venerdì 3 agosto 2012

Era mio padre


Era questo mi girava nella testa da un po', quando ho raccontato di aver il prurito da post. La voglia di parlare un pò di lui, del mio grande. Ma avevo bisogno di cose e di tempo,  di lasciar andar le dita a metter giù parole, senza far ordine, e non è facile. 
Già, non so se scrivere di lui sia per me facile, così come non mi è mai stato semplice ogni confronto, ogni sguardo nel profondo dei suoi occhi, o qualsiasi lembo del nostro tempo insieme: con tutta probabilità ne verrà fuori un'accozzaglia confusa e contorta, poco organizzata, un poco caotica, buttata giù come mi verrà. Siate clementi, sarò quasi sicuramente eccessivamente prolisso ma non è per voi che scrivo, è per me come quasi sempre ma stavolta non solo, anche se chi vorrei davanti a queste righe non può più sentirle, presumo. Per cui non leggete che è meglio, è giusto che sia solamente io, a sprecare del tempo. E non vorrei esser travisato, non voglio certo con questo incuriosire  spingere invece alla lettura. 

Quella parte marina cucita sottopelle, quella cadenza altalenante che mi ritrova puntuale quando incrocio quel mare di lì mi arriva da lui, partito da un piccolo paesino - quel paesino - della Riviera Ligure con un diploma di geometra in tasca e che a diciott'anni aveva trovato il suo primo impiego in un'impresa di costruzioni, qui a Torino. Il suo colloquio di lavoro l'aveva fatto con uno dei due titolari che, prendendolo in prova, gli aveva detto: "Le spiego la sua posizione all'interno della nostra azienda: Lo vede questo cane? E' la nostra mascotte, ha fatto la resistenza. Bene, la sua figura si colloca proprio proprio lì. Davanti a lei ha tutti quanti, a partire da me fino all'ultimo apprendista stuccatore, e dietro solo il cane. Però c'è un vantaggio. Le assicuro che non avrà alcuna limitazione, nessun ostacolo nella salita, se ne avrà voglia e capacità". 
Mio padre, che odiava quel pulcioso bastardo che allora attentava alle sue caviglie, ha abbandonato in fretta il suo compagno in graduatoria ed ha risalito uno alla volta tutti i gradini, fino a diventarne il Direttore Generale, di quell'impresa. E gli ha dedicato la sua vita, i suoi giorni più intensi, buttando l'anima in un lavoro in cui credeva senza riserve, assimilando e affinando le capacità, dimenticando orari e festività, imparando a gestire uomini e cantieri sempre più importanti, contribuendo ad aumentare le potenzialità di quell'azienda, meritandosi sempre la stima e la considerazione di tutti, e trattando con lo stesso rispetto ogni persona, sempre, dall'ultimo dei carpentieri al personaggio pubblico più in vista. Sacrificando la famiglia? Forse. Forse una parte, forse gli affetti se non sono coltivati e innaffiati dalla vicinanza e da altrettanta dedizione, con il tempo si allentano. 
In ufficio, alle spalle della sua scrivania, tra foto di gru altissime e monumentali armature strutturali, campeggiava un quadretto con una scritta: "Siete qui per aiutarci a risolvere un problema o voi SIETE il problema?" Così, giusto per mettere a proprio agio l'interlocutore. 

Non ho ricordi d'infanzia di noi due insieme. So che c'era, che c'è sempre stato, ma il compito di farci crescere ed educarci è sempre toccato a mia madre, donna energica e di grande carattere. Lui è sempre stato "Il Generale" della nostra famiglia, quello delle decisioni importanti ed indiscutibili, delle punizioni sopra le righe, quando servivano - e nel mio caso servivano spesso, della nostra viva (quasi sempre la "mia") preoccupazione quando veniva pronunciata la classica frase "questa sera lo dico a papà". 
Sicuramente sarà capitato che mi sia seduto sulle sue ginocchia da piccolo, avremo certamente giocato insieme a pallone al parco la domenica, o ci saremmo abbracciati un sacco di volte ed io avrò sentito la sua barba pungermi e quel suo odore, di tabacco e dopobarba, ma non ne ho più tracce nella memoria: e so che, forse con una lenta trasformazione, non potrei dire quando, parlare con lui si è tramutato in un processo ostico e faticoso, e di lì in avanti per me è diventato improponibile confidarmi e per lui sforzarsi di capirmi. Stupidamente ci siamo accontentati delle nostre strade, affiancate ma distinte, e così è che ad un certo momento delle nostre vite quel magico ed unico rapporto che esiste da sempre tra un padre ed un figlio si è incrinato, assottigliato, anche se forse mai completamente spento. E non abbiamo fatto caso alla spinta leggera che ci ha fatto allontanare, lentamente ed inesorabilmente.

"I figli di grandi uomini non saranno mai uomini così grandi" è stato uno uno di quei luoghi comuni che mi han sempre perseguitato. Perché io, un grande uomo come padre ce l'ho avuto. Ne ho sempre scherzato, vedi Bruto che fine ha fatto fare al patrigno, vedi Mastro Geppetto e Pinocchio, vedi che anche Fillippo II di Macedonia  è stato un sovrano coi controcoglioni ma Alessandro Magno lo è stato di più, e che dire di Pipino il Breve e Carlo Magno, ma pare che per la legge dei grandi numeri, con le opportune eccezioni, la ragione stia da quella parte: In ogni dinastia che si rispetti, subito dopo un gigante, almeno la generazione successiva fa miseramente cilecca. 

E che mio padre sia stato sicuramente un grande uomo è un fatto. E questo non lo dico io con l'affetto sfrontato da figlio che può travisare la realtà, me lo dicono ancora adesso, a tanti anni di distanza dalla sua scomparsa, le persone che incontro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e chi ha lavorato con lui e mi onorano ancora dei loro ricordi, di aneddoti con lui protagonista, di storie di cantieri impossibili. Che non fosse uno comune lo leggevi in quello sguardo, puro e deciso: spiccatamente intelligente, onesto e con dei princìpi morali saldi, senza un tentennamento e che mi ha inculcato, sia stato io volente o nolente. Vibrava di energia in ogni cosa che faceva, era sempre attento e giusto nei giudizi, ponderati, mai avventati. Dalla vita e da suo padre sottufficiale di marina - un'esistenza spesa in giro per il mondo - era stato abituato a non essere un padre particolarmente affettuoso, almeno non con me, il suo unico figlio maschio, la sua speranza, il suo futuro.
Per me allora, di lì a sentire il peso di cotanto padre e pensar di trovarsi nel salto generazionale sbagliato, il passo è stato breve. Perché è facile sbandarsi, quando magari hai solo quindici anni e non sai neppure cosa immaginare di fare nella tua vita, e lo è quando ogni direzione è una strada nebbiosa, quando ogni tua briciola di energia buttata in un'idea o passione si spegneva in un attimo, sotto il suo giudizio. E anche se ti senti il figlio sbagliato di fronte a lui e le sue speranze, se il confronto con le sue aspettative ti vede perdente sempre, arriva il momento in cui qualcosa ti cambia di dentro ed il confronto diventa una guerra, per la voglia di emergere, di controbattere alle derisioni, per dimostrare che. E nel frattempo cresci, e anche se non te ne accorgi, la tua strada, la tua vita, il tuo futuro incominciano a delinearsi, a trovare forma e respiro. Non è facile, fa rabbia, fa male, e lui con la sua solida concretezza è sempre un passo avanti, e i suoi giudizi sono sempre feroci, lame di rasoio, palle infuocate che cadono proprio dove sanno che bruciano meglio. 
E quanto mi è bruciato, all'inizio della mia professione, il più delle volte essere identificato come "il figlio del geom. D&R". 
Non è stato facile per me, ma ho poi imparato che è stato molto peggio per lui. Per lui che forse non sapeva bene come si abbraccia un figlio, ma che mi amava - perché un padre non può non amare suo figlio, semplicemente non può perché non dipende da lui, io l'ho imparato su me stesso - che ha visto che era la mia strada che si allontanava, ma che ha continuato a far finta di niente perché era giusto così, perché sapeva, conoscendomi, che solo contrastandomi, anziché consigliarmi ed appoggiarmi, probabilmente avrebbe ottenuto il meglio da me. 
E non so se ci sia riuscito, sinceramente no, almeno non completamente. Forse non tutte le sue aspettative le ho raggiunte, ma so che negli ultimi anni, osservando il mio impegno, era orgoglioso di me. E so che la prima volta che, molti anni dopo qualcuno al quale era stato presentato, sentendo pronunciare il nostro cognome gli aveva domandato se per caso lui era il padre dell'ing. D&R, sul suo volto si è aperto un sorriso grande così. Ed è lo stesso sorriso che illumina me, senza riserve, di un affetto sconfinato, le rare volte che accade ancora il contrario. 
Mio padre ha vissuto una vita vincendo. Affrontando e vincendo, tranne una volta, molti anni dopo, quando ormai io mi ero trasferito a Bucodiculoplace, e l'ingresso in scena della mia Ciccia aveva contribuito a riavvicinarsi. Con lei si era come leggermente addolcito, e le riservava attenzioni che non credevo nemmeno potesse avere. Avevano un rapporto intenso e delicato. 
Quando gli è stata diagnosticata quella malattia bastarda ha affrontato con piglio deciso la situazione e pianificato ogni cosa, come sempre. Gli esami, una clinica privata (vi ho fatti laureare tutti e tre per cui se devo schiattare almeno che sia in una camera da solo, immacolata, con un'infermiera possibilmente da film che mi coccoli se solo do un colpo di tosse), il chirurgo e persino l'anestesista sono passati sotto il suo occhio critico. 
Non ha pensato al dopo, non si è preoccupato che le cose non potessero andare come aveva deciso. Quindici giorni dopo l'intervento devo essere a casa, aveva detto. E così è stato. Dopo due settimane dall'intervento, la clinica firmava il suo foglio di dismissione e lui usciva, ritornando a casa.
E' morto il giorno dopo. Un'emorragia interna, imprevedibile, hanno poi sentenziato i luminari.
Il generale era caduto. Improvvisamente non c'era più quella solidità, la tranquillità di saperlo al suo posto. Aveva abbandonato il comando senza dare disposizioni, e l'esercito smarrito si è rapidamente sbandato e disperso. 
Non so quando sia successo. Non ne ricordo il giorno né il mese, vagamente l'anno, devo pensarci. So che era inverno. Non mi rimarrà mai in testa. Forse non voglio che quella data mi ci resti impressa, come se la fine, quella definitiva, non fosse mai completamente arrivata e ci sia ancora la possibilità di deviare, rimediare. E così, quelle rare volte in cui mi soffermo a guardare la foto sorridente della lapide, leggo la data e penso "ecco, è accaduto quel giorno", salvo poi dimenticarmelo subito dopo.

Perché ne scrivo?
Perché era mio padre, quell'uomo incredibile che ogni tanto ancora sogno e che mi sorride, con quel sorriso un pò stanco di chi ha combattuto tanto ma sa bene per chi.
Era mio padre, che mi ha fatto incazzare spesso, disperare qualche volta, e che ha dubitato così manifestatamente di me e delle mie capacità da far sì che io mi inventassi di tutto con tutta la rabbia che avevo addosso, per dimostrargli il contrario. E se ho raggiunto quello che ho, se riesco a stupire mia figlia con una matita in mano, se non riesco mai ad accontentarmi di me, gran parte del merito è suo.
Era mio padre, quell'uomo che non era al funerale di sua madre perché per ironia della sorte nelle stesse ore operavano mia madre al cuore e "In questo momento mia madre non ha più bisogno di me mentre mia moglie sì" e chissà quanto questo deve essergli costato.
Era mio padre che portava mia figlia a cavallo, e che la sera restavano fuori, insieme, a guardare le stelle e a raccontarsi le storie, ed era così bello, vederli così.
Perché so da chi ho imparato, a guidare come un matto.
Era mio padre che mi ha insegnato a camminare, ad andare in bicicletta ed a nuotare. 
Era sempre lui, che quella volta è toccato a me insegnargli qualcosa, portato su fino in cima alla Guglia Rossa, perché a lui dal giardino di casa nostra sembrava sempre così grande. 
Era mio padre, che ho poi saputo da altri, era così orgoglioso di me da sopravvalutarmi.
Era mio padre che è stato strappato dalla sua vita e da me quando ancora non era tempo, e quando ancora avevo così bisogno di lui.
Lo avessi qui, adesso, non so cosa vorrei dirgli: forse niente, forse non sarei ancora una volta capace di parlargli senza barriere, forse invece avrei voglia di riprendermi quello che non ci siamo permessi che ci capitasse, forse gli chiederei di capirmi e farsi capire, di aspettare, che alla fine le due strade tornano ad unisrsi in una sola, sempre che non l'abbiano già fatto da tempo. O forse invece lo abbraccerei semplicemente, per annusare e ritrovare il suo odore. 

Sapete? Le mie sorelle, le rare volte in cui ci parliamo, non mancano di commentarmi acidamente che "stai diventando esattamente come lui, tu che una volta lo criticavi così tanto".
Mai nessuno oggi, potrebbe farmi un complimento migliore.

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