. E andiamo avanti con gli esercizi, mi si corregge se ci metto troppa foga, e mi si premia ogni volta a fine seduta con qualche minuto in più sul tappeto. 
Un giorno arrivo e mentre sto per dirigermi verso il lettino lei mi manda sul tapis roulant. "Cinque minuti di corsa, vai come ti senti" 
Vado che mi sento da Dio, vado che non correvo così da quando mia mamma mi inseguiva con la ciabatta in mano pronta per il lancio (disciplina di cui era campionessa olimpica) per qualche marachella combinata. Vado che sembra tutto passato, non sento dolore, ho solo voglia di correre e sembra che sia ancora abbastanza capace, anche se alla fine mi ritrovo con il fiatone ed il battito a mille. 
"Sei praticamente guarito" sentenzia Dante dopo qualche sera "anche se faremo terapie di conserva fino al giorno prima della tua partenza, la pubalgia a volte sa essere una grandissima stronza...." Esco toccandomi in tutti i posti possibili e non, incrociando anche le dita dei piedi. La sera stessa telefono a Renato e lo metto al corrente della splendida notizia. Lui, però, frena il mio entusiasmo e mi riporta sulla terra. "Hai perso quasi un mese, il più importante, per una maratona - mi dice - e la nostra è oramai alle porte. Non c'è tempo per finire la preparazione, ricominciamo da capo e vediamo di arrivare dove riusciremo. Ma non ci importa, in fondo, no? Adesso fila a farmi due giri da 5 e dopo mandami lo screenshot dei tempi, così vediamo come allenarti. 
E così facciamo. E molto del tempo restante lo divido tra allenamenti, terapia e... ah, sì, pure lavoro e briciole di famiglia. Marzo è clemente, mi regala scampoli di primavera, le ripetute anche la sera tardi non mi gelano più le ossa. Riprovo a misurarmi e far diventare abitudine prima i quattordici, poi venti e infine i venticinque km, ma ad un certo punto è finito il tempo. E' ora.
Dopo i baci a profusione dispensati alla mia Ciccia, declinato l'invito ad indossare il braccialetto elettronico gentilmente offerto dalla consorte e una energica stropicciata alla gatta partiamo alla volta della casa di montagna, dove troverò mia mamma (che adora Renè, anche se anni fa l'aveva cacciato fuori dalle cinta murarie senza tante cerimonie..), lasceremo l'auto e prenderemo il TGV alla volta della Ville Lumière. 

E' venerdì pomeriggio, siamo due ragazzini in vacanza, mia mamma ci ha caricati di ogni ben di Dio ("chissà cosa vi faranno mangiare quei mangialumache"), non abbiamo una preoccupazione al mondo. Per tutta la durata del viaggio non facciamo che parlare e scherzare, raccontare di corse e montagne e poi ridere e far ridere le altre persone presenti nello scompartimento. Renè non è mai stato a Parigi, non avremo tanto tempo (la corsa è domenica, ma già lunedì in giornata ripartiremo) però qualche angolo voglio farglielo proprio scoprire. 
Arriviamo alla Gare de Lyon che sono le dieci circa di sera, prendiamo la metro e raggiungiamo l'hotel per lasciare i bagagli (e scoprire che per un errore dell'agenzia ci hanno riservato un letto matrimoniale alla francese) ma ne usciamo subito, siamo elettrizzati, Renè non sa di essere a un tiro di schioppo dalla Tour Eiffel e riesco a portarlo vicinissimo senza fargliela scorgere e poi, di colpo, dietro un palazzo scenograficamente gli appare, luminosa, scintillante, maestosa, con la Parigi e la Senna a fargli da sfondo. Ne rimane affascinato, ha gli occhi spalancati, non se l'aspettava, tanta esplosione di luci, lo sfarzo dei grandi boulevards; questa è Parigi, la mia Parigi, che mi sussurra piano "Bon retour, tu m'as manqué".
Quella sera giriamo senza meta: percorriamo l'avenue Kléber, lui rimane a bocca aperta di fronte al lusso del The Peninsula Paris, decidiamo che la prossima volta che torneremo ci meriteremo senza dubbio una stanza in quell'hotel e sicuramente con letti separati. A due passi dall'avenue de la grande Armée entriamo in un pub, ci gustiamo due medie Affligem alla spina (che diventerà ufficialmente la "nostra" birra della maratona) che sono una vera delizia, il titolare Victor è gentile e dopo pochi minuti siamo lì a chiacchierare come vecchi amici, della nostra corsa di dopodomani, dell'Italia e della vita a Parigi. Torniamo in hotel che sono passate le due di notte. Passeremo la mezz'ora successiva a cercare di svegliare il portiere di notte, quest'ultimo in piena fase REM.

