lunedì 3 maggio 2010

Serbatoio inutile e confuso di cose da scrivere

A volte, sollevandomi dal grigio profondo delle parole inutili mai spese emerge un sorriso, striscia sottile di luce intensa: è quanto basta, nel momento, per scovare in tasca uno straccio piccolo e sdrucito di serenità, anche se non ne capisco con chiarezza il collegamento.

A volte, riprendendo vecchi discorsi persi vorrei ritrovare la completezza dei miei ragionamenti e finirli, una volta per tutte.

Vorrei fare il collezionista di sensi, già. Vorrei iniziare una catalogazione nuova per racciogliere emozioni, incontri ed umori spesi, ritrovando, sfogliandone le pagine, gli stessi colori intensi e gli odori di quei momenti, coperti dalla velina rugosa e giallina. Li catalogherei per anno, luogo, persona e giudizio globale.

"Oggi ti guardavo, perdendomi. Eri appoggiata morbida, educatamente composta sul sedile di fòrmica ed opaco acciaio, sul tràm della linea 16. Tu parlavi e parlavi, accompagnata nel ritmico sussultare, nello scuotersi metalllico del vagone sui binari, nei cappotti consunti, negli sguardi assenti catturati dalle pubblicità dondolanti appese al corrimano. Non sentivo, ormai definitivamente intrappolato nella rete di ragno che avevano intessuto i tuoi occhi. I filari degli alberi passavano veloci, dietro goccioline leggere, dimenticandosi istantaneamente di noi, delle tue parole regalate e delle nostre stesse esistenze. Lente macchine dai fanali accesi si incolonnavano disordinatamente ai semafori, i vividi colori al neon all'interno rendevano grigio tutto quello che pendeva fuori dai finestrini opachi ermeticamente chiusi. E non potevo fare altro che fissarti rapito, scrutando nel profondo di quegli occhi color castagna che mi fan sempre venir voglia di prenderti una mano, baciarne l'incavo del polso ed indovinare i battiti con la pressione delle labbra.
Lo scampanellio. Luce di fermata prenotata, sempre troppo presto.
La tua fermata, infine.

Sei scesa, senza una parola, senza sorrisi nè rimpianti. E nel silenzio più totale che mi circondava ti sei sciolta, confondendoti nella stessa nebbia che ti attendeva paziente sotto la pensilina.


Saranno almeno vent'anni, che non prendo più il 16."

Ho in animo di:
Continuare a scrivere di Paco. Mi ha telefonato e mi ha detto se son due mesi che è lì, fermo nella storia in quella stramaledetta sala del ristorante ed ancora non ha incontrato Sveva. Gli son venuti i crampi, poverino. 
Scrivere una storia intitolata "L'ultima volta". Comincia con: "Vi siete mai resi conto.. "
Scrivere una storia intitolata "L'uomo allo specchio". Comincia con: "Fuochi d'artificio.."
Scrivere una storia intitolata "Sogno ad occhi aperti"  Ed è un'evoluzione di questo
Scrivere una storia intitolata "Meduse". Comincia con: "nebbiolina, come in guerra di..."
Trovarne uno veramente, ma veramente bravo...
(In alternativa cambiare pusher....)
Ascoltarmi ancora una volta questa. Magari a voi ha stufato. Ma a me invece no.


Fate finta di niente, che oggi non mi capisco nemmeno io.
Ed ho detto tutto.

5 commenti:

  1. uhmmm, prima i leoni e le tigri, poi la ragazza sul tram e il sogno notturno, poi la gomma da masticare tra i capelli e ..."ti vorrei sollevare"...ahh che effetti fa la primavera!!! (o l'allergia ai pollini!).
    Che ne diresti, caro DR di una bella settimana di ritiro spirituale? Chessò, ovetto caldo la mattina? Profumo di glicine, i canti gregoriani...? Niente tv, radio, musica e tricchetracche? ;)
    Ciao!!

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  2. @Bruno: sto ancora ridendo!!!
    In realtà questo strano post è dovuto sì ad un effetto collaterale dell'allergia ai pollini ma
    principalmente per far pulizia nei post in modalità "bozza" che avevo.
    Comunque l'idea del ritiro spirituale.....

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  3. ...dopo una mattina...che non auguro a nessuno...mi fate ridere...la canzone favolosa :)...io invece propongo isola deserta...:))
    ...non troppo caldo...una giusta temperatura...senza troppo cibo...un buon libro...acqua intorno non troppo fonda...perchè non sò nuotare bene....e il mio ipod ;)
    ciaooo Vania

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  4. Ti do una mano, facciamo due ciascuno.

    Primo:

    Vi siete mai resi conto, salutando una persona, magari in fretta, che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avreste vista?

    Ci si saluta così, frettolosamente, come sempre, forse più di sempre: niente addii, niente parole finalmente dette, niente catenine o foto da tenere strette in ricordo.

    Un veloce ciao ciao, e solo il tempo ci farà capire che era l’ultima volta.

    Quella in cui lei salì sull’autobus e lui rimase a terra, fu solo la prima delle tante ultime volte di quella sua vita senza addii, e solo troppe cicatrici tra i ricordi che più degli altri urlavano al tempo.

    Secondo:

    Fuochi d’artificio. Festa per tutti, meno che per lui. Come copione non è neanche originale, festa fuori, ma dentro ad alcune delle case qualcuno solo, sofferente, abbandonato, o tutto preso a pagare i conti della sua vita.

    Lui si guardava allo specchio, e i solchi sul viso denunciavano decenni di dialogo interiore. Un dialogo duro, un corpo il cui urlo non aveva mai voluto ascoltare, tutto preso dalla sua vita dissoluta, quella in cui doveva dimostrare chissà cosa, di saper superare se stesso, saper superare il buon senso.

    E l’aveva superato il buon senso, l’aveva superato, ma poi si era fermato un attimo, distratto, e il buon senso l’aveva doppiato. Aveva capito tutto ciò che aveva fatto, e il suo corpo e la sua anima pagavano il conto salato delle sue bravate.

    Fuori ancora festa, ma lui manteneva la finestra alle sue spalle, e i fuochi d’artificio li vedeva riflessi nello specchio.

    A un certo punto, per un gioco pirotecnico finale, nel cielo alle sue spalle apparve un demone rosso: si voltò stupefatto ma, quando tornò a guardare lo specchio, la sua immagine non vi era più riflessa.

    Prima che si riprendesse dallo stupore, una forza inarrestabile lo tirò dentro; il diavolo fece un ghigno, e lo spettacolo di luci continuò indisturbato.

    Sarebbe dovuto vivere un po’ di più ma quello specchio, quel maledetto specchio, mostrandogli sul volto i segni della sua vita, quasi quasi lo stava facendo ravvedere e lui, il povero diavolo, non poteva rischiare così di perdere quell’anima che era sempre stata sua.

    Lo specchio, dopo aver ghermito la sua preda, si ricoprì di polvere come fosse abbandonato da cent’anni, e l’intera casa assunse lo stesso aspetto. Bisognava ora cancellare i segni della coscienza.

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  5. @Ify, mi hai dato una mano, a ricordarmeli. Sì, devo sempre scriverli. Il tuo numero due mi ha fatto venire i brividi.

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