giovedì 27 settembre 2012

A fare il solletico al cielo


Ed eccoci qui. Il materiale riposto con cura nello zaino, le fibbie chiuse, gli scarponi a riposare nella propria scatola, l'imbragatura liberata da tutta la ferramenta, anche se tra una settimana, per fortuna, so che la userò di nuovo. Un'altra esperienza nella tasca delle emozioni. Due giorni liberi, divertenti, intensi.
E' stata un'uscita diversa, non siamo arrivati fino in cima al "gigante di pietra" come ci eravamo prefissati inizialmente ma non importa, questa volta proprio non aveva senso rischiare. E infatti.

Ritrovo con Renè nel primo pomeriggio, la mia auto malatissima e forse vicina all'estrema unzione questa volta proprio non si può usare, prendiamo la sua. Abbiamo deciso di non portare i ramponi, doveva essere l'ultima uscita estiva ma ha nevicato tanto su, la scorsa settimana, poi però ha fatto nuovamente bello. Se sarà rimasta tanta neve tenteremo la cima, vedremo cosa troveremo.  Siamo in tre, c'è anche Daniele che con noi ha fatto solo due ferrate ma mai salite lunghe, però dalla sua ha quasi vent'anni di meno e gli torneranno parecchio utili. Partiamo.
La mèta questa volta è la cima del Viso a 3841 metri lungo la via normale, dal versante sud, con pernottamento in un bivacco, anziché al classico rifugio Quintino Sella o dal Gastaldi, dove tanti anni fa abbiamo combinato sfracelli che ancora ci ricordano. Questa volta abbiamo preferito tra tranquillità di un piccolo bivacco isolato per evitare la calca che si trova di solito, nonostante la scelta di due giorni infrasettimanali. 
Non metterò giù un racconto che riporti indicazioni di percorsi, tempi, e descrizioni utili all'orientamento. In rete se ne trovano un sacco, per salire ho sbirciato lì. Racconterò altro. Aggiungerò qualche foto. Proverò a spiegare le sensazioni, cosa vedono gli occhi, e cosa respira il cuore, lassù, quando l'orizzonte ti incanta e ti senti sospeso. Terzani spiega che "Il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare". Per me il senso della ricerca sta in ogni passo compiuto e nel cercare di indovinare in quali altri passi ti ritroverai domani, o tra un minuto. Sta nell'osservare, nell'annusare, nel vedere un mondo che si schiude al tuo passaggio e che si richiude alle tue spalle. Nell'ascoltare i colori, nel misurare la fatica, nel fermarsi ad osservare.

Il Monviso ci scorre veloce di fianco al di là del guard-rail, mentre ci avviciniamo in auto. Abbiamo deciso di prenderlo alle spalle. Ci infiliamo nella valle Varaita fino a Castello, il paesino che si specchia sulle acque della diga, prima di Pontechianale. Lì, ovviamente non si può non abbandonare la civiltà se non entrando in un bar per l'ultimo caffè come si deve e anche lì, altrettanto ovviamente, Renè incontra qualcuno che conosce, come quasi sempre in quasi ogni zona, rifugio o parte dove insieme siamo stati. Penso che se mai un giorno decideremo di attraversare i Sahara a piedi, fermandoci nell'oasi di Cufra incontreremo un tuareg che fissando il mio amico dirà: "Ehi Renè, abbiamo fatto insieme la maratona di Abidjan, ricordi? Quanto tempo!" 

Partiamo troppo tardi, probabilmente arriveremo con il buio ma non importa. La valle che porta su è un incanto. Quieta e profumata, con il massiccio imbiancato a far da sfondo, boschi di larici a perdita d'occhio ed il rumore costante del torrente che ci accompagna. Poca gente. Si sale, sbagliamo sentiero solo una volta e ci viene in aiuto un turista tedesco stupito che lui ha, come ci ha detto, "una cartina italiana" e noi no. Ma lui ignora che noi, sul Bianco, ci siamo andati con l'orientamento dato dalla "carta dei vini del Piemonte e della Valle d'aosta" nello zaino, non capisce che alla fine è meglio così, è meglio ridere, perdersi e ritrovare nuovamente la strada senza la noiosità di programmi troppo precisi.  

 Lo zaino è più pesante del solito, forse ho esagerato, prima di uscire di casa mi son pesato, ho un extra addosso di oltre 25 kg. Ma è una di "quelle volte". Perché noi, quelle volte che dobbiamo fare gli alpinisti seri allora ci si carica solo dello stretto indispensabile, perché il peso si sa, in montagna è fondamentale, le distanze e la fatica stremano, si dosano le razioni ed eventualmente si pensa a portarsi un moschettone in più. Poi però ci sono le volte speciali. Quelle in cui, per un'occasione particolare, un compleanno, una ricorrenza qualsiasi o anche solo la voglia di divertirci un po' più del normale si porta su ogni ben di Dio. Ho visto confezioni intere di Crodini da 12 uscire da zaini ricolmi, polli arrosti ancora fumanti, formaggi e salumi in quantità e varietà tale da poter aprire un negozio tra le vette. Per la verità ho visto una volta anche una pianola elettrica di tutto rispetto, per un concerto piano e quattro voci improvvisato sù, sulla cima di una montagna con un'eco che neanche all'Arena di Verona, alle 10 di sera (che per gli alpinisti seri equivale alle tre di notte delle persone normali), quella volta che con le pile, dal Gastaldi sono usciti per venire a cercarci e suonarcele loro, di santa ragione (era la famosa volta al Gastaldi), ma questa è un'altra storia. Ricordo chi aveva riempito talmente lo zaino da dimenticarsi di metterci gli scarponi e ha percorso un ghiacciaio con i ramponi calzati sulle scarpe da ginnastica, riducendone alla fine le suole, in tante striscioline sottili. Non si creda che siamo degli stolti incoscienti, comunque. Cioè, forse sì ma solo un poco. La montagna sempre e comunque esige rispetto e quel pizzico di timore che non devi spegnere mai. Anche noi abbiamo qualcuno che non è più tornato giù, e questo non si dimentica. Renè ha uno dei suoi ricordi più tragici proprio qui, su questa montagna. 


Questa volta il mio zaino contiene tutto il necessaire per l'aperitivo in quota - Bacardi breezer, noccioline, patatine varie, salse messicane - Una quantità particolarmente ricercata di salumi, un assortimento di birre, tre o quattro tipi di formaggi e come dolce un bùnet veramente spettacolare. 
Renè è Daniele non erano da meno, con il risultato che avevamo da bere e da mangiare per una ventina circa di persone. Per tutto il necessario invece ci siamo divisi equamente i compiti: per il tè, ad esempio lui ha portato il fornelletto la bombola ed il pentolino, mentre io ho provveduto alle bustine e allo zucchero.... beh anche all'acqua ed ad un cucchiaino, che tre pesavan troppo. 

Il percorso da metà in su non è una passeggiata di salute, si devono attraversare torrenti, ci si aiuta con le corde fisse, peraltro fissate veramente male. I boschi gradatamente si allontanano, le rocce diventano sempre più vicine, il percorso ostico, si comincia ad aver bisogno anche delle mani. Compare la prima neve, poi il primo ghiaccio. E quando il cielo si colora di rosso arrivano a farci compagnia un paio di stambecchi, vicinissimi, tranquilli e curiosi, per nulla intimoriti. 
Stanno un po' fermi a guardarci, in bilico con una naturalezza che fa invidia ed a un certo punto, semplicemente spariscono e non li vedi più. Inganniamo il tempo parlando di montagne, di noi sulle montagne, delle nostre salite. Parliamo qualche volta di troppo degli incidenti che ci hanno segnato l'anima e Daniele ce lo fa rispettosamente notare, con ripetuti gesti scaramantici. Quattro ore dopo circa, arriviamo qui.  Sta facendo buio. Il bivacco risplende delle luci interne, e la cosa non ci piace. Avevamo sperato di averlo tutto per noi. Entriamo. Siamo in undici. Due italiani, sei francesi e noi, loro tutti praticamente già pronti per andare a riposare. Il nostro arrivo li risveglia dall'apatia. Sono tutti imbaccuccati come Ambrogio Fogar al polo, noi arriviamo in pantaloncini corti, riscaldati dalla salita. Ci guardano increduli, uno domanda addirittura se siamo attrezzati. Ho voglia di rispondergli che no, abitualmente vado al mare a Riccione, ma non serve, dopo un paio di battute capisce. Il nostro show lo facciamo in sordina, non possiamo proprio disturbare più del dovuto. Certo, osservando tutte le cibarie tirate fuori dagli zaini qualche risata gli scappa, anche a tre degli alpinisti francesi, i più distaccati. Ci facciamo amici invece i due italiani non più giovanissimi, che hanno i letti vicini alle panche per cenare e che sono costretti da noi a riposare con la luce accesa. Ce li compriamo passandogli ogni tanto qualche genere di conforto - un pezzetto di salame, un bicchierino di limoncello, un bacio di dama - sono sorpresi alla vista di tutto quel ben di Dio. Si ride, piano, ma si ride. Stiamo bene. Isolati dal mondo. In questo guscio giallo del bivacco, intorno la notte più nera, il vento soffia che sembra voglia scardinare le lamiere. Dopo un pò esco. Ho voglia di guardare la notte, le stelle, il buio e farne improvvisamente parte. Ma il vento è così forte e freddo che toglie il fiato e piega in due. Rientro quasi subito con i brividi addosso. Ci prova Renè e ottiene lo stesso effetto. Saremo una decina di gradi sotto lo zero. Alle 22 siamo già a dormire, Renè è di fianco a me. Mi rifiuto categoricamente di dargli il bacino della buona notte. Proviamo a chiudere gli occhi, ma alla fine dormiremo poco. Non c'è riscaldamento ovviamente, il riscaldamento siamo noi. Il vento ha una violenza inaudita, ulula e precipita in folate rabbiose, si abbatte scuotendo le pareti, dà colpi secchi alle porte. Le correnti d'aria entrano comunque, spifferi gelidi si diffondono sotto le coperte. Le ore passano lentissime. Ci si gira, si cerca una posizione per provare a dormire, lì vicini a persone che non conosci e che come te non riescono a chiudere occhio, li senti. A tratti qualcuno russa,ma dura poco, il vento lo sveglia di nuovo. Verso le due circa la mia coperta mi scivola e finisce a quelli di sotto. Provo a rubare quella di Renè, ma ci si è avvolto come una mummia, impossibile. Rimarrò con il pile e le mani in tasca, tremando ogni tanto, ogni centimetro di pelle nuda viene attaccato dal vento gelido di fuori. 

Appena comincia a far chiaro siamo tutti in piedi, di cattivo umore. La temperatura è ancora bassa, ma è il vento che rende rischioso salire. Attendiamo, facciamo fuori qualche provvista. Intorno alle 7 arrivano da sotto due duri e puri, zaino piccolo, passo deciso. Saranno partiti alle quattro con il buio. Si fermano due minuti, parlottano, ci confermano che c'è troppa neve per tentare di salire senza ramponi e poi via, verso la cima. Dopo un attimo non li vediamo già più.
Un'ora dopo ci mettiamo in marcia anche noi. I francesi sono partiti mezz'ora prima, preceduti dai due italiani che abbiamo capito essere degli habituè di queste parti. I francesi tenteranno la cima, gli italiani probabilmente no, andranno al Quintino Sella, dipenderà dal vento. 
Daniele non ci accompagna, preferisce lasciare a noi l'onore. Rimarrà a riposare ed a fare fotografie. Lo riprenderemo al ritorno. 
Il freddo è intenso ma siamo ben attrezzati, gli zaini questa volta son leggerissimi, il passo è spedito. 
Il vento comincia a darci tregua, ma quando arriva sono rasoiate di ghiaccio che fan male. 
Si sale. Il tracciato è ben segnato. Il cielo non ha una nuvola, il ghiaccio riempie ogni fessura, increspa ogni specchio d'acqua, Nel frattempo arriva il sole, insidia le ombre delle cime sulle pareti opposte che pian piano si accorciano lasciando il posto al bianco abbacinante della neve, su un cielo blu scuro. 
Salire diventa improvvisamente una delizia, fresco e vitale. L'altitudine non toglie tanto fiato, stiamo bene. In breve raggiungiamo la quota dove la neve la fa da padrona, vediamo i francesi che abbiamo quasi raggiunto e scorgiamo da lontano il bivacco Andreotti

Ci rendiamo conto che non potremmo proprio andare oltre, lo strato di neve non permette di proseguire senza ramponi, rischiare così non ha veramente senso. Decidiamo che nostra salita terminerà qui. Una breve sosta al bivacco, ci riposiamo, per poi prepararci senza rimpianti a ripercorrere i nostri passi. 
Lo sguardo spazia intorno e si perde, Il blu scuro del cielo, il risplendere della neve, le montagne lontane abbracciate a cerchio, una catena e dietro un'altra e poi dietro un'altra ancora, la pianura fumosa di smog in lontananza. 

Le rocce plasmate da mani di giganti, i segni dei tuoi passi nella neve che diventano una traccia lontana, l'aria così fresca che solo quassù, il caldo del sole sul viso, il silenzio perché anche i suoni si propagano in modo diverso, più netto e distaccato. 
Lontano, distantissimo appare il mondo, laggiù tra la nebbia, e l'essere improvvisamente separati dalle cose, le grane, i problemi da una sensazione di equilibrio e di quiete.  
Prima di prepararci per la discesa osserviamo il gruppo dei francesi iniziare la salita senza legarsi in cordata. 
Noi due invece torniamo giù in fretta, ci ricongiungiamo con Daniele, un pasto sereno per eliminare quanto più possibile il peso in eccesso dagli zaini e poi di nuovo giù per il ritorno. Un'infiammazione a un legamento del ginocchio  trasformerà poi la mia discesa in un incubo e dopo troppe ore di agonia, assistito da Renè tramutatosi in amorevole infermiera, arriveremo finalmente alla macchina.
Sapremo poi, solamente il giorno successivo dai giornali, tornati alla nostra vita di sempre, che uno degli alpinisti francesi che abbiamo osservato allontanarsi, poi, proprio in questo stesso punto perderà la vita, sulla via del ritorno, scivolando sulla neve e fermandosi giù, sulle rocce sottostanti.

Perché non è uno scherzo, qui. Mai. 
Ma non vedo comunque  l'ora che arrivi la mia prossima volta.

22 commenti:

  1. Bellissimo quando non è chiaro il confine tra narratore e ambiente, tra Natura ed emozioni. Quando racconti delle montagne, della corsa, delle attività che pratichi la tua tastiera prende aria.
    Ciao Dr!

    RispondiElimina
  2. Ha ragione Bruno,
    c è aria che passa tra la tastiera e il video. si sentono gli spifferi e il profumo del formaggio che esce dagli zaini...
    sembra quasi di essere stati lassù con te, nascosti nel taschino più piccolo.

    RispondiElimina
  3. @Bruno, Sys: Grazie. Beh, devo dire che voi due, quando non fate comunella per prendilculeggiarmi, siete parecchio simpatici (vabbè, sì, l'ho detto adesso però basta con tutte 'ste smancerie!!)
    E... Sys.. A proposito del profumo del formaggio,... come dire... quello che usciva dallo zaino... forse erano i calzini, sistemati proprio a fianco del taschino! :-) :-) :-)

    RispondiElimina
  4. Ma noi non è mica che si faccia comunella per prenderti per il naso... cioè... sì un po' sì... ma non ci si mette d accordo...
    anzi.
    c esce proprio spontaneo e naturale ecco...
    ma solo un pochino.

    RispondiElimina
  5. WOW!!
    bello leggere di queste imprese.

    A quando la prossima?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Imprese... forse è una parola grossa. Assomiglia più ad una passeggiata lunga, in realtà.
      E pensa, ho arrampicato ben due volte in tre giorni, la scorsa settimana.
      (La palestra di via Braccini ci aspetta....)

      Elimina
    2. La palestra di via Braccini mi piace lo sai? ..devo recuperare le scarpette!!
      a presto

      Elimina
  6. Per tutta una serie di motivi riesco a leggere questo bellissimo resoconto solo ora. Ammetto di essere una persona molto marina, le montagne non mi appassionano particolarmente, pur avendole frequentate sporadicamente in gioventù. Però... nelle mie innumerevoli traversate aeree delle Alpi mi chiedo sempre cosa si provi... ed anche se lo nego, spero sempre con trepidazione che il cielo sia sereno ogni volta per potermele gustare, ed se non sono seduta vicino al finestrino mi alzo in piedi con la scusa di stiracchiarmi un po' e sbircio... il fascino è grande, è innegabile.
    Rimango sempre marina ma il mare lo si può utilizzare solo in modo contemplativo d'inverno... per cui magari chissà, quest'anno, una piccola riscoperta. Una mia amica mi ha già invitato, dalle tue parti, per una scarpinata... andranno comprati gli scarponi da trekking, che dici?
    Continua a raccontare le tue vette :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io sono marino per metà e montano per l'altra. Ogni tanto una parte prevale sull'altra: quando entro in Liguria non posso impedire che la mia cadenza assuma naturalmente una cadenza che è di là, adoro senza mezzi termini orizzonti diversi in momenti diversi. Non posso dire quale parte mi appartenga di più. Ma l'orizzonte dalla cima di una montagna da una sensazione unica, anche perché svanisce d'un lampo la fatica fatta per raggiungere la cima. E' impagabile.
      Per la montagna un paio di pedule sono d'obbligo. Se ti serve un consiglio chiedi pure.
      Racconterò, tranquilla. Prossima meta: Gran Paradiso.
      A presto!

      Elimina
  7. Mah, ho la sensazione di conoscerti già.
    Da tempo...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Impossibile.
      In questo mondo qui non ho dato il permesso di conoscermi a nessuno.
      Anzi, a volte penso di non conoscere neanche l'autore di questo blog. ;)

      Elimina
  8. noto solo oggi l'occhio dello stambecco...

    RispondiElimina
  9. Un post di ampio respiro! Il tuo racconto e le foto mi hanno portato sempre più in alto!
    Complimenti per l'impresa!

    RispondiElimina
  10. @Bruno: il flash... Di foto gli ne ho scattate tre o quattro, in tutte c'era il riflesso....
    @Monica: innanzitutto benvenuta e grazie. No, nessuna impresa in realtà, la definirei più una camminatona,. Ma lassù si respira veramente in maniera diversa.

    RispondiElimina
  11. Sul Gran Paradiso ci sono stata pure io.
    Così.
    Per dire.

    RispondiElimina
  12. Risposte
    1. e cosa credevi ci arrivassi gattonando? :D
      senti ma...
      hai finito di bighellonare ? non ti si legge da troppo eh... manco avessi da lavorare di tanto in tanto...

      Elimina
    2. Scusa, e tu cosa c'entri? Stavo parlando a quella che fuma, lì sopra...

      (E adesso non dirmi che saresti un'alpinista pure tu)

      Elimina
  13. Oddio mi gira la testa...
    ma chi?
    chi gioca in prima base?

    RispondiElimina