Il giorno dopo, freddo e nuvoloso, trascorre in fretta tra recupero dei pettorali, una gita alla Défense la mattina ed un pomeriggio da turisti tra ponti, il quartiere latino, l'Ile de la Cité. Entriamo a Notre Dame in punta di piedi, Renè è decisamente colpito dalla maestosità del luogo, i rosoni imponenti, i colonnati altissimi. La sera una bella corsetta di riscaldamento, e infine un'ottima cenetta in una tipica Brasserie che avevamo adocchiato poche ore prima. 
Poi presto a dormire. Sarà il fatto che domani correrò la mia maratona, sarà molto più probabilmente il fatto che nel letto alla francese uno di noi due è di troppo, ma il sonno stenta ad arrivare. 

L'indomani mattina sveglia presto, le sei e trenta e siamo già a fare colazione, seguo i consigli di Renè, dobbiamo fare il pieno di energia senza appesantirci e poi via, verso Avenue Foch poco distante. Arriviamo all'Arc de Triomphe che schiarisce e fa ancora freddo ma lo spettacolo è già impressionante, migliaia di runner che si cambiano, si appuntano il pettorale, fanno riscaldamento, si incoraggiano, un fiume festante di uomini, donne, ragazzi, runner improponibili con panza da bevitori di birra, signore di una certà età tenaci come l'acciaio, la moltitudine è assolutamente incredibile, siamo circa cinquantacinquemila, come se tutti gli abitanti di Cuneo si mettessero a correre. Tanti gli occhi di quelli intenti a trovare la giusta concentrazione, ma ovunque mi giri vedo sorrisi, tanti sorrisi. Renè ha gli occhi della tigre anche se questa volta non potrà partire davanti come suo solito. E' concentrato, mi porta avanti, mi spiega che le partenze sono a scaglioni in funzione del tempo previsto e non dobbiamo rimanere intruppati. L'Avenue degli Champs E'liseés è stracolma. 

Quarantadue chilometri e centonovantacinque metri mi aspettano.

Partono i primi, i professionisti, quelli che in due ore e pochi minuti avranno già finito, esili come gazzelle e con una falcata da paura. Poi, man mano, gli altri. A un certo punto tocca a noi.  Adrenalina a mille, il conto alla rovescia scandito da tutti e poi lo sparo e via! sulle le note della musica di Momenti di Gloria di Vangelis a tutto volume. Unico, meraviglioso e impetuoso, il mondo si muove a passo di corsa. Percorriamo tutta la lunghissima Rue de Rivoli in un fiato, passiamo place de la Bastille, Renè continua a dirmi di rallentare, saltiamo il primo punto di rifornimento e da lì in poi corriamo con meno gente intorno, sciolti. Correre qui è un'esperienza irripetibile, i tuoi passi leggeri e veloci sono la consapevolezza di quello che sei, che sarà poco ma è tutto quello che ho e che sono, un sognatore sempre, ed è un'emozione la gente che ti incoraggia leggendo il tuo nome sul pettorale, i bambini sulle spalle dei genitori che aspettano che tu gli dia il cinque, i pompieri sulle autoscale sopra di te, le innumerevoli bande con i tamburi che ti danno il ritmo, le famiglie con i cartelloni che incitano i loro papà, bello bello, e poi tutt'intorno Parigi, Parigi e ancora Parigi, I tetti, le cancellate, i marciapiedi, l'aria di Parigi, respiro e mi inebrio, un passo dopo l'altro, la magia della Ville Lumiére scorre veloce sotto le suole. Passato Bois de Vincennes la fatica mi viene progressivamente incontro, le gambe sembrano dirmi che solo a quello le avevo preparate, mica posso pretendere di più, Renè invece è fresco come una rosa e ne approfitta del ritmo improvvisamente più turistico per baccagliare ogni fanciulla (d'oltralpe e non) che gli capiti di incrociare. Quando comprendo di aver davvero finito la benzina avverto il mio compagno e rallentiamo, voler mantenere il ritmo previsto non ha più alcun senso, purtroppo dovevamo metterlo in conto. Il lungo tratto in saliscendi sotto i ponti è il più duro. Il "muro dei 30 km" è rappresentato da un muro in polistirolo e noi ci passiamo sotto corricchiando, con gli incitamenti della gente assiepata. Da lì all'arrivo sono solo più dodici km e rotti, tento di ricordare quante volte li ho fatti come un nulla, ma a questo punto, con i polpacci che tirano ed il fiato che raschia i polmoni, sembrano dodicimila. Alterno corsa a camminata, sono sfinito, ogni punto di rifornimento è un miraggio, ma poi si recupera un po'. Al Bois de Boulogne Renè mi si affianca e mi dice se me la sento di finire in volata. Finire? Ma finire cosa? "Tra poco passiamo i quaranta, non sarebbe male tirare un po' sul serio". Accetto, gli confido che non ce la farò mai ma non sarà male morire stramazzando nelle vicinanze dell'arrivo, cerco di impartirgli alcune brevi disposizioni testamentarie. Lui, incurante del mio stato, impietosamente parte deciso e io, dietro, scopro di avere ancora briciole di energie nascoste, sfiliamo veloci e  in quella manciata di chilometri di parco mi sembra di superare il mondo, chi cammina, chi corricchia sfinito, ci sono diverse persone sdraiate ai lati e aiutate dal personale delle ambulanze, il tempo sembra non finire mai. 

