Ci sono al massimo tre posti dove mi sento in maniera assoluta e confortante a casa. Nessuno di questi è dove vivo attualmente.
L'ultimo in ordine di apparizione è il mio studio, con grande disappunto della consorte, ma che volete farci, è mio, l'ho realizzato praticamente con le mie mani e ne conosco ogni goccia di colla a caldo che lo tiene insieme, è comprensibile.
L'altro è la casa in montagna, che sono quelle cime aguzze così vicine, dai vetri della finestra, il giardino con gli abeti maestosi che sono cresciuti insieme a noi e la stanza dove è nata mia madre che adesso è diventata la sala. E' anche lo spazio che custodisce il mio più lontano ricordo di bambino: avevo tre, forse quattro anni ed il veterinario era venuto a porre fine alle sofferenze del vecchio pastore tedesco di mia nonna.
L'altra è qui. Non so se sapete dov'è, ma è, a detta di tanti, uno tra i luoghi più belli d'Italia. Per me è unico, ma per motivi esclusivamente miei. Qui hanno trascorso la loro vita insieme i miei nonni paterni, qui è nato mio padre e qui ho passato tutte le mie vacanze estive per quasi trent'anni. L'aria che ho respirato, che odora di mare e frittura, di grida del mercato del sabato e della risacca nella notte quando il mare sembra placido e sonnolento, quell'aria mi è entrata dentro ed ha lasciato tracce indelebili prima di uscire. Questo posto mi appartiene. O io a lui, è uguale.
E se chiudo gli occhi un istante mi sembra subito di sentire il tacchettare degli zoccoli che, scendendo rapide scale dai gradini diseguali, rimbalzano sui muri di carugi stretti e scrostati. Ed ecco subito dopo l'arco la fontana della Compagnia, dove andavamo a dissetarci da bambini dopo le estenuanti partite a calcetto sul piazzale assolato della chiesa, con il muretto, le panchine e gli oleandri profumati. Ritrovo nei miei pensieri mai dimenticati Tony e Fabrizio, i miei amici da adolescente, le loro case, le loro famiglie e le nostre risate intatte.
Ecco Musetta, la nostra barchetta, che dondola pigra sull'acqua di quel minuscolo porticciolo. L'avevamo portata giù legata sul tetto della Fulvia, in un viaggio epico. E la prima volta che l'abbiamo messa in acqua ci siamo saliti su in quindici ed è affondata subito, ed abbiamo perso il motore.
Questo posto sono tanti fotogrammi, tenuti legati insieme con l'elastico.
E' il caldo d'estate, torrido, che dopo pranzo ti obbligavano a riposare nell'attesa di poter uscire di nuovo, è la processione di persone in fila per recarsi al mare, ed i trecentoepassa gradini ad andare e quelli molto più lenti e pesanti a tornare indietro. E' la spiaggia della Fossola, di sassi lisci e tondi e di un'acqua così trasparente che nessun mare per me sarà mai così. E' la focaccia profumata, calda e salata che la mattina presto portava su lentamente mio nonno dal forno del paese e che stranamente andava a nozze con il dolce del caffelatte. E' la domenica alla messa e mia nonna che ci andava apposta in ritardo perché "Chi vuol esse ben guardata vada a messa cominciata" e poi le paste, enormi, a pranzo. E' la salita faticosa al Santuario, una volta all'anno, su per sentieri che si perdono tra i terrazzamenti dei vigneti. E' la frescura all'interno della chiesa e tutti gli ex voto dei marinai che mi affascinavano sempre, con quei quadri colorati raffiguranti navi bombardate che affondavano tra le fiamme e persone con le mani alzate e la madonna che sbucava da sopra una nuvola.
E' quella casa, vecchia e brutta e penso di non aver mai abitato in una casa più vecchia e più brutta e bellissima, con le persiane verdi con le bacchette per lasciarle scostate, con l'odore dell'origano che riempiva le stanze e i fili da stendere che cigolavano e mia nonna che prepara i ravioli sul tavolo imbiancato di farina.
E se chiudo gli occhi un istante mi sembra subito di sentire il tacchettare degli zoccoli che, scendendo rapide scale dai gradini diseguali, rimbalzano sui muri di carugi stretti e scrostati. Ed ecco subito dopo l'arco la fontana della Compagnia, dove andavamo a dissetarci da bambini dopo le estenuanti partite a calcetto sul piazzale assolato della chiesa, con il muretto, le panchine e gli oleandri profumati. Ritrovo nei miei pensieri mai dimenticati Tony e Fabrizio, i miei amici da adolescente, le loro case, le loro famiglie e le nostre risate intatte.
Ecco Musetta, la nostra barchetta, che dondola pigra sull'acqua di quel minuscolo porticciolo. L'avevamo portata giù legata sul tetto della Fulvia, in un viaggio epico. E la prima volta che l'abbiamo messa in acqua ci siamo saliti su in quindici ed è affondata subito, ed abbiamo perso il motore.
Questo posto sono tanti fotogrammi, tenuti legati insieme con l'elastico.
