lunedì 20 gennaio 2020

Come nessun posto al mondo mai

Ieri ho chiuso per l'ultima volta la porta di quella che è stata la mia casa per trentanni.

Quello appena compiuto è stato un anno intenso, spigoloso spesso, ruvido sovente, in cui i miei occhi hanno subito troppe albe e si sono soffermati su così pochi tramonti da qualche parte sulla riva del mare.
E' stato un altro anno tosto, serrato come i precedenti ma sempre un poco di più, l'asticella del salto una volta ancora spostata più su di una tacca; ci sono stati momenti in cui, confrontandomi con la consueta chiacchierata serale mi sono lasciato andare ad un "non so proprio come riuscirò a fare tutto, questa volta", a cui seguiva sempre la stessa risposta "ce l'hai sempre fatta, alla fine".
E' vero. Alla fine ce l'ho sempre fatta. Ho accumulato ritardi e risparmiato sulle ore di sonno, ho sacrificato gli amici, le mie parole più vere qui, innumerevoli fine settimana. Ho accantonato il mio tempo più spensierato, molte delle mie corse, ripide pareti da affrontare ed ho detto pazientate, ci ritroveremo, prima o poi. 
Mi sono arrabbiato spesso con me stesso scoprendomi indolente e non sufficientemente produttivo alle volte, mi sono segnato impegni e scadenze sull'agenda settimanale, riportando gli incompiuti la settimana successiva, con un sottile piacere ogniqualvolta un tratto deciso di penna dava per terminato un lavoro. Ho fatto quasi tutto da solo,  testardo One Man Band dei progettisti, con la caparbietà montanara che sta diventando parte del mio modo di essere e di pensare, tollerando poco niente, in quello che mi sta intorno, che non va come dovrebbe.
Quest'anno ha visto cambiamenti importanti in casa D&R, a partire dalla maturità delle Ciccia oramai definitivamente non più ascrivibile al titolo di "mia piccola", il suo conseguente ingresso nel mondo universitario, con la scelta della facoltà di Psicologia, fortemente voluta e pensata fin da quando era piccola (... fa solo che non mi diventi come Bruno) ed il naturale stravolgimento di orari, abitudini, percorsi e vita. 
Si è lasciata andare la casa in cui ho vissuto la mia prima vita a Torino e quando si devono svuotare le stanze i ricordi ti travolgono, ti trapassano, ti sommergono, tornano fuori prepotenti angoli di te che eri sicuro di aver dimenticato. 

La felicità sta veramente nelle piccole cose, nella luce che filtra dalle persiane il primo giorno d'estate, in mia madre che la mattina lottava con un me piccolo per infilarmi le calze appena sveglio, nella mia tazza della colazione e la granella del Buondì Motta che mangiavo sempre come ultima cosa preziosa. 

E senza quasi volerlo, in uno scatolone richiuso da tempo ritrovi la tua fresca giovinezza lì pronta ad aspettarti, scorrendo le dita su un foglio consumato sporco di china rivedi come proiettato sul pulviscolo che danza nella stanza quel te di allora che in fondo non è mai cresciuto, un po' schivo, chino e concentrato a disegnare di notte alla luce della lampada da tavolo, col buio di questa città un po' magica a fare da cornice, la finestra aperta a rinfrescarsi dalla calura estiva e le cuffie nelle orecchie. Ho ritrovato frammenti di me inutili e bellissimi accarezzando vecchi mobili consumati dal percorso delle mie proprie dita, ho ritrovato paure e felicità improvvise, risentito vive le voci ed i rumori della domenica, il profumo del sapone da barba di mio padre, l'apparecchiare per il pranzo con il servizio buono e la radio accesa: mi riavvolge come fosse ora il silenzio colmo di apprensione di quando da ragazzo vegliavo nel sonno di quella famiglia che eravamo noi, un padre una madre e due sorelle e un bene grande e saldo che rappresentava tutto il mio mondo, ed ascoltando il respiro regolare dei miei pregavo Dio di regalarmene tante da non poterle contare, di quelle notti e silenzi e respiri quieti nel sonno. 
Avrei voluto congelare ogni momento ritornato luce, avrei voluto essere l'io di mille istanti che mi hanno accompagnato in questi giorni di armadi aperti e fogli strappati e scatole richiuse con il nastro da pacchi. 
I miei genitori non mi accompagnano più da troppo tempo, anche se ogni tanto mi confronto ancora con loro, gli chiedo silenziosamente se stia facendo le scelte giuste, a loro rivolgo il pensiero apprensivo di padre quando osserva orgoglioso la propria figlia crescere. Ieri, nascosto nei pacchi di vecchie foto, nei biglietti di auguri di compleanni dimenticati ho trovato ancora intatto il loro amore ed orgoglio nei miei confronti. Sono cosciente che buona parte dei ricordi custoditi tra queste pareti e che mi hanno abbracciato in questi giorni si dissolveranno definitivamente ed è questa, la perdita più importante, in fondo. Mi sono portato via degli oggetti, il divano che mio padre adorava, il tappeto persiano del suo amico architetto, qualche libro con le dediche di stima ed affetto che in molti gli avevano tributato. Forse non sono ancora pronto a perdere tutto. 