Poi improvvisamente invece si ferma. 

Un'ultima curva e, su Avenue Foch, con gli austeri palazzi a far da cornice e l'Arc de Triomphe sullo sfondo, al termine di un lungo rettilineo si staglia unico, imponente e meraviglioso, l'arrivo. Renè si fa da parte per farmelo gustare da solo, sento solo i miei passi a martellare la strada, il mio cuore che batte, le braccia che mi spingono avanti, è per questo momento che mi sono preparato, è per questo che sono serviti gli allenamenti con la pioggia, le ripetute al Ruffini, le cadute nel buio, la fisioterapia, è per quel mio voler ostinatamente continuare a sognare che arrivo con un'ultima energica spinta, e ho finito, quarantadue chilometri e centonovantacinque metri, ce l'abbiamo fatta, ce l'ho fatta, passare lì sotto e fermare il cronometro, la consapevolezza di esserci riuscito è da brividi sulla pelle, mi forma un groppo alla gola che mi emoziona, continuo a dire bello, bellissimo con i pugni serrati, il personale all'arrivo distribuisce energiche pacche sulle spalle a tutti, l'adrenalina di molti si scioglie in lacrime, abbraccio Renè, abbraccio chi finisce insieme a me, Renè cerca di abbracciare le runner più carine. Riceviamo la medaglia un po' pacchiana, che indossiamo con malcelato orgoglio e ci facciamo scattare una foto insieme, Renè sembra reduce da un picnic, io da un bombardamento. 

Il resto di quelle magiche giornate rimangono ricordi solo nostri, che non possono interessare a nessuno. In valigia, oltre alle nostre medaglie - la maglia la indosseremo orgogliosamente durante il viaggio - porteremo qualche regalo per i nostri cari, un paio di bottiglie di Chablis per mia mamma (che apprezzerà) ed i mille frammenti che costruiranno il ricordo di questa splendida avventura insieme. Come un passaggio da Narnia, il TGV ci riporta velocemente alla vita di tutti giorni, alle nostre quotidianità, mentre il recente passato comincia già ad avere i contorni di un bellissimo sogno, così come è giusto che sia. 



Il sogno non si è infranto. E ne restano ancora molti altri

4 commenti:

  1. Ho pianto. Ecco.
    Mi è sembrato di essere lì, quasi come ti avessi seguito per tutto il percorso.
    E mi hai fatto pure venire voglia di tornare a Parigi.
    'Naggia...

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    1. Che scrivo da far piangere me lo dico anche io, spesso.
      Ma grazie.
      E ricorda che "Parigi is always a good idea"

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  2. Complimenti: più che leggerti è stato un gran bel "partecipare". Grazie!
    Paola

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