E' il caldo d'estate, torrido, che dopo pranzo ti obbligavano a riposare nell'attesa di poter uscire di nuovo, è la processione di persone in fila per recarsi al mare, ed i trecentoepassa gradini ad andare e quelli molto più lenti e pesanti a tornare indietro. E' la spiaggia della Fossola, di sassi lisci e tondi e di un'acqua così trasparente che nessun mare per me sarà mai così. E' la focaccia profumata, calda e salata che la mattina presto portava su lentamente mio nonno dal forno del paese e che stranamente andava a nozze con il dolce del caffelatte. E' la domenica alla messa e mia nonna che ci andava apposta in ritardo perché "Chi vuol esse ben guardata vada a messa cominciata" e poi le paste, enormi, a pranzo. E' la salita faticosa al Santuario, una volta all'anno, su per sentieri che si perdono tra i terrazzamenti dei vigneti. E' la frescura all'interno della chiesa e tutti gli ex voto dei marinai che mi affascinavano sempre, con quei quadri colorati raffiguranti navi bombardate che affondavano tra le fiamme e persone con le mani alzate e la madonna che sbucava da sopra una nuvola.
E' quella casa, vecchia e brutta e penso di non aver mai abitato in una casa più vecchia e più brutta e bellissima, con le persiane verdi con le bacchette per lasciarle scostate, con l'odore dell'origano che riempiva le stanze e i fili da stendere che cigolavano e mia nonna che prepara i ravioli sul tavolo imbiancato di farina.
Manco da lì da quando è mancato mio padre ed altri ci si sono insediati. Non ci sono più andato per rispetto, ma questa è una storia lunga e forse anche difficile da comprendere. Ma quel posto continua ad appartenermi, è parte di me, come un braccio o una gamba. Non l'ho perso. Semplicemente non posso farlo.
Ma ho l'assoluta convinzione che se, adesso, improvvisamente venissi catapultato in un punto qualsiasi del paese lo riconoscerei all'istante, da un lampione sbilenco o dal soffio del vento, senza dover voltare lo sguardo per orientarmi. Lo capirei probabilmente anche ad occhi chiusi. E mi ritroverei a casa. Rivedrei la cucina con l'acquaio in pietra, il pavimento in linoleum giallo e le vetrine con i bicchierini per i liquori, disposti ordinatamente in fila. Ritroverei un sorriso ripensando alla festa ed alle risate che c'era tra tutti quando si andava a prendere la farinata dalla Pia, così calda e croccante e ricorderei lo spavento di quella volta che mio padre era stato punto con una tracina andando a pesca e ce l'avevano riportato a casa più morto che vivo.
A quest'ora, adesso, dall'unica panchina della passeggiata della lissa, sotto all'albero contorto, il mare scuro che si è fuso nel cielo riempie completamente lo sguardo e c'è sicuramente quel silenzio di pace che è solo il rumore incessante delle onde. Le luci delle lampare all'orizzonte appaiono e scompaiono e quelle degli altri paesi, lontani sulla costa, sembrano cadere nel loro stesso riflesso tremolante. Preceduto dal solito scampanellio ogni tanto sbuca un treno dalla galleria ed il rumore dei vagoni che passano veloci improvvisamente riempie l'aria. Poi rimane indistinto il suono di ferro su ferro che piano si smorza e cade, insieme al turbinio di polvere ed a pezzi di carta che hanno volato impazziti per un minuto.
Ed ecco, sono veramente qui, appoggiato a quella ringhiera verniciata di azzurro di cui saggio la rugosità con la punta delle dita, che guardo il mare e ne respiro ancora una volta, forte, più forte ancora, l'odore.
Ma ho l'assoluta convinzione che se, adesso, improvvisamente venissi catapultato in un punto qualsiasi del paese lo riconoscerei all'istante, da un lampione sbilenco o dal soffio del vento, senza dover voltare lo sguardo per orientarmi. Lo capirei probabilmente anche ad occhi chiusi. E mi ritroverei a casa. Rivedrei la cucina con l'acquaio in pietra, il pavimento in linoleum giallo e le vetrine con i bicchierini per i liquori, disposti ordinatamente in fila. Ritroverei un sorriso ripensando alla festa ed alle risate che c'era tra tutti quando si andava a prendere la farinata dalla Pia, così calda e croccante e ricorderei lo spavento di quella volta che mio padre era stato punto con una tracina andando a pesca e ce l'avevano riportato a casa più morto che vivo.
A quest'ora, adesso, dall'unica panchina della passeggiata della lissa, sotto all'albero contorto, il mare scuro che si è fuso nel cielo riempie completamente lo sguardo e c'è sicuramente quel silenzio di pace che è solo il rumore incessante delle onde. Le luci delle lampare all'orizzonte appaiono e scompaiono e quelle degli altri paesi, lontani sulla costa, sembrano cadere nel loro stesso riflesso tremolante. Preceduto dal solito scampanellio ogni tanto sbuca un treno dalla galleria ed il rumore dei vagoni che passano veloci improvvisamente riempie l'aria. Poi rimane indistinto il suono di ferro su ferro che piano si smorza e cade, insieme al turbinio di polvere ed a pezzi di carta che hanno volato impazziti per un minuto.
Ed ecco, sono veramente qui, appoggiato a quella ringhiera verniciata di azzurro di cui saggio la rugosità con la punta delle dita, che guardo il mare e ne respiro ancora una volta, forte, più forte ancora, l'odore.