Ieri ho percorso per l'ultima volta le stanze di quella che è stata la mia casa per trentanni. Ho appoggiato le mani alle pareti spoglie, ai mobili rimasti, agli stipiti delle porte, agli interruttori della luce, ho rimesso la mia abitudine a quei luoghi, a quei rumori, a quella luce, al balcone di sala, al tramonto sul Monviso che solo da quella finestra, assaporando come se fosse musica lo scricchiolio del parquet. Ho appoggiato a lungo i palmi delle mani su tutto come se fosse un abbraccio, un pezzo alla volta, gli occhi umidi ma solo un poco, ripetendo a bassa voce grazie casa, ciao casa, sei stata una buona casa, sono stato bene con te, bene a crescere qui, a coltivare speranze e sogni, grazie. 
E nel silenzio dell'abbandono mi è sembrato quasi di sentire, lieve, il respiro quieto di una famiglia felice nel sonno.

Poi ho chiuso la porta.  

11 commenti:

  1. Quando poi scrivi così, in stato di grazia, ti si perdona anche la lunga assenza.
    Ad maiora semper, Ing.

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  2. 2 vaffanghiul: 1. perché questo post mi ha commosso e odio piangere in posti che non siano il mio bagno di casa 2. perchè spera che tua figlia rifulga di psicologia e saggezza come il sottoscritto

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  3. ... ti devo una birra...

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  4. @Syssa: l'assenza non è voluta. Ma grazie.

    @Bruno: Addirittura 2? Credevo che piangessi solo nello spogliatoio del campo da tennis! E la mia piccola a psicologia, quella la devo ancora assimilare....

    @Anonimo: Sei prevedibile ^_^

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  5. Quando scrivi così, mi fai dimenticare di essere un bravo Ingegnere professionista .... e mi sovviene in mente che sei un eccellente Scrittore ( con la S maiuscola ) sottratto alla buona Letteratura !
    Questo tuo post, in cui (ri)prendono vita gli oggetti, le pareti, gli arredi, le Persone care della tua casa, regge il confronto - a mio "nonerrante" giudizio - col racconto UNA GITA AL PARE di Virginia Woolf !
    Che aggiungere ???
    Beh .... che vorrei leggere uno di questi tuoi post al giorno : il mondo mi apparirebbe assai più bello da vivere !

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  6. Oh .... l'emozione,che strani giochi mi suscita :
    dele "UNA GITA AL PARE", adde UNA GITA AL FARO !

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    1. Grazie dal profondo del cuore, Ser Cavaliere, per i complimenti ed il paragone sicuramente immeritato. Leggere un commento così fa iniziare nel migliore dei modi la giornata!

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  7. Ma vedi, amico mio ... il pezzo che hai scritto ( e che regge il confronto con LA GITA AL FARO ... ), mi ha commosso assai, e mi ha ricordato il Post "Tecnicamente", scritto dall' Ing. @Aquilanonvedente una decina di anni fa, allorchè fece ritorno nella sua vecchia casa in cui aveva vissuto i primi trent' anni della sua vita, la casa che stava smantellando, cercando di scegliere cosa salvare di essa ... e cosa affidare al rigattiere : ma ogni cosa, li dentro, era legata a ricordi indissolubili e finì, penso, per portarsi tutto dietro !

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  8. E' questo :
    "In questi giorni è riemerso improvviso e robusto il ricordo di mia madre.

    Non tanto della mamma tenera e affettuosa dell’infanzia. No, i ricordi che affiorano sono quelli dei suoi ultimi mesi di vita.

    Ogni volta che entro nella casa dei miei genitori per svuotarla è come se ricevessi una pugnalata dritta al cuore. Raccatto svogliatamente alcune cose ed esco, poco persuaso di doverle gettare.

    Ogni volta che esco sul balcone rivolgo lo sguardo a quello vicino, ricordandomi quando spuntavano fuori i miei genitori e la piccolina (allora sì piccolina) correva incontro alla ringhiera per salutarli.

    Ogni volta che guardo la piccola sedia di ferro, un po’ arrugginita, in un angolo dello stesso balcone, mi sembra di vedervi mia madre seduta di spalle, china su un libro o un giornale.

    E quando cucino per me e la piccolina ripenso a quando facevo da mangiare anche per lei e a quanto ancora desidererei farlo.

    E poi la rivedo nel suo camminare lento e strascicato, nei suoi ragionamenti sempre più confusi, nel suo aspetto sempre più deperito.

    E poi la rivedo nei suoi – e nei miei – momenti di rabbia, in quelli di rassegnazione, in quelli di richiesta d’aiuto; nella sua accettazione della casa di riposo e dei suoi ritmi di vita.

    E in tutti questi momenti io mi ritrovo egoista, disattento, inconsapevole dei suoi bisogni e delle sue debolezze.

    Lo so che tecnicamente sto ancora nella fase di elaborazione del lutto.

    Lo so che tecnicamente sto nella fase dei sensi di colpa.

    Lo so che tecnicamente sto nella fase di bisogno di condivisione del dolore.

    Lo so che tecnicamente sto nella fase di rescissione del legame e di accantonamento dei ricordi.

    So benissimo tutte queste cose, però tecnicamente io mi sento comunque un po’ stronzo."

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