E così, tra una settimana sarà già passato tutto. Guarderò il mio piede tagliuzzato, vedrò una fasciatura pulita, tasterò con le dita una nuova cicatrice e sentirò male, forse, o forse no.
Di sicuro non sarò in studio, come adesso, come sempre.
Di sicuro riuscirò a fermarmi almeno tre o quattro giorni, come non capitava da tempo.
Ho tutta una settimana davanti ed è già finita, il carnet di ballo è già pieno. Ho da girare come una trottola, vedere i cantieri aperti, uno lunedì, due martedì, uno mercoledì e uno giovedì. Avrei da andare ancora a Genova, per lavoro ma anche no. Poi venerdì mattina prestisssimo si va a rimettere in sesto il tendine di cristallo, a fargli la revisione, il tagliando e la lucidata finale. Ci sarà con me il mio amico Renè, "l'invincibile", come gli avevano tributato su un giornale quando aveva vinto la maratonina di Pertusio in 1h,11'31".
Guarderemo insieme le nostre montagne, indicando quelle su cui siamo saliti, insieme o separatamente, scherzeremo, come facciamo sempre, e inizieremo a programmare da subito le nostre prossime mete comuni. Ha d'impulso accettato a farmi da coach per permettermi di portare a termine la mia prima maratona: lui invece ne ha già corse tante, e vinta anche qualcuna, anche se lo ha fatto quand'era giovane, gli dico sempre io. Ed insieme abbiamo deciso di levarci finalmente di mente il Gran Paradiso su cui nessuno dei due chissà perchè era mai salito ed infine di salire la normale al Cervino, alla quale avevamo voltato le spalle anni fa senza troppi rimpianti, dopo una lunga e pensosa occhiata a tutte quelle lapidi.
Questa settimana ho fatto un pò di tutto: ho corso, ed anche meno penosamente del solito, anche se correre a 5.22" al chilometro qualcuno obietterà che non è correre (ed avete perfettamente ragione), ho arrampicato, ho ripreso la moto, l'ho pure fatta cadere per guardarmi in giro e me la son tirata su da in mezzo la strada, duecento chili alzati a braccia e da solo. Risultato: son tre giorni che ho un mal di schiena fottutto e che quelli dello studio sghignazzano e mi dicono che non ho più nè l'età nè il fisico. Della testa non lo dicono, so che lo pensano, ma in quanto capo... No, ripensandoci bene, mi dicono anche questo.
E, sentite bene, ho arrampicato PER LAVORO. Per Lavoro! In pratica, mi pagano per arrampicare! Oddio, pagare è una parola grossa, un rimborso benzina o poco di più, mi ripagano il tempo che ingegneristicamente parlando dedico loro, ma per me è un regalo. Un pò come quando mi chiamano da Genova per lavoro. Sì perchè il sottoscritto, insieme al suo socio minoritario - o minorato a seconda dei momenti - effettua periodicamente il controllo dell'efficienza di ben due e dico due palestre artificiali di arrampicata. Piccoline, niente a che vedere con quella di via Braccini, eccertoche, ma così, almeno due volte all'anno è sicuro, garantito al limone, che arrampico.
Oddio, in realtà ci facciamo un panaro tanto, a controllare l'efficienza di tutti gli ancoraggi, a stringere dadi e bulloni a sforzarsi e a digrignare i denti, stando appesi in posizioni precarie fino a non sentire più le mani. E poi che questa volta il mio socio - mercurio, l'ho ribattezzato per la sua capacità liquida di sgusciare in ogni occasione - si è addirittura dimenticato di prendere "soltanto" le scarpette da arrampicata e l'imbrago, la fatica è stata doppia e solo mia.
Ma quando hai finito, comunque, quando sei tornato sotto, disteso sui tappetini a guardare in su, ancora con le scarpette strette e l'imbrago con i moschettoni infilati, beh in quel momento ti senti decisamente soddisfatto. Contento di te, felice di aver ritrovato gesti, nodi, pensieri riposti con cura in un baule e che ritornano, immediati, freschi e vivi.
Già da quando sei con lo zaino addosso, pesante e con il rumore tintinnante di ferraglia che ti accompagna ti senti un altro.
Inizi con la corda. La svolgi, con gesti ampi e lenti. Ci vogliono capi comodi per fare i movimenti senza inutili costrizioni. Poi calzi le scarpette, e le leghi strette, più strette ancora. Infine tiri fuori dallo zaino imbrago, rinvii, moschettoni e cordini.
E mentre ti leghi, con gesti misurati, ti senti sereno.
Poi.
La magnesite è una magia.
Te la metti; anzi no, non è così. E' il gesto che fai.
Lo faccio prima di salire, un poco discosto dalla parete: sposto la mano all'indietro, quella destra quasi sempre. Infilo le dita unite nel sacchettino che è pinzato all'imbrago con un moschettone piccolo, forse viola.
Il gesto è automatico, preciso, deciso. Il sacchetto è sempre lì dove deve essere. Senti il morbido rivestimento dell'interno del sacchetto. Senti l'impalpabilità della polvere, che aderisce alle dita quella che basta.
Guardi in su, studi la via, il percorso migliore, gli appigli gobbuti e colorati. Su in cima, un poco in ombra, la catena, l'arrivo. Nel frattempo hai unito le mani, premi forte le palme una contro l'altra, Esce uno sbuffo di polvere bianca, sottile sottile.
"Vado", dico di solito.
Le due dita sul primo appiglio lasciano la consueta impronta bianca. Ti ripeti mentalmente le cose da fare, le posizioni da tenere, piedi in fuori, tallone basso, peso contro la parete. E' bello inventarsi qualcosa, ogni tanto, un passo incrociato, una presa a mano rovescia. E' bello, sentire i muscoli far male un poco, solo il giusto.
Il rinvii appesi all'imbrago tintinnano toccandosi, rassicuranti. Quando arrivi al moschettone prendi il rinvio, tiri su la corda che tieni ferma con i denti di solito, poi ti assicuri e prosegui.
La corda non è una sicurezza, è di più. E' la tranquillità che ti dà alla testa, la certezza concreta che non cadrai, non potrai, assolutamente, che rimarrai al limite appeso come un salame se sbagli, ma che non può capitarti niente. E' con questo spirito che sali.
Ti fermi, se il passaggio è difficile. Può capitare che ti prenda una vaga forma di malessere, che non è paura, ma ci è lontana parete, che ti si avvicina e ti gira in testa.
Allora ti fai mettere in tiro, punti i piedi, rimani appeso ad un appiglio con una mano, il braccio in tensione, l'altro lo lasci penzolare, scuotendolo un pò per eliminare l'acido lattico di troppo.
Così facendo sei inclinato in fuori. Studi di nuovo la via, rimetti la mano nel sacchetto; non servirebbe ma quel gesto spazza via le ombre, rilassa. Avvicini le dita alla bocca, soffi via in un sottile sbuffo la polvere in eccesso. Riprendi.
Tre, quattro, cinque movimenti e sei in cima. Pigli un cordino, te lo leghi all'imbrago e con un moschettone a ghiera ti assicuri. Sei arrivato, e chi ti assicurava può riposare anche lui.
Guardi sotto, il vuoto non ti fa nessun effetto, non puoi. Hai lavorato bene, le mani ti fanno piacevolmente male, stai bene, soddisfatto. Hai "risolto" il problema.
Questo è arrampicare. Questo è il bello dell'arrampicata.
E questo adoro fare.
Inizi con la corda. La svolgi, con gesti ampi e lenti. Ci vogliono capi comodi per fare i movimenti senza inutili costrizioni. Poi calzi le scarpette, e le leghi strette, più strette ancora. Infine tiri fuori dallo zaino imbrago, rinvii, moschettoni e cordini.
E mentre ti leghi, con gesti misurati, ti senti sereno.
Poi.
La magnesite è una magia.
Te la metti; anzi no, non è così. E' il gesto che fai.
Lo faccio prima di salire, un poco discosto dalla parete: sposto la mano all'indietro, quella destra quasi sempre. Infilo le dita unite nel sacchettino che è pinzato all'imbrago con un moschettone piccolo, forse viola.
Il gesto è automatico, preciso, deciso. Il sacchetto è sempre lì dove deve essere. Senti il morbido rivestimento dell'interno del sacchetto. Senti l'impalpabilità della polvere, che aderisce alle dita quella che basta.
Guardi in su, studi la via, il percorso migliore, gli appigli gobbuti e colorati. Su in cima, un poco in ombra, la catena, l'arrivo. Nel frattempo hai unito le mani, premi forte le palme una contro l'altra, Esce uno sbuffo di polvere bianca, sottile sottile.
"Vado", dico di solito.
Le due dita sul primo appiglio lasciano la consueta impronta bianca. Ti ripeti mentalmente le cose da fare, le posizioni da tenere, piedi in fuori, tallone basso, peso contro la parete. E' bello inventarsi qualcosa, ogni tanto, un passo incrociato, una presa a mano rovescia. E' bello, sentire i muscoli far male un poco, solo il giusto.
Il rinvii appesi all'imbrago tintinnano toccandosi, rassicuranti. Quando arrivi al moschettone prendi il rinvio, tiri su la corda che tieni ferma con i denti di solito, poi ti assicuri e prosegui.
La corda non è una sicurezza, è di più. E' la tranquillità che ti dà alla testa, la certezza concreta che non cadrai, non potrai, assolutamente, che rimarrai al limite appeso come un salame se sbagli, ma che non può capitarti niente. E' con questo spirito che sali.
Ti fermi, se il passaggio è difficile. Può capitare che ti prenda una vaga forma di malessere, che non è paura, ma ci è lontana parete, che ti si avvicina e ti gira in testa.
Allora ti fai mettere in tiro, punti i piedi, rimani appeso ad un appiglio con una mano, il braccio in tensione, l'altro lo lasci penzolare, scuotendolo un pò per eliminare l'acido lattico di troppo.
Così facendo sei inclinato in fuori. Studi di nuovo la via, rimetti la mano nel sacchetto; non servirebbe ma quel gesto spazza via le ombre, rilassa. Avvicini le dita alla bocca, soffi via in un sottile sbuffo la polvere in eccesso. Riprendi.
Tre, quattro, cinque movimenti e sei in cima. Pigli un cordino, te lo leghi all'imbrago e con un moschettone a ghiera ti assicuri. Sei arrivato, e chi ti assicurava può riposare anche lui.
Guardi sotto, il vuoto non ti fa nessun effetto, non puoi. Hai lavorato bene, le mani ti fanno piacevolmente male, stai bene, soddisfatto. Hai "risolto" il problema.
Questo è arrampicare. Questo è il bello dell'arrampicata.
E questo adoro fare.
Nemmeno se mi imbalsamassero. Dillo un pò